3 - Demetra

"Circondata dalla verdeggiante piana della contea del Cheshire, in Inghilterra, Lotford è una cittadina di 6.119 abitanti (Censimento 2015), a 30 km a sud di Manchester e a 15 km a nord di Crewe.
Lotford sorge sui resti di un piccolo castrum d'epoca romana. L'incrocio degli antichi cardo maximus e il decumanus maximus (di cui si è anche conservato il nome con Decuman Road) è tuttora il centro nevralgico del villaggio.
È proprio lungo Church Road, il vecchio cardo maximus, e Decuman Road che si trovano infatti le principali attività commerciali e i servizi ai cittadini. Si elencano due pub, un cafè, un supermercato, un'agenzia immobiliare, un centro estetico, un barbiere, una lavanderia con sartoria, un pavimentista che offre anche servizi di tinteggiatura, un macellaio, due farmacie, una panetteria, un ufficio postale, una pizzeria italiana e un ristorante indiano. Ci sono anche una banca, una biblioteca pubblica, un istituto scolastico primario, una scuola secondaria, la stazione dei Vigili del Fuoco e la Chiesa Parrocchiale di St. Andrew.
La stazione dei treni di Lotford collega la cittadina a Crewe e a Manchester, rendendola particolarmente appetibile per pendolari e studenti.
Il Winding River e i suoi argini lussureggianti chiudono la parte nord del villaggio."

Ecco. Questo è tutto ciò che internet sa dirmi della cittadina che mi è stata assegnata. Spengo lo schermo del cellulare giusto in tempo per vedere il cartello darmi il benvenuto a Lotford.

Bill accosta lungo il ciglio di una strada privata e lastricata. Il mio sguardo, un po' spaesato e un po' frenetico, scivola sulle siepi rossastre, i cespugli di ortensie e le graziose villette che si susseguono su entrambi i lati. Dopo aver recuperato i miei trolley, trascino loro e me stessa verso la porta blu del civico 123.

La professoressa Rota ha già i sandali sopra lo zerbino e il dito premuto sul campanello. «Questa persona ti ospiterà in casa sua per i prossimi sei mesi: conviene andare d'accordo.», mi ammonisce, guardandomi dall'alto della sua paffuta ed autorevole figura.

Annuisco, cominciando a mordicchiarmi l'interno della guancia. Questa sistemazione, come quelle degli altri, è stata scelta dall'elenco dalle famiglie ospitanti per gli scambi culturali convenzionati dalla Manchester Metropolitan University. Una scelta improvvisata e casuale, con la quale dovrò convivere davvero per sei mesi. L'idea della residenza studentesca nel mezzo del campus era più simpatica e meno inquietante di così.

Attimo dopo attimo, il collo e le spalle si irrigidiscono di più sotto il peso del silenzio che proviene dall'interno.

Getto rapidamente uno sguardo alle mie spalle, al bus a cui già mancano Valerio e Marco. Marzia è ancora lì, con lo sguardo basso al cellulare. Sospiro, provando piuttosto a concentrarmi sui bordi frastagliati dei mattoni che rivestono la villetta e sulle tende bianche alle finestre.

La professoressa Rota preme di nuovo il citofono, impaziente tanto quanto me - anche se per motivi differenti.

«Arrivo!» Una voce femminile, matura e un poco affannata precede lo scattare della serratura.

Il sole si insinua tra i tetti aguzzi delle villette su Abbott Road, rischiarando la pelle delicata di colei che mi ritrovo davanti quando la porta viene spalancata. In piedi sul parquet, c'è una signora di settant'anni forse, con un paio di occhietti tanto verdi quanto vispi e i capelli tagliati corti e sbarazzini.

«Scusate, ero in giardino e si è messa a fischiare la teiera proprio quando avete suonato voi!» La sua risata argentina e lo sguardo dolce che mi rivolge un po' mi rincuorano dalla pagina web tanto scarna su Lotford. «Tu devi essere la mia ragazza! Io mi chiamo Rose.»

«Demetra. Demi!», replico d'istinto, stringendo la mano che mi stava allungando.

«Sei la benvenuta in casa mia, Demi! Accomodati pure, ti stavo aspettando!»

Il vento ha un odore ancora diverso qui, più umido, sa di fiori e di acque di fiume. Ci soffia addosso, facendo ondeggiare la camiciola stile kurta di Rose quando si fa in disparte per spalancare di più la porta e permettermi di entrare.

Pulisco le suole delle Superga sullo zerbino, più per abitudine che per reale necessità, e muovo il mio primo passo dentro casa. Il profumo di camino misto a tè aromatico è una coccola istantanea. In sottofondo mi sembra di sentire una delle canzoni più famose di Tom Jones. Resto ferma in un angolo, guardandomi attorno di sottecchi mentre Rose e la docente scambiano qualche parola in merito al mio soggiorno qui. Lo specchio appeso all'ingresso riflette i movimenti che compio per spingere i trolley sotto l'appendiabiti, proprio ai piedi della scala di legno che conduce al piano superiore. Da qui riesco ad intravedere solo una porta e mi domando se appartenga alla stanza di Rose, alla mia o a quella di qualcun altro.

Dopo avermi lanciato un ultimo sguardo, carico di raccomandazioni e rimproveri preventivi, la professoressa se ne va.

Rose chiude la porta blu con calma, voltandosi verso di me. «La tua camera è di sopra, dà sulla campagna.», mi spiega rigirandosi tra le dita i fogli che la Rota le ha appena dato. Il suo sorriso è gentile ma qualcosa sembra renderla titubante. «Preferisci andare subito su a sistemarti o ti andrebbe di prendere una tazza di tè insieme?»

Quelle note timorose nella sua voce mi sorprendono.

«Mi piacerebbe moltissimo prendere il tè.» Le sorrido, soddisfatta del sollievo che le illumina il volto.

«Bene!», esulta entusiasta. «Appendi pure la giacca lì, mettiti comoda!»

Mi libero della giacca d'ecopelle bordeaux e la seguo lungo il corridoio che prosegue sul lato sinistro della scala. Intanto, mi aiuta a familiarizzare con la casa. Nel sottoscala c'è un bagno di servizio e, di fronte ad esso, le porte scorrevoli, di legno e vetro satinato, del salone. L'imponenza del camino di pietra e il legno lucidissimo del pianoforte a muro mi lasciano senza fiato. C'è anche un bellissimo giradischi vintage in un angolo, con una raccolta di vinili che sembra inestimabile solo a guardarla. Al fondo del corridoio invece, parallelo alla porta d'ingresso, un arco che si apre verso la cucina.

Immobile, entro i confini di una sola piastrella, ammiro ogni cosa nella maniera più discreta possibile. La sala da pranzo è una stanza grande e luminosa, affacciata direttamente sul giardino sul retro. Sulla sinistra c'è la cucina in stile provenzale, sulla destra una credenza con le antine intarsiate. Al centro, sotto la finestra che dà su un roseto, un tavolo circondato da una panca angolare e qualche sedia. Tutto è di un inaspettato e piacevole celeste, tranne le tende velate e bianche appese alla porta-finestra.

«Siediti pure dove preferisci, Demi.» Rose si dirige verso la teiera rimasta sul fornello spento.

«Posso aiutarti in qualche modo?»

«No, no. Rilassati e fa' come fossi a casa tua.»

Ansimo un «OK.», sentendomi più a disagio a starmene seduta a guardarla di quanto non mi sentirei a maneggiare stoviglie che non conosco. Tengo le spalle dritte contro lo schienale della panca e le mani sulle cosce mentre mi tormento le cuticole con le unghie.

«Vuoi il latte nel tuo tè?»

Scuoto la testa e trattengo una risata all'espressione teatrale, carica di sconforto e finta indignazione che mi rivolge. Credo di aver appena oltraggiato la tradizione.

Nel quarto d'ora successivo, sorseggio assieme a Rose il tè verde alla menta più corposo e fresco che abbia mai assaggiato e l'ascolto raccontarmi delle sue passate esperienze come ospitante per scambi culturali e home-sharing con studenti stranieri. Lo fa da qualche anno ormai, perché le piace l'idea di dare una parvenza di familiarità ai ragazzi che studiano e che, per questo, si ritrovano lontani da casa. Si capisce dai suoi gesti e delle sue parole quanto Rose sia premurosa, gioviale e amorevole. Sembra una zia affettuosa, o anche una nonna particolarmente briosa. Vive in questa casa da sola però, non ha neanche menzionato figli o nipoti.

Quando entrambe abbiamo finito il tè, lasciamo le tazze vuote nel lavandino e saliamo al piano superiore. Sulla soglia di quella che sarà la mia camera per i prossimi mesi, sento l'ansia scemare rapidamente.

Sarà il tepore di questa casa, il profumo del tè che ancora riempie l'aria oppure gli occhi verdi di Rose che mi sorridono con entusiasmo, ma – qualsiasi cosa sia, qui mi sento bene.

Pensavo che ritrovarmi da sola, catapultata in un posto di cui conosco appena il nome, con persone estranee attorno che non conoscono la mia lingua, sarebbe stato spaventoso. È strano ma, ora che sono qui, è come se una parte di me si sentisse semplicemente... libera.

Adesso sono lontana da tutti quei luoghi a cui mai ho sentito di appartenere davvero. Sono lontana anche dai volti e dai ricordi che, per quanto male possano fare, hanno sempre una certa, falsa parvenza di rassicurazione.

Sembra così stupido avere timore d'allontanarsi da ciò che fa male...

È che il nostro dolore impariamo a conoscerlo, ad accettarlo, presto o tardi, e finiamo col conviverci come fosse una scheggia di legno nella pelle o un pezzo di vetro conficcato nella carne. Soffriamo, soffriamo dannatamente, ma finché le schegge non vengono tolte il sangue non sgorgherà, finché tutto resta com'è nessuno si accorgerà del male tremendo che fa.

Così come aveva fatto prima, Rose mi mostra anche il piano superiore.

La porta che si vede dall'ingresso, alla fine, è la sua stanza. C'è anche un altro bagno di sopra, che ha ridimensionato qualche anno fa per concederne uno piccolo ma più privato alla camera degli ospiti, che è dove starò io. È una stanza adorabile, mansardata e accogliente, con il parquet color nocciola e l'arredamento shabby chic. Ci sono una scrivania, una piccola libreria e persino una bacheca di sughero con tanto di puntine colorate, poi un armadio con le ante a specchio e la porta scorrevole del bagno. Al fondo, a riempire lo spazio sotto la finestra quasi interamente, c'è un letto matrimoniale ricoperto di cuscini blu, bianchi e lilla.

Dopo avermi lasciata da sola, per sistemarmi e ambientarmi, Rose è uscita. Doveva passare in panetteria e in farmacia prima che chiudessero, così ha detto.

Metto i vestiti un po' sgualciti nell'armadio e il resto delle mie cose in bagno. Quando ho finito è ormai passata mezz'ora e Rose non è ancora rientrata. Tolgo le scarpe, mi getto sul letto e con quel sospiro di sollievo scaccio anche le ultime tracce di agitazione che avevo.

Un venticello fresco e profumato entra dalla finestra aperta. Da qui, la brughiera attorno a Lotford sembra sconfinata e quasi magica sotto le tinte ocra del tramonto. Riesco persino ad intravedere il fiume che scorre, scintillante, tra i prati e le macchie di alberi.

È tutto vero, ripeto a me stessa.

Mi lascio andare tra i cuscini, riscoprendomi a sorridere. Già adoro ogni dettaglio di questa camera, di questo luogo. Dopo un po', recupero il cellulare.

Marzia
SMS
oggi, 19:17

Ehi, sei arrivata? Com'è lì da te?
Io credo che Lotford non sarà
poi tanto male! 🥹 La signora è
dolcissima, la casa molto bella,
con il giardino sul retro e un
pianoforte persino! E la vista dalla
mia camera sembra un quadro...
Ti faccio vedere!

Scatto una fotografia da inviare con il messaggio e mi butto di nuovo sul letto. La stanchezza comincia a farsi sentire, una stanchezza mista a rilassamento. La replica di Marzia arriva presto.

Ma non c'è un cazzo, Demi!
Sei sperduta in mezzo al nulla!
🤣🤣🤣🤣🤣
Qui invece è fighissimo! La
famiglia in cui sono finita io ha
la piscina e il barbecue sotto il
gazebo! 😎 Magari ti faccio
venire qui qualche volta, così
sfuggi per qualche ora alla tua
enorme sfiga! 🤣

Fisso lo schermo, la bocca che si fa più secca all'improvviso. Ormai sono convinta di essermi abituata ai suoi modi di fare ma aspettarseli non li rende più sopportabili.

Ci conosciamo da quasi tre anni, dal primo giorno in accademia, e non ci volle molto a capire quanto noi due fossimo diverse. Marzia adora mostrare e mostrarsi, dice ciò che pensa nel momento stesso in cui quel pensiero le balena nella testa, non si pone mai troppe domande sul modo col quale sarebbe meglio esprimersi né tantomeno sulle conseguenze di ciò che dirà, e poi è estremamente sicura di sé e delle sue capacità. Forse sono sua amica proprio per questo: perché lei è come una parte di me vorrebbe essere, meno riflessiva e più sfrontata.

È solo che non ci riesco. Non posso.

Il tempo per decidere come risponderle viene meno non appena sento la porta d'ingresso aprirsi e la voce di Rose annunciare il suo ritorno. Scivolo giù dal materasso in fretta e mi precipito di sotto. Con solo le calze ai piedi, scendo le scale godendomi la morbidezza della moquette che riveste i gradini.

«Tutto fatto.», esulta con un sorriso radioso. «Spero ti piacciano i biscotti perché ho preso tutti quelli che c'erano per darti ufficialmente il benvenuto!»

Abbasso lo sguardo alla confezione di dolci che regge tra le braccia. «Non era necessario, Rose. Stai già facendo tantissimo per me...», mormoro sentendomi emozionata.

«Sciocchezze! Era necessario, e ogni occasione è buona per i biscotti!» Si fa seria all'improvviso, un poco teatrale. «Ti piacciono, vero?»

Rido, non riuscendo a trattenermi. «Moltissimo, adoro i biscotti!» Il sorriso illumina di più i suoi occhi verdi, tanto buoni. «Permettimi almeno di aiutarti però...!»

Mi affretto a liberarla almeno della scatola della panetteria, lasciandole solo la busta delle medicine. Il profumino burroso ed invitante che viene dai dolci mi fa venire l'acquolina in bocca.

«Ti va di metterli dentro la biscottiera, sweetheart?» Quel suo modo affettuoso di chiamarmi scalda il cuore. «Così dureranno più a lungo.»

«Certo. Dove la trovo?»

«È sulla credenza.»

La anticipo verso la cucina e faccio come mi ha chiesto. Afferro la biscottiera di latta e cerco di versarci dentro i biscotti senza romperli. Sono friabili e sembrano buonissimi. Ce ne sono al cioccolato, ripieni di crema, con marmellata alla fragola.

Il trillo metallico del campanello ci sorprende d'un tratto. Rose abbassa il tubetto di unguento che stava studiando e si volta a cercare l'orologio digitale del forno. Sono le 19:20. Sbatacchia le palpebre un paio di volte, un po' stranita, prima di dirigersi verso l'ingresso.

Sento lo strusciare della porta sul parquet, poi una voce maschile si mischia a quella di Rose. È profonda, gentile ma decisa in quell'accento di Manchester tanto forte.

«Sei davvero venuto fino a qui per questo? Per 60 centesimi di resto?!»

«Certo, e anche per scroccare un abbraccio!»

La risata di lei arriva sino alla cucina. Mossa dalla curiosità, mi affaccio sul corridoio quel tanto che basta per inquadrare la scena. Mi porto alle labbra i polpastrelli ricoperti di briciole dolci di biscotti mentre noto un ragazzo in piedi sullo zerbino.

È molto più alto di Rose, con una T-shirt bianca ad avvolgergli le spalle larghe. Il velo di barba che gli sporca il viso è di una tonalità di biondo più chiara di quella dei capelli. Lunghi sopra e più rasati sulle tempie, sono pieni di riflessi dorati sotto le ultime luci del tramonto.

Non ho idea di come faccia a sopportare l'aria frizzante con solo quella maglietta e un paio di jeans addosso, ma smetto di chiedermelo quando Rose muove un passo in avanti per stringerlo in un abbraccio.

Mi soffermo ad osservare il tatuaggio che decora l'avambraccio destro del ragazzo: una fascia di nodi celtici sopra il polso fa da terreno ad un bosco di solo inchiostro nero che s'innalza, frondoso e cupo, verso il gomito. Il profilo particolare di quegli alberi mi sembra di averlo già visto da qualche parte.

«Scappo. I ragazzi mi aspettano a Manchester.»

«Siete da tuo padre stasera?»

«Yep

«Di' a Brett di andarci piano con la birra stavolta e tu fa' attenzione quando rientri stanotte: lo sai che le strade per...»

«...Manchester e Liverpool sono le più disgraziate di notte.», l'anticipa lui, con un sorriso irriverente, facendo quasi il verso a quelle parole che Rose deve avergli ripetuto miliardi di volte. «Io faccio sempre attenzione. Su Brett però non assicuro nulla!»

Il sorriso si fa più largo sulle sue labbra carnose, i suoi occhi chiari s'illuminano. Da questa distanza non riesco a distinguerne bene il colore.

Si salutano e il legno blu della porta comincia a muoversi, riducendo sempre più lo spiraglio che vedo dal fondo del corridoio. In un solo secondo, mi ritrovo il suo sguardo addosso. Con le Converse piantate sullo zerbino, lo sconosciuto mi fissa. Sembra sorpreso, forse curioso.

Dopo qualche istante le sopracciglia che aveva aggrottato si rilassano, lasciando spazio ad un sorriso schietto e amichevole, questa volta diretto a me. Poi, la porta si chiude.

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