III. Diversi
"E ogni cosa sembra grande, tu lasciali parlare
E ricorda è dal dolore che si può ricominciare
Giusy guarda la partita senza giocarla mai
Che mischiarsi con la gente è il sogno di chi non ha idee
Giusy guarda fuori il mondo dalla sua finestra calda
E' sempre amara e insoddisfatta e qui la gente non l'ascolta"
– Giusy, Ultimo
Giuseppe, come ogni giorno, camminava nei corridoi della scuola con le cuffiette perennemente alle orecchie e con le mani nelle sue solite felpe extralarge. Osservava gli altri ragazzi socializzare senza sentire il bisogno di parteciparvi, come se glielo avrebbero permesso. Lui era etichettato come quello strano, asociale... Anche se all'inizio era stato un peso, ora stava bene nella sua solitudine. Gli altri lo avevano escluso senza sapere, senza conoscerlo. Perché mai avrebbe dovuto volere la compagnia di persone che lo avevano giudicato in modo superficiale? E allora aveva deciso che indossare la tonaca da eremita era decisamente più comoda che fingere di essere ciò che non era. Come se non bastasse, gli avevano affibbiato un diminutivo del suo nome, a parere loro davvero poco virile: Giusy. Soltanto perché avevano scoperto della sua pansessualità. Cosa c'era di male nel provare attrazione per una persona a prescindere dal sesso di appartenenza? Nulla, proprio nulla, e Giuseppe lo sapeva benissimo. Non era mai stato tipo da farsi influenzare dall'opinione altrui e il suo stupendo menefreghismo lo dimostrava. Ma c'erano anche dei lati negativi, non sorrideva mai, nessun sorriso si posava mai su quelle labbra, nessuna scintilla di gioia splendeva in quegli occhi cerulei. Era sfiduciato dalle persone, diffidente. Le schifava. Era consapevole che fare di tutta l'erba un fascio era un errore, era consapevole anche del fatto che qualcuno si salvasse ma, con la sua solita fortuna sfacciata, non le aveva mai incontrate.
Le lezioni si erano finalmente concluse e, come una pecora nel gregge, si stava dirigendo verso l'uscita. Osservò fuori dalla finestra, circondato da quel brusio di sottofondo alla musica che pompava nelle sue solite cuffie, e comprese il motivo di quell'inaspettata lentezza degli studenti. Solitamente sarebbero corsi fuori come animali, come criminali evasi di prigione, ma non quel giorno. Il cielo era grigio e stava piovendo. Giuseppe amava la pioggia, l'odore dell'erba bagnata che gli impegnava le narici ed il fresco che portava nelle giornate estive. Era strano anche su quello, ma non se n'era mai dispiaciuto. Arrivò finalmente all'uscita ma rimase nella struttura, la sua solita sfiga aveva colpito ancora, aveva dimenticato di portare l'ombrello. Avrebbe corso sotto la pioggia, ma se fosse tornato zuppo a casa, sua madre gli avrebbe sicuramente sparato ai piedi con un fucile per non farlo rincasare. Ovviamente era sarcasmo, lo avrebbe fatto entrare, ma si sarebbe dovuto sorbire la sue grida e lamentele. Perché, caso voleva, che se gli capitava di sporcare, lei aveva appena finito di pulire. Perciò decise di godersi la pioggia ed attendere che smettesse all'asciutto. Si tolse le cuffiette per poter udire quel ticchettio delle gocce che battevano velocemente sull'asfalto grigio come il cielo. Se lo sarebbe goduto quel momento di pace. Anzi, avrebbe voluto.
«Hai dimenticato anche tu l'ombrello?»
Un ragazzo gli si accostò, stava davvero parlando con lui? Che problema aveva? «Tu riesci a vedermi?» domandò fintamente sorpreso, sarcastico.
«Che io sappia, non ho la capacità di vedere fantasmi. Perciò, se non lo sei, posso vederti», gli sorrise. Aveva decisamente dei problemi. Alcuni ricci scomposti scivolarono davanti ai suoi occhi castani.
«Lo sono», riportò lo sguardo verso il cielo.
«Allora sono contento di avere questo "super potere", così posso vederti». Avevano diciassette anni e stavano parlando di super poteri e non di sport come solitamente facevano i loro coetanei. Perché gli stava dando corda sulla storia dei fantasmi?
«Chissà se mi vedi davvero», sussurrò dando voce ai propri pensieri. Non voleva essere udito, non voleva continuare quella strana conversazione. Ne sarebbe stato in grado?
«Neanche tu sembri vedermi davvero, no?» Giuseppe si voltò aggrottando la fronte, confuso. «Sai come mi chiamo?»
Negò con il capo.
«Sono Francesco, un tuo compagno di classe.»
«E quindi?»
«Sei tu che non mi hai mai visto davvero, la vittima sono io».
Sollevò un sopracciglio nero come la pece, scettico. «Vittima?» ripeté.
«Vittima» affermò lui.
«E sentiamo, Vittima, come mi chiamo io?»
«Giusy».
Sospirò. Ormai tutti lo chiamavano con quel nome per scherno e lui aveva appena sperato che Francesco forse diverso. Si sbagliava. «No, Francè».
«So che il tuo nome completo è Giuseppe, ma Giusy ti si addice».
«Perché non sono etero?»
«No, perché è dolce». Il corvino scoppiò a ridere.
«Dolce? Chi? Io?» chiese tra una risata e l'altra. Lui dolce? Questa era davvero un'idiozia.
«Si, tu. Il tuo sguardo perennemente triste si addolcisce quando guardi la pioggia, ti si addice». Giusy sussultò, per quanto tempo lo aveva osservato da lontano? La pioggia lo rilassava, lo estraniava e si portava via i suoi problemi, lavava via per qualche ora i suoi pensieri. «Vedi che la vittima sono io? Non mi hai mai guardato tu».
«Perché?»
«Il perché dovresti dirmelo tu, non credi?»
«Perché mi hai guardato?» solitamente non gli sarebbe importato, ma sapere che qualcuno aveva posato lo sguardo su di lui, e non lo aveva fatto per giudicarlo, per puntargli il dito, lo aveva destabilizzato. Le sue guance si ritrovarono ad imporporarsi leggermente.
«Perché anche a me piace la pioggia», come faceva a sorridere sempre? Quel ragazzo era un mistero. «Sai, spesso ho immaginato di correre sotto la pioggia, sentire le gocce poggiarsi sul mio viso. Una volta ho desiderato ballarci un lento sotto la pioggia, ma questo non ho mai potuto farlo». Francesco sembrava quasi essere un ossimoro vivente, era chiacchierone, solare ma amava la pioggia.
«Ballare un lento sotto la pioggia? Che romanticone!» lo punzecchiò. Ci fu del silenzio tra loro, costrinse il corvino a continuare «Che musica avevi in mente?»
«Giusy di Ultimo».
«Mi prendi in giro?»
«Assolutamente no».
Giuseppe estrasse il cellulare dalla tasca e fece partire quella canzone che aveva il nome del suo odiatissimo soprannome. Prese un profondo respiro e fece ciò che non si sarebbe mai immaginato di fare, prese per il polso un ricciolino decisamente confuso e lo trascinò con sé sotto la pioggia.
Si osservarono, si scrutarono negli occhi per poi scoppiare a ridere insieme. Da quanto non rideva così?
Francesco gli poggiò le mani alla vita e lo tirò a sé iniziando a dondolare a tempo di musica. Giuseppe poggiò le sue sulle sue spalle, assecondandolo. Si sentiva alquanto a disagio, era appena uscito dalla sua confort-zone.
«Contento?»
Il ragazzo gli regalò un altro dei suoi solari sorrisi, entrambi erano ormai zuppi e se qualcuno li avesse visti, li avrebbe scambiati per matti. E forse avevano ragione. Il castano lo strinse più a sé e poggiò le labbra sulle sue. Chiusero gli occhi per poi approfondire quel lento e dolce bacio sotto la pioggia mentre Giusy accarezzava quei ricci ormai fradici. E gli sembrò di odiare meno quello stupido soprannome.
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