34 - Demetra
Non ci sono porte in questo corridoio? Nessuna via d'uscita?
Delle lampadine scialbe penzolano dal soffitto illuminando il corridoio a chiazze. Cammino nel buio per poi ritrovarmi avvolta nel giallo di quelle luci più morte che vive. Le pareti si estendono in maniera infinita di fronte a me. Non ci sono finestre né porte, solo muffa negli angoli, strappi nella carta da parati, lacerazioni sulla moquette sporca.
Che posto è questo?
Perché mi trovo qui?
Come ci sono arrivata?
Mi sembra di camminare da ore. Le gambe sono pesanti e le scarpe mi stringono come fossero due morse. Un rumore improvviso alle mie spalle mi fa voltare di scatto.
Un muro di mattoni rossi si è materializzato dove prima non c'era nulla. Scricchiolando e perdendo pietrischi, comincia a muoversi. Mi viene incontro. Guadagna terreno e prende velocità, molta velocità.
Con il cuore in gola e le gambe doloranti, mi metto a correre come una forsennata.
Le lacrime mi bagnano le guance, annebbiandomi la vista di continuo. I battiti furiosi che mi sconquassano il petto mi ricordano gli ultimi fuochi d'artificio di uno spettacolo, quelli che vengono sparati in rapida successione e che preannunciano la fine ormai vicina.
Comincio a credere che cercare di sfuggirgli sarà del tutto inutile.
Corro e il muro non ha intenzione di fermarsi.
Rallento per la stanchezza e ormai mi sta raggiungendo.
Una vecchia porta di legno che sembra esser stata dipinta di blu decenni fa si staglia alla fine del corridoio. Ci sbatto contro frenando la mia corsa, ma più tento di stringere la maniglia più la mano scivola via, come fosse unta e inconsistente.
Pezzi di pietra mi raggiungono le caviglie, sento gli scricchiolii alle spalle.
Tra poco il muro mi si schianterà addosso.
Strappo un lembo della maglia che indosso e riesco ad aprire la porta proprio un attimo prima che le mie speranze e il mio corpo vengano sotterrati. Con un urlo, mi lancio dall'altra parte e il fracasso dietro di me sembra farsi più lontano.
Il pavimento è freddo contro la fronte e i palmi delle mani. Riprendo fiato, ad occhi chiusi, eppure le percepisco.
Delle ombre cominciano a muoversi tutt'intorno a me. Voci e risate mi suonano familiari.
Non può essere... Non ha senso.
Spalanco gli occhi, la gola si stringe... e mi guardo. Sono io.
Ci sono io, ovunque in quella stanza. Proiezioni di me che sembrano reali quanto il dolore che mi striscia dentro.
In un angolo, sono seduta con le ginocchia strette al petto, a piangere lacrime che si seccano all'aria. Dall'altra parte della stanza, sto ridendo di fronte ad uno specchio dentro cui è incastrata un'altra me, più pallida e apatica. Un'altra proiezione se ne sta nel salotto di casa, circondata da amici e parenti, davanti ad una torta con le candeline ancora accese. Lo so che sta facendo... che sto facendo: cerco di apparire emozionata anche se il mio cuore è spezzato perché lui non c'è. Sorrido e mi sistemo meglio la maglia sulle spalle. Faccio una battuta, tutti ridono e io stringo la stoffa nei pugni. Mi copro, mi nascondo, recito e mento.
È questo ciò che faccio: nascondo la realtà, nascondo il dolore, nascondo i sentimenti e i lividi e le cicatrici del corpo e dell'anima. Celo tutto dietro la facciata che ho passato anni a costruire, e nonostante sia la mia opera più imponente ne sono soddisfatta a tratti.
Vorrei essere libera di essere me stessa e al tempo stesso vorrei anche esser libera da me stessa, perché la vera me è piena di lati oscuri, errori stupidi e speranze ancora più stupide.
La vera me è rovinata dentro, distrutta e lacerata. Come una bella mela dalla buccia rossa e lucida che una volta tagliata mostra la polpa marcia.
Cammino piano, cercando di rimanere invisibile alle altre me. Mi avvicino all'armadio che riempie una parete della stanza, apro le ante e tremo di fronte a ciò che vedo. Ci sono decine di maschere accatastate, ma non sono semplici maschere: è la mia faccia.
Sono tutte la mia faccia.
Le mie solite espressioni se ne stanno lì sugli scaffali, ammucchiate una sopra l'altra, come robaccia senza il minimo valore.
Il terrore mi scuote quando le maschere puntano i loro occhi su di me. Tutte, contemporaneamente.
Una delle mie espressioni sorridenti comincia a tremare. Si lamenta e cade a terra, frantumandosi in cocci che si trasformano in polvere.
Adesso non sono più invisibile.
Persa la maschera, sono scoperta.
Ogni proiezione di me che prima ignorava la mia presenza adesso mi fissa.
Mi vengono incontro e mi sento pietrificata, in trappola. Come si scappa da sé stessi?
Indietreggio d'un passo, scontrandomi con l'armadio. Con un urlo spaventato, tutte le mie maschere e le mie espressioni si rovesciano a terra. Una nuvola di polvere mi avvolge, impedendomi di respirare. Delle mani, che da quella nebbia sbucano, mi strattonano. Si aggrappano e mi tirano giù, facendomi cadere sul pavimento ricoperto di cocci. Sono cocci di me.
«Cosa volete?! Lasciatemi! Lasciatemi in pace!»
La suoneria del cellulare riecheggia all'improvviso nella stanza. Mi trascina fuori da quell'incubo a cui credevo non sarei sopravvissuta. Il cuore pulsa ancora nelle tempie quando mi costringo a rispondere rapidamente.
«Pronto?», ansimo disperata.
«Oddio, Demi, ma stavi dormendo? Scusami!» La voce di Louise fa sbiadire un po' il ricordo di tutte quelle mani addosso a me.
«Non ti preoccupare. È tardi, era ora che mi svegliassi...»
Mi brucia la gola, gratta di più ad ogni parola che pronuncio. Cammino piano verso il bagno mentre l'ascolto invitarmi a casa sua e di Greg per mangiare una pizza tutti assieme, visto che i ragazzi sono rientrati. Un cerchio alla testa mi appesantisce e mi vedo piuttosto pallida allo specchio. Non riesco neanche ad entusiasmarmi come normalmente farei al pensiero di passare un altro sabato sera insieme a loro.
Tossisco in maniera forzata, sperando di alleviare il fastidio che sento.
«Dove abitate? Mi organizzo con il treno o il bus per raggiungervi.»
«Viviamo a Warrington, ma sono sicura che Aidan avrà già pensato di portarti con loro. Tu prova a scrivergli magari. Non vedo l'ora che sia stasera!»
Per quanto semplice, forse addirittura banale, quella frase su Aidan mi fa emozionare. È pensare a lui che pensa a me a farmi emozionare.
Qualche minuto più tardi, Louise e io ci salutiamo. Lascio il cellulare accanto al lavandino e cerco di sciacquare via l'incubo, il torpore e questa sensazione di debolezza che mi rallenta tanto. La colazione mi rimetterà in sesto - è ciò che mi auguro mentre raggiungo la cucina.
Il sorriso di Rose e un sole caldo, quasi primaverile, illuminano la stanza. Il cielo è terso fuori dalle finestre e le chiome degli alberi in giardino vengono mosse appena dalla brezza che proviene dal fiume. La giornata sembra essere l'esatto opposto di quella di ieri, e ne sono molto felice.
Per tutto il tempo della colazione, starnutisco e tiro su col naso, incassando i rimproveri di Rose riguardo l'andare in giro con abiti troppo leggeri mentre infuria il vento. Dice che non sono abituata al clima di qui e, mio malgrado, credo proprio abbia ragione.
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