19 - Demetra
«Quindi da stasera avremo una fan in più. Grandioso!» Con uno sguardo ammiccante, Leo si siede accanto a me sui sedili posteriori dell'auto.
La bifamiliare da cui è uscito diventa sempre più piccola mentre riprendiamo a macinare chilometri verso Manchester.
Sollevo il mento, tentando di fare l'altezzosa. «Potrei essere una giudice severa.»
«Nah! Siamo troppo bravi e troppo fighi per non piacerti.» Un sorrisetto sghembo gli curva le labbra. «Non ti sarà affatto facile resistere al mio fascino dietro la batteria... Vedrai!»
L'espressione maliziosa e sorniona che Leo mi schiocca mi fa scoppiare a ridere. Rido, e vedo la soddisfazione nelle sue iridi grige.
«Hai sentito Brett, per caso?» Le parole di Aidan si intromettono tra noi. «Non sono riuscito a chiamarlo oggi...»
«Sì.» Leo annuisce e si sistema meglio sul sedile. Le ginocchia spuntano dagli strappi dei jeans, e l'Appeso dei tarocchi stampato in argento sulla sua T-shirt nera emerge da sotto la felpa. «L'ho chiamato dopo pranzo.»
«Come sta?»
«La febbre ormai è passata ma ha ancora una brutta tosse. Era scazzato - a detta sua per la laringite, a detta mia perché a Glasgow sta di merda.»
La conversazione sembra far irrigidire Dana ancora di più. Seduta sul lato opposto, riesco a scorgere il suo profilo teso, quel tremito che le scuote le spalle, la mano che stringe in un pugno e poi struscia sulla salopette. Dopo un po' si schiarisce la voce, come avesse tutta l'intenzione di cambiare discorso. «Alla fine papà c'è o non c'è stasera?»
Papà.
Quella parola mi distrae. Do solo un'occhiata di sfuggita al cartello stradale che annuncia Manchester a quattordici miglia.
«Ha detto che se l'incontro coi fornitori finisce presto, ci raggiunge.» Aidan le risponde senza staccare gli occhi dalla strada, il tono un po' piatto. I suoi palmi scivolano sul volante per accompagnare l'auto nella svolta a destra che prendiamo.
«Non lo farà, lo sappiamo.» Nonostante la sua vena acidula, Dana sembra già più sollevata.
Un quarto d'ora dopo, siamo arrivati a Manchester. Rispetto a Lotford, l'aria qui è diversa davvero. È più secca, più salata. Camminiamo lungo un viale pedonale molto ampio e non riesco a trattenere lo sguardo che balza ovunque, incredibilmente affascinato. Una cascata di minuscoli led scorre sopra le nostre teste, unendosi alle stelle che già si vedono nel cielo scuro. Sono appena le sette di sera, ma sembra molto più tardi. Le insegne accese dei ristoranti, dei negozi e dei pub colorano i volti e gli abiti dei passanti, le pietre lucide e imperfette della strada lastricata.
Più mi guardo attorno e più mi rendo conto che Manchester è una città inusuale e sorprendente, ammaliante già al primo colpo d'occhio. Ci sono strutture architettoniche sceniche ovunque, un'accozzaglia di stili diversi che crea uno scenario unico. Palazzi di vetro riflettono edifici vittoriani, facciate in paramano si stagliano accanto a locali dai tipici connotati anglo-irlandesi. Lungo quella via, c'è persino un magazzino dipinto interamente di rosso, con la saracinesca alzata, che in realtà è un ristorante cinese con tanto di certificazione Trip Advisor. La costruzione più accattivante della zona, però, è proprio quella verso cui stiamo andando. Sembra una chiesa gotica sconsacrata, o qualcosa di molto simile, incastrata tra modernissimi loft d'acciaio e un Domino's Pizza. L'entrata è anticipata da un enorme arco di pietra scura su cui è incisa una frase in latino che non so tradurre. Le finestre sono a sesto acuto, la facciata termina a punta, con un orrendo gargoyle appollaiato in cima. Si chiama The Archfiend's Institute.
Una nebbia di fumo di sigaretta e di erba aleggia tutt'attorno alla massa che affolla l'ingresso. Basta riconoscere quell'odore a farmi venire la nausea.
«Silburne! Thomas!» Un ragazzone di colore si fa largo tra la gente per raggiungerci. È corpulento, supera di sicuro i cento chili, e indossa gli occhiali da sole nonostante sia già buio.
Leo si ferma a parlare con lui mentre Aidan si avvicina a me e Dana. Lo sguardo serio, attento, poggiato su entrambe. «Andate dentro ché si sta alzando il vento, ma attente alle teste di cazzo, intesi?»
Dana annuisce a quelle parole che sembra abituata a sentire. «Intesi.»
Aidan ci lancia un'ultima occhiata carica di raccomandazioni mentre entriamo nel locale.
L'interno del The Archfiend's Institute è attraente e strambo allo stesso tempo. Le pareti si alternano tra muri di mattoni grezzi e carta da parati damascata, tende borgogna cadono pesanti ed abbondanti sul parquet datato ma in buono stato. L'arredamento è quello tipico dei pub inglesi, con divanetti e sgabelli dalle sedute imbottite, di pelle vissuta, e tavoli di legno. La luce è ovunque soffusa e giallognola.
Tutta quella bellezza quasi sconclusionata mi rapisce. «Questo posto è favoloso...»
«Questo posto è la ragione del divorzio dei miei genitori.» Il mio cuore inchioda all'istante. Abbasso gli occhi, dal lampadario dorato a Dana al mio fianco, boccheggiando per il rammarico e il disagio. Lei annuisce, le labbra premute tra loro, le sopracciglia sollevate. «E già...!»
Questa montagna russa emotiva in sua presenza non sembra destinata a terminare.
In silenzio, non osando più parlare, la seguo tra i tavoli già pieni di persone con patatine, hamburger e boccali di birra davanti. Un'arcata di pietra molto simile a quella dell'ingresso buca la parete al fondo della sala. Affissa al muro, una targa con scritto ᴍᴜꜱɪᴄ ʜᴀʟʟ. Cominciamo a scendere la rampa di scale e, gradino dopo gradino, ci lasciamo alle spalle l'odore di fritto, il cicaleccio di tante voci e il tintinnare dei bicchieri.
«Mio padre lasciò il lavoro per investire tutto il suo tempo e tutti i risparmi in questo posto...» Dana riprende il discorso in maniera del tutto inaspettata. «Ovviamente a mia madre l'ha riferito a cose fatte, quando ormai il conto in banca era svuotato.»
«Non parlò con lei delle sue intenzioni?», mormoro già intimorita.
«Lo fece, sì, ma nonostante mia madre non fosse d'accordo, lui andò avanti comunque.» Dana inchioda in mezzo alla scalinata. «È stata una pazzia, scegliere altro e non la sua famiglia. Quei soldi erano destinati al nostro futuro, compresi anche gli studi miei e di Aidan, e lui invece li ha spesi per... questo.» Il disprezzo nell'espressione e negli occhi che muove intorno è bruciante.
«Quello davvero lungimirante è stato tuo padre però, non lei. Qui c'è il pienone ogni sera.» Una voce maschile sconosciuta e arrogante spunta alle nostre spalle, facendoci trasalire.
«Stuart, dannazione! Ci hai fatto spaventare!»
Le sue scarpe lucide e a punta si fermano a poca distanza. Sollevo lo sguardo su di lui, nonostante quel ghigno vibrato nell'aria un po' mi inquieti. Un uomo pelato, senza barba né baffi, con un paio di occhi neri e il fisico atletico che non gli fa dimostrare i cinquant'anni, o forse più, che deve avere. Indossa una camicia viola con le maniche arrotolate sino ai gomiti e un pantalone dritto e stretto.
«Oh, non era mia intenzione!» Con un sorriso bieco, Stuart muove la sua attenzione da Dana a me. «E tu? Hai un faccino nuovo. Un bel faccino nuovo.», precisa. «Non ci conosciamo, vero?»
«No.», faccio laconica, cercando di inquadrarlo.
«Sono Stuart Edwards, co-proprietario del locale e grande amico di famiglia.»
«Demetra.» Gli stringo la mano ruvida che, per qualche strana ragione, mi lancia un brivido gelido lungo la schiena.
«Non sei di qua, giusto? Da dove vieni?»
«Italia.»
«Oh, bellissima Italia!» Lo esclama in un italiano abbozzato ma comprensibile. «È un piacere averti qui all'Institute.» Stringo le labbra in un sorriso tirato e mi auguro basti come ringraziamento. «Greg e Louise sono già di là, raggiungeteli pure.» Con una gentilezza costruita e un'ultima occhiata sprezzante, come di sfida, rivolto a Dana, Stuart si fa largo tra noi due per entrare in una stanza targata come "Inaccessibile al personale non autorizzato".
«È davvero un grande amico di famiglia?», le chiedo sottovoce.
«Dipende da chi lo chiedi in famiglia.»
La scalinata conduce ad una sala abbastanza grande, rivestita di parquet scuro e consumato e tappezzeria floreale. Il soffitto è ricoperto di grovigli di tubi, condotti di aerazione e canaline che corrono sopra le nostre teste. Ci sono anche gli amplificatori e dei fari installati con filtri colorati. È incredibile pensare che ci sia tutto questo alla base di un edificio del 1800.
Sulla parete a destra c'è un lungo bancone bar dal ripiano lucido, a sinistra invece il palco su cui ritrovo Greg. Con una T-shirt bianca sotto il gilet di jeans sdrucito, sta trascinando verso un angolo una pesante cassa alta circa un metro. Insieme a lui c'è una ragazza dai lineamenti indiani molto belli. I capelli sono nerissimi e lisci, il viso dalla carnagione scura truccato con cura e il corpo formoso, più tondo sui fianchi che sul seno, è avvolto in un abitino arancione. Sta controllando che i cavi della cassa trascinata non si incastrino nella batteria già montata.
«Oh, eccovi!» Greg intercetta subito la nostra presenza. Lascia andare il peso e si strofina le mani per pulirsele dalla polvere. Il sorriso amichevole che mi rivolge basta a rasserenare le paranoie, spingendo sempre più a margine il ricordo di ciò che è successo quel pomeriggio alla Student Zone. «Dove sono gli altri due?»
Dana scuote la testa, come disinteressata. «Si sono fermati a parlare con un tipo. Non ho idea di chi sia...»
La ragazza indiana scende di fretta dal palco per saltellarle incontro. I suoi passi sono corti e buffi per via dei tacchi alti. Si abbracciano forte, bisbigliandosi qualcosa che non sto ad ascoltare. Mi volto dall'altra parte per dar loro spazio e ne approfitto per togliermi la giacca.
«Ciao!» I tacchi a spillo ticchettano sul parquet mentre mi si avvicina, una luce allegra e vivace nei suoi occhi scuri. «Sono Louise, piacere!»
«Demetra, piacere mio.»
«Demetra non era una dea o qualcosa del genere?»
Sorrido e annuisco, con un pizzico di emozione. «Sì, la dea greca della terra e delle stagioni.»
«Gosh... Anche io vorrei avere un nome così importante! Al massimo, invece, faccio venire in mente alla gente Thelma e Louise, le fuggiasche suicide!»
La risata di Louise è davvero contagiosa, persino Dana si è fatta coinvolgere. È la prima volta della serata in cui sembra riuscire a lasciar andare un po' di tensione. Il rumore della scalinata che viene solcata pesantemente e un vociare maschile arrivano alle nostre spalle. Aidan e Leo si fanno avanti nella sala accompagnati da un ragazzo molto alto, molto magro, con le lentiggini brunastre e una mise da cameriere.
«L'uomo dei cocktail è arrivato! Chiedete e vi sarà dato.», fa subito lui, a braccia spalancate.
«Finalmente, Jude! Ho bisogno di qualcosa di forte.» Dana si fionda subito verso il bar.
Louise sbuffa, più ironica che davvero annoiata, poi tenta di trascinare anche me verso il bancone. Intanto, Aidan, Leo e Greg preparano i loro strumenti e il palco, collegando ammassi di cavi aggrovigliati e abbozzando un soundcheck per gli amplificatori.
Non posso fare a meno di sentirmi smaniosa ed emozionata mentre osservo Leo stringere di più i dadi dei piatti della batteria e Aidan aprire la custodia della sua chitarra.
Una sensazione di frescura inaspettata mi ghiaccia le dita, attirando la mia curiosità. Jude ha spinto verso di me un bicchiere pieno di chissà cosa, ma devo ammettere che quel colore rosa e la fetta di limone sul bordo lo rendono particolarmente invitante.
«Sul menù non c'è scritto ma la specialità del giorno sono io, quindi non farti problemi ad ordinare.» Strizza l'occhio in un ammiccamento comico e un improvviso fischio, acuto e insopportabile, ci si schianta addosso, rigettato fuori dalle casse. Con le mani piantate sulle orecchie e gli occhi strabuzzati ci giriamo tutti verso il palco.
«Aidan, cazzo!», sbraita Jude.
Lui solleva la mano col plettro ancora stretto tra le dita. «Scusate, mi stavo assicurando che il mio amplificatore fosse collegato. Direi che lo è!» Aidan abbassa lo sguardo per stringere le chiavette della chitarra e il ciuffo di capelli biondi copre il sorrisetto divertito, un po' sfacciato, che gli storce la bocca.
La sua chitarra è bellissima, solo ora la vedo davvero. Elettrica, dal corpo sinuoso e nero opaco, con inserti madreperlati lungo la tastiera. Lo osservo tenersela contro il bacino, avvicinare il pedale degli effetti col piede e controllare le corde e le chiavi una volta di più.
«Che è successo? Ci sono problemi?» Stuart fa capolino dalla stanza inaccessibile in cui era ancora nascosto, muovendo le sue scarpe appuntite verso il centro della sala.
«No, nessun problema. È solo Aidan che fa il coglione!» Leo ride e fa roteare tra le dita la sua bacchetta da batterista. «Se vuoi far scendere la massa, noi siamo pronti!»
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