5 - Demetra
Perché in Italia non abbiamo posti del genere?
Continuo a domandarmelo da quando abbiamo messo piede dentro il negozio d'abbigliamento del campus. Ovunque ci sono top e T-shirt, felpe, giacche, berretti e sciarpe di ogni colore immaginabile, tutti marchiati 𝘔𝘔𝘜 o 𝘔𝘢𝘯𝘤𝘩𝘦𝘴𝘵𝘦𝘳 𝘔𝘦𝘵𝘳𝘰𝘱𝘰𝘭𝘪𝘵𝘢𝘯 𝘜𝘯𝘪𝘷𝘦𝘳𝘴𝘪𝘵𝘺.
«Questo come mi sta?» Marzia mi piroetta accanto con un crop-top arancione premuto sul petto.
«Bene.», le faccio rimettendo a posto una sciarpa. «Ma non è lo stesso modello degli ultimi due?»
«Sì, ma questo è arancione! Con la mia carnagione scura sta meglio, no?»
Valerio, poco distante da noi, sbuffa una risata prima di tornare a mettere in rassegna i berretti. Piazzata davanti allo specchio, Marzia continua ad essere indecisa tra il top arancione e quello grigio. Seguo i suoi movimenti con la coda dell'occhio, distrattamente, mentre accarezzo la stoffa delle felpe tra le dita per sentirne la morbidezza.
Sono bellissime, le classiche felpone che gli studenti indossano sempre nei film ambientati al college e che io ho sempre adorato. In quell'arcobaleno di tinte pastello, una in particolare attira la mia attenzione. È di un rosa delicato, senza cerniera, con il cappuccio e le maniche lunghe. La scritta 𝘔𝘔𝘜 è ricamata davanti, con filo bianco e argentato, a caratteri cubitali.
Mi metto in punta di piedi per raggiungere quelle oversize più in alto e me la sistemo addosso, specchiandomi e faticando a credere al mio stesso riflesso.
Sono qui, in un campus in Inghilterra, a scegliere qualcosa da adorare e conservare perché sarà uno dei ricordi di questo viaggio. Un viaggio e un sogno, quello di studiare teatro, perché la recitazione è l'unica salvezza che sento di avere, tutto ciò a cui mi sono dovuta aggrappare.
Un tocco sulla spalla, all'improvviso, mi fa ripiombare nella realtà. Il calore di quella mano sulla pelle che non avrebbe dovuto essere scoperta mi blocca il cuore. D'istinto mi volto indietro, scatto lontano. Tiro subito su il cardigan crollato verso il gomito, sentendomi terrorizzata. La pelle brucia, anche se la copro. Brucia e fa male al solo pensiero.
«Demi, sono io!» Gli occhi scuri di Valerio sono strabuzzati. La sua mano ancora sospesa a mezz'aria. «Stavo solo... cioè... ti stavo parlando ma sembrava ti fossi incantata, e così...»
Deglutisce, continuando a fissarmi. «Stai bene?», continua.
«Sì!», sputo d'un tratto. Il cuore mi pulsa nelle tempie. «Sì, sto bene! Ero solo sovrappensiero!» Abbozzo un sorriso, sforzandomi per renderlo credibile. «Mi hai spaventata, ecco tutto. Non...» Stringo forte la felpa tra le braccia, sperando quasi che mi protegga. «È che non ti ho neanche sentito avvicinare...!»
Marzia si avvicina a noi in quel momento, con una busta ciondolante in mano. «Che è successo?»
«Ma sei già stata alla cassa?» Svio in fretta, aggrottando le sopracciglia come mi avesse appena fatto un torto gravissimo. «Potevi aspettarmi, ho la felpa da pagare!»
«E io che ne sapevo?!»
«Vado adesso! Faccio subito!» Lasciandomi entrambi alle spalle mi dirigo verso la cassa. Socchiudo gli occhi, respiro profondamente e provo a calmarmi.
Devo calmarmi.
❈
Usciti dal negozio, dobbiamo muoverci in fretta per non fare tardi a lezione. Lungo il viale e per i corridoi del dipartimento evitiamo a stento di travolgere qualcuno. La busta del negozio mi sbatte contro i polpacci avvolti dai jeans mentre corriamo per raggiungere l'aula.
«La corsa me la sarei volentieri evitata!», si lamenta lui, frenando col fiato corto. «La prossima volta che vi viene la geniale idea di andare a fare shopping invece di rimanere con gli altri a fare colazione, non contate su di me!»
Marzia fa roteare gli occhi accarezzandosi la lunga coda di capelli neri.
Tento di sorridere, tutt'altro che rilassata dopo ciò che è successo al negozio. Di sottecchi, continuo a cercare qualche stranezza nell'atteggiamento di Valerio, uno sguardo diverso o qualche altro dettaglio, ma lui sembra aver già rimosso tutto. Forse non ha notato niente...
L'aula in cui si terranno le lezioni di Storia del teatro inglese è molto grande. Le file di posti a sedere sono disposte a più livelli, su gradoni che danno su una cattedra di legno scuro e una gigantesca lavagna magnetica. L'aria lì dentro sa di tabacco e caffè e il mormorio delle chiacchiere inglesi suona strano all'orecchio.
C'è qualcuno che ne approfitta per dormire un altro paio di minuti, qualcuno che ha già davanti il quaderno per prendere appunti, qualcun altro messaggia con espressione apatica. È incoraggiante rendersi conto che la situazione scolastica mattutina sia la stessa ovunque.
«Isa!» Valerio urla, allungando un braccio verso l'alto.
Dirigo lo sguardo nella sua stessa direzione, trovando il viso tondo e pallido di Isabella, il suo sorriso luminoso e gli occhiali tondi dalla montatura dorata. Vicino a lei ci sono Greta che legge uno dei suoi romanzi fantasy e Marco che sbadiglia.
«Ci sono posti là?» Valerio urla di nuovo per farsi sentire sopra al cicaleccio.
Isabella arriccia il naso e fa un cenno di diniego con la testa.
«Figurati se ci tenevano i posti, quelle due!» Marzia si sbatte un palmo sulla coscia, tutta spazientita. «A forza di leggere tutte quelle merde fantasy vivono in un mondo tutto loro, come rincoglionite!»
«Non è mica colpa loro se l'aula è stracolma...!», mi ritrovo ad aggiungere, provando a contrastare quell'acidità esagerata. Lei sventola una mano tra i nostri visi per mettermi a tacere.
«Qualche posto ancora c'è...» Valerio indica un sedile solitario in prima fila e altri due più indietro, nel mezzo degli spalti brulicanti.
«Voi andate pure a sedervi su. Io rimango qua, visto che ho la borsa grande.», faccio subito, dirigendomi verso il posto vuoto in prima fila. Evito gli sguardi di entrambi prima che si dicano contrari. So già che lo sono.
Spingo la borsa del negozio sotto il sedile mentre Marzia fissa atterrita le basette spesse e gli abiti vintage del ragazzo seduto là dietro. «Perché non lasci Valerio a tenerti la felpa e vieni su con me piuttosto?»
Non ho il tempo di rispondere ché un tonfo silenzia l'aula. Il docente ha lasciato ricadere i libri sulla scrivania per zittire tutti.
Mi siedo di scatto mentre Marzia e Valerio si fiondano sulla scalinata proprio lì accanto, salendo i gradini due alla volta e chiedendo a mezza fila di farli passare per occupare i posti centrali.
«Buongiorno. Io sono Mr. Willoughby, il vostro docente di Storia del teatro inglese.» Ha dei folti baffi scuri nonostante i capelli siano perlopiù grigi. I suoi occhi sembrano davvero severi dietro quegli occhiali rossi. «Il programma, come mi auguro abbiate già visto sul sito del corso, rivedrà le origini del teatro per poi focalizzarsi su-...»
Il lamento metallico delle porte dell'aula che si aprono lo interrompe bruscamente.
Un ragazzo si fa avanti, piuttosto pacato. La zip della felpa verde militare che indossa è chiusa fino allo sterno, lasciando intravedere la T-shirt nera che ha sotto. Le maniche raccolte attorno ai gomiti lasciano emergere i tatuaggi che gli colorano le braccia. Lo zainetto appeso alla spalla è floscio e piatto, e fa seriamente dubitare che contenga qualcosa. Si guarda intorno, scrutando gli spalti, finché non incontra lo sguardo arcigno e acido di Mr. Willoughby.
«Oh, buongiorno.»
«'Giorno anche a lei, professore.» Il ragazzo gli sorride e continua la sua ricerca di un posto libero.
Willoughby lo fissa, in silenzio. Batte il piede sul parquet, clicca di continuo il pulsante della penna. Si sta spazientendo e il viso paonazzo comincia a far paura.
«Le scale.», bisbiglio al ragazzo quando si fa più vicino. «Siediti sulle scale.»
Il ragazzo punta i suoi occhi grigi e un po' confusi su di me.
Saetto lo sguardo verso Mr. Willoughby e mi sembra di sentirlo ribollire dentro come una vecchia teiera. Tra poco comincerà a fischiare e l'aria gli uscirà dalle orecchie e dal naso. È sicuro.
Afferro il ciuccio neonatale che penzola dalla cerniera dello zaino del ragazzo e lo tiro indietro, spingendolo a sedersi sui gradini della scala accanto al mio posto.
Solo dopo il mio gesto, con un sospiro irritato, il docente riprende a parlare: «È bene chiarire sin da subito come mi piace lavorare. Ci sono due cose che dovete sapere di me: la prima è che odio essere interrotto e la seconda è che detesto i ritardatari.» Con lo sguardo inflessibile fulmina il ragazzo, e deglutisco io al posto suo. «Quindi non scomodatevi a presentarvi a lezione se siete in ritardo. Concedo solo tre ritardi giustificabili. Tre, per tutto il semestre.» Stavolta deglutiamo tutti, all'unisono. «Quindi... Mi dica il suo nome.»
Torna dietro la scrivania, piuttosto imperioso, rivolto nella nostra direzione. Il viso mi si infiamma anche se so che sta guardando il ragazzo, e non me.
«Thomas.»
Willoughby si trattiene dal buttare per aria la penna, gli occhiali e l'agenda su cui è piegato.
«Ovviamente intendevo il cognome.»
«Lo so, infatti Thomas è il cognome.»
Il giovane cerca di contenere un ghigno insolente, ma l'espressione sconvolta e purpurea di Mr. Willoughby è impagabile. Si sistema gli occhiali sul naso con movimenti robotici e credo stia facendo appello a tutta la sua etica morale e professionale per non venire qui a strozzarlo.
«Bene, Signor Thomas. Le rimangono due ritardi.» Chiude con un colpo secco l'agenda facendoci sobbalzare tutti sul posto. «Prima che venissimo interrotti, stavamo discutendo del programma...»
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