1 - Demetra
Quelle maledette mani stringono talmente forte le sue braccia da sbiancargli la pelle e lasciargli i segni. Riesco a vederli da qui. Le lacrime gli rigano le guance sbarbate mentre urla, nel mezzo del corridoio: «Perdonami!»
Vorrei rispondergli, vorrei raggiungerlo, ma non ho voce e le mie gambe non si muovono.
Più lui si dimena e più quei bastardi serrano la presa. Picchio i pugni. Batto i piedi. Mio padre però non mi lascia andare. Lo odio, e odio anche mia madre che se ne sta lì, ferma a guardare. Odio tutta la mia famiglia, e persino me stessa per ciò che ho fatto... per ciò che non ho fatto.
"Perdonami anche tu!", dovrei rispondergli così.
«Poteva finire peggio, lo capisci? È così che le cose devono andare!»
«È la cosa migliore da fare!»
«È stata una sua scelta, sua e di nessun altro! Tu non avresti potuto far nulla per lui!»
Tutti parlano, le ferite bruciano ma l'unica che conosce la verità sono io.
«Miss? Miss, si svegli.» Il trucco impeccabile sul viso della hostess è la prima cosa che vedo quando apro gli occhi. «Tra una decina di minuti atterreremo. È necessario che allacci la cintura.» Mi sorride per un lungo istante, poi prosegue lungo il corridoio dell'aereo verso altri viaggiatori sonnacchiosi.
Ancora mezza addormentata, stringo la cintura intorno al bacino. Allungo le gambe e mi stiracchio nel tentativo di togliermi di dosso il torpore di due ore di volo.
Il panorama che si gode da quassù è da togliere il fiato. Sotto il sottile mare di nuvole c'è un altopiano di brughiera inglese, d'un verde ancora tanto brillante da riuscire a riflettere la luce del sole. Una scia rocciosa lo attraversa e si fa sempre più nitida a mano a mano che l'aereo scende verso terra. Le strade e i tetti scuri della città che sorvoliamo si fanno dettagliati: comincio a vedere le recinzioni delle villette, le strisce bianche e gialle disegnate sull'asfalto, le automobili rincorrersi.
Le orecchie si tappano, il sedile comincia a tremare. Stringo i braccioli rivestiti di stoffa e fatico davvero a tenere a bada l'emozione che mi attraversa come una scarica elettrica. Con un sobbalzo, e una stridente strisciata di ruote, finalmente l'aereo atterra al Manchester International Airport.
Sono arrivata. Sono qui.
Ci vuole qualche minuto prima che il segnale sopra i sedili si faccia verde, e ce ne vogliono altri ancora affinché l'ingorgo di passeggeri e valigie si sciolga. Valerio e Marco sono imbottigliati più indietro, Greta invece riesco a scorgerla un attimo prima che esca dal portellone anteriore. Gli altri non riesco a vederli. A passi ciondolanti e lenti, trascinandomi dietro il trolley più piccolo, raggiungo l'hostess. Ricambio il suo sorriso e non appena metto piede fuori dall'aereo il prepotente vento inglese mi investe. Frizzante, violento e inaspettato, mi spinge verso l'entrata del terminal.
L'aeroporto di Manchester è splendido, imponente e lucido ovunque si posi lo sguardo. Il pavimento chiaro, il soffitto altissimo e le grandi vetrate che ricoprono le pareti lasciano filtrare la luce del pomeriggio.
Questa mattina mi sono svegliata a Bergamo, ho bevuto probabilmente l'ultimo caffè decente dell'anno e salutato i luoghi e le persone che per sei mesi non rivedrò. Stanotte invece mi addormenterò chissà dove, lasciandomi cullare dall'idea che l'Inghilterra sarà casa mia per un po'. La tensione accumulata durante il viaggio sembra scivolarmi via di dosso ogni istante di più.
«Eccoti!» La voce squillante di Marzia si staglia nella calma. La lunga coda di capelli neri oscilla mentre ancheggia col suo trolley verso di me. «Temevo fossi rimasta addormentata sull'aereo!» Il suono della sua risata mi raggiunge assieme al suo profumo alla rosa. Indossa un paio di leggings che, infilati dentro degli stivali alti sino alle ginocchia, fanno sembrare le sue gambe più slanciate. Una maglia rossa, piuttosto attillata e scollata, mette in risalto tutta la sua sicurezza. «Siamo in Inghilterra, Demi! Siamo qui!» Subito mi prende a braccetto. «Ti rendi conto che siamo davvero qui?!»
«Non ancora, no!» Sorrido, incredula ed entusiasta tanto quanto lei.
Una lieve musica pop fa da sottofondo al controllo dei nostri passaporti, alle chiacchiere delle persone in attesa, agli abbracci stanchi di chi è appena tornato e ai passi indolenti di chi cammina da solo verso l'uscita.
«Ci siamo tutti?» La professoressa Rota, in Erasmus insieme a noi, controlla scrupolosamente che non manchi nessuno.
Isabella si toglie una cuffietta quando Greta le fa cenno di prestare attenzione, Marco si sistema una sigaretta spenta tra le labbra e Marzia mi sta accanto, già immersa tra social da aggiornare e SMS da inviare. Mi guardo ancora attorno e gli occhi scuri di Valerio incrociano subito i miei. Sorride impacciato prima di affrettarsi a gettare qualche cartaccia nel cestino. Ha il viso mediterraneo, i riccioli scuri che gli cadono sulla fronte, le ciglia foltissime. Stringo le labbra in un sorriso fugace e scosto lo sguardo in fretta. Più Valerio mi cerca, più fatico ad impedire alle parole di Marzia di rimbombarmi nelle orecchie.
Possibile che abbia ragione lei?
Prendo respiro, deglutisco e tento di scacciare qualsiasi pensiero possa rovinare questo momento.
«Proseguiamo verso il Ritiro Bagagli. Il nostro autista potrebbe già essere fuori ad aspettarci.» Con un cenno, la professoressa ci invita a seguirla.
Recuperiamo il resto delle nostre cose, poi proseguiamo verso l'uscita. Quell'aria fresca e frizzante mi colpisce di nuovo. Riesco a percepirlo dall'odore e dall'insistenza con cui si scaglia addosso che non è come la brezza che proviene dal Mar Tirreno o dall'Adriatico. Le ginocchia tremano mentre cammino, e non so se sia più per l'entusiasmo o per il vento che s'infila sotto gli strappi dei miei jeans. Tutto ciò che mi circonda, una volta fuori dall'aeroporto, mi affascina terribilmente. La strada affollata, i cartelli che riesco a tradurre, le targhe bianche e gialle delle auto parcheggiate, i volanti a destra, la fisionomia delle persone, il cielo privo di nuvole, la brughiera ancora lussureggiante all'orizzonte nonostante sia ormai fine settembre.
«Allora...» Valerio sospira, fermandosi accanto a me con un sorriso già più ampio e coraggioso. «Ti senti emozionata anche tu?» Il colore olivastro della sua pelle suggerisce già molto di lui, ma a chiarire eventuali dubbi c'è la sua cadenza siciliana.
«Sì, tantissimo. Ho sognato di venire qui talmente tanto che esserci adesso sembra surreale!»
Mi guarda a lungo, annuendo piano. Con le spalle tese sotto la camicia denim, Valerio rinsalda la presa sui manici del borsone che regge nel pugno. Un soffio di vento gli rende più disordinati i capelli. È un bel ragazzo, Marzia ha ragione. Eppure non sento niente.
Si umetta le labbra rapidamente, e mi sembra anche che arrossisca un po'. «Demi, sai, stavo pensando che, ora che siamo qui, noi potremm-...»
Un clacson che strombazza lo interrompe all'improvviso. Il vago nervosismo che avevo alla bocca dello stomaco subito muta e si trasforma alla vista della scritta sulla fiancata del piccolo bus che frena proprio davanti a noi.
𝘔𝘈𝘕𝘊𝘏𝘌𝘚𝘛𝘌𝘙 𝘔𝘌𝘛𝘙𝘖𝘗𝘖𝘓𝘐𝘛𝘈𝘕 𝘜𝘕𝘐𝘝𝘌𝘙𝘚𝘐𝘛𝘠 – 𝘊𝘏𝘌𝘚𝘏𝘐𝘙𝘌 𝘊𝘈𝘔𝘗𝘜𝘚.
Marzia mi attira a sé, allontanandomi da Valerio un attimo prima che la porta del pulmino si apra. Un uomo sulla cinquantina, con la fronte molto ampia, la pancia tonda e una statura sotto la media si palesa.
«Italia in Erasmus?», ci chiede gioviale con quel suo accento marcato. «Io sono Bill e sarò il vostro autista durante tutto il soggiorno.»
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