[ITA] Uncharted Thief

By Doubleyes

Abbiate pietà
Una maledizione. Ogni tanto una donna della nostra famiglia nasceva con i geni della maledizione, il caso ha voluto che l'ereditassi proprio io. Del resto non ero mai stata molto fortunata: inciampavo ovunque, al cinema mi cadeva sempre il cartone dei popcorn per terra, avevo imparato a non tuffarmi al mare perché due volte su tre mi si sarebbe spostato il costume, il giorno in cui non mettevo l'ombrello in borsa pioveva, e potevo aggiungere alla lista anche il fatto che non ero in grado di innamorarmi.
Dicono che l'amore non sia controllabile, che sia improvviso, come il flash di un fulmine nella tempesta. Ti innamori per coincidenza, per colpa del destino, senza conoscere le controindicazioni. Ma per me non funzionava così.
L'ultima ad avere la maledizione, prima di me, era stata la mia nonna, che possedeva un paio di occhi grigi con leggere sfumature color caramello vicino l'iride. I miei occhi erano identici ai suoi. Sapevo che la maledizione poteva essere spezzata soltanto da qualcuno con gli occhi neri come il caffè, l'inchiostro, la notte, il petrolio... Ma non era così semplice. Altrimenti mi sarebbe bastato cercarli, in fondo c'erano un sacco di persone con gli occhi scuri al mondo. Serviva una persona particolare. Così nell'albero genealogico contavamo un sacco di uomini con gli occhi neri, come una sorta di marchio. Era un segreto, quindi se me lo chiedevano dovevo raccontare che probabilmente le mie ave avevano una passione in comune.
Il perché di tutto questo era un mistero per me, ma tutti mi dicevano sempre che avrei capito a tempo debito, quando sarei stata pronta. Beh... quel giorno ero tutto, fuorché pronta. Il mio stomaco era sotto sopra, sembrava una lavatrice. Avevo bevuto almeno dieci disgustose tisane al finocchio, come mi aveva consigliato mia sorella Lasy, ma non era servito a nulla.
Tum. Tum. TUM. Il mio cuore era preda dell'ansia. Impazzito. Non voleva saperne di calmarsi. Stringevo i braccioli della poltrona fino a farmi sbiancare le nocche e formicolare le mani.
I miei genitori da quando ero diventata abbastanza grande, si erano messi in moto per trovare quegli occhi che mi avrebbero resa libera. Erano come ossessionati, mi programmavano appuntamenti da ormai tre anni. Nonna si era innamorata del nonno a Venezia, durante il Carnevale. Quando ci era andata in vacanza per i suoi diciotto anni. Così mi avevano organizzato per il compleanno una festa in maschera, sperando funzionasse allo stesso modo. Sinceramente io non avevo tutta questa fretta. Alla fine la maledizione aveva i suoi lati positivi. Per esempio non mi ero mai fatta abbindolare dal belloccio di turno e non mi avevano mai spezzato il cuore. Come era capitato alle mie amiche del liceo. In un certo senso mi aveva anche protetta.
Sospirai rassegnata, sapendo che al piano di sotto di quella piccola villetta, mi attendeva una schiera di ragazzi che non conoscevo, tutti con gli occhi neri... E sarebbero stati puntati tutti sull'unica ragazza presente: me. Mai, nemmeno nei miei sogni più nascosti mi sarei immaginata di dover vivere un momento così. Nel profondo speravo fosse tutta una leggenda e mi sarei innamorata di un ragazzo con gli occhi azzurri o verdi, o magari di un caldo color cioccolato. Ma sapevo bene che non poteva essere così, altrimenti il mio cuore me lo avrebbe fatto capire.
Io non potevo scegliere.

In maschera
Ogni gradino che scendevo mi portava sempre più vicina a quella vicenda surreale, e alquanto spaventosa per una ragazza che soffriva di timidezza acuta come me. Forse con la maschera di pizzo rossa a coprirmi il contorno degli occhi si sarebbe notata di meno. Non inciampare, mi ripetevo. E come facevo con quel vestito principesco dalla gonna ampia come un bignè? Sembrava che mi stessi sposando.
Una voce espansa da un microfono annunciò il mio ingresso alla sala da ballo, e come temevo tutte le facce si alzarono verso di me, la mia timidezza, il mio vestito rosso scuro e la complicata acconciatura di capelli castani raccolti che avevo sulla testa.
I miei occhi vagarono tra i ragazzi, tutti rigorosamente in smoking nero, che mi fissavano come statue di sale. Alcuni tenevano in mano un calice di vetro colmo di un liquido rossastro e mi venne sete, nonostante le tisane.
La musica si arrestò mentre completavo gli ultimi gradini dell'enorme scalinata, chiedendomi se tutto questo avrebbe funzionato. Anche i dipinti e le armature alle pareti sembravano fissarmi. Mi lisciai la gonna, solo per essere sicura che non si fosse dissolta per magia. Mi immaginai i miei genitori che selezionavano accuratamente ogni invitato, come in un colloquio di lavoro, e magari li pagavano per presentarsi. Tutto mi sembrò ancora più finto e senza senso. Loro mi volevano bene, lo sapevo, erano spaventati dal fatto che potessi rimanere sola a vita. Probabilmente erano nascosti tra le tende dorate ad osservarmi o meglio spiarmi. Dovevo farlo per loro. Avrei dovuto parlare, o peggio ballare su quei tacchi, un minuetto azzardato, con tutti quanti? Provai a contarli, ma sembravano troppi e tutti uguali. Chiusi gli occhi per un istante e pensai a qualcosa di buffo. Sotto le palpebre mi si materializzò Aragorn. Brandiva la sua spada lucente davanti un esercito di orchi puzzolenti e gridava: "Per Frodoooo".
Per Frodo, mi dissi ricordando la scena del Signore degli Anelli.
Sorrisi e l'orlo della gonna mi tradì, facendomi letteralmente volare tra le braccia di uno degli invitati.
-Ops... Mi dispiace- gli posai le mani sulle spalle, mentre ancora tremolavo per lo spavento.
-Ti ho presa-. Che accento strano. Straniero. Ci fissammo come due pesci lessi. Ovviamente aveva degli occhi neri, molto simili a quelli di altri tanti ragazzi che avevo incontrato. Quello che mi colpì furono i suoi capelli, tra il nero e il blu scuro. Spostò le mani dai miei fianchi. Forse troppo presto. Mi ero resa conto che non mi era affatto dispiaciuto. Forse era un segnale? Non avevo mai sentito niente di simile.
Dovevo dirgli qualcosa. -Ah... ehm... grazie Frodo- bofonchiai.
-Frodo?- alzò un sopracciglio sorpreso.
Che figuraccia. -Volevo dire... come ti chiami?-.
-Nathan-.
-Grazie... Nathan-.
Sorrise e per un attimo dimenticai perché ero lì.

R come rapimento
Ad un certo punto il finocchio cominciò a fare effetto e dovevo andare in bagno. Ma dove si trovava? Mi congedai dall'ultimo ragazzo con cui stavo cercando di conversare. Un certo David che aveva parlato tutto il tempo di sé. Mi infilai di fretta in un corridoio, il primo che mi capitò sotto tiro. L'aria sembrava più fresca ora che il vociare dei ragazzi era attutito dalla parete. Mi concessi qualche secondo per sentirmi più leggera e non come un premio che tutti volevano cercare di conquistare. Mi incamminai sperando che ci fosse davvero un bagno in quel posto. Aprii svariate porte che conducevano solo a studi o a stanze vuote o colme di statue. Arrivata al limite, finalmente lo trovai. In una piccola sala dalle mattonelle bianche che formavano dei mosaici raffiguranti delle rose gialle, il lavandino piuttosto vecchio con il rubinetto in rame su un mobile ottocentesco. Sperai che il water non fosse un buco sul pavimento. E non lo era. Menomale, giusto in tempo. La toilette era separata dal bagno da un'altra porta, proprio come per i ristoranti. Dovevo avere per forza un super potere per essere riuscita a tirare su tutte le balze di quella dannata gonna. Mi stavo complimentando con me stessa, quando sentii dei passi attraverso la porta.
-Mamma?- chiesi, pensando alla prima cosa che mi venne in mente.
-Sono ancora io- ridacchiò. Quell'accento piacevole. Era Nathan. -Ti ho vista correre via, tutto bene?-.
-Mmmm... sì-.
-Posso entrare?-. Ma che... domande sono?
-Nathan... Non è educato entrare nel bagno quando c'è una ragazza- cercai di essere il più cortese possibile nel dirlo.
-Lo so-.
-E allora perché me lo hai chiesto?-. "Strano" sicuramente non bastava a definirlo.
-Perché stiamo perdendo tempo-. Forzò la maniglia ed entrò da solo, senza aspettare. Stupida vecchia maniglia. Per fortuna io avevo già fatto quello che dovevo.
Mi arrabbiai, stringendo i pugni. Mi stava spaventando con quell'atto da maniaco. -Ma ti sembra il modo?-.
-Ssssh- lui si avvicinò, posandomi una mano sul mento, intimandomi di fare silenzio. La sua bocca era pochi centimetri dalla mia, ma la sua mano era in mezzo. La sua pelle era bollente come una pizza appena tolta dal forno. Notai la curva lunga delle sue ciglia e un piccolo neo all'attaccatura dei capelli, sulla fronte. Il mio cuore perse diversi battiti nel suo odore, che mi ricordava le foglie bagnate dalla pioggia.Che strano.
-Ora ce ne andiamo da qui, in un posto tranquillo-. Aiuto! Gli posai le mani sul petto cercando di spingerlo via, ma lui era più forte. Ridacchiò visibilmente divertito dalla mia audacia e mi spinse verso il muro. La mia testa toccò con inaspettata dolcezza le mattonelle gelide. Credevo volesse approfittarsi di me. E stavo preparando il ginocchio a colpire i suoi gioielli di famiglia. Invece lui tirò semplicemente lo sciacquone e mi sorrise con la stessa gioia di un bambino che ha appena scartato un regalo.

Magia e poco tempo
Mi parve di fluttuare tra bolle di sapone e per alcuni istanti tutto divenne buio, come se Nathan avesse spento le luci del bagno. La mia testa era ancora appoggiata al muro, ma aveva la consistenza ruvida e graffiante della pietra. Nei miei occhi si specchiarono in quelli di Nathan e poi a spaziare sulle mura in mattoni di case antiche di quello che sembrava un vicolo, coperto da un cielo plumbeo. Come diamine aveva fatto? Forse stavo sognando.
-Siamo a Venezia- anticipò la domanda che premevo di fargli, indietreggiando di un passo. Voci di persone giungevano in sottofondo. Mi girò la testa e mi appoggiai meglio al muro. Lui si protese ad aiutarmi. La sua bocca così vicina. Stava per baciarmi. Abbassai lo sguardo a terra e le sue labbra si posarono tra i miei occhi, all'inizio del naso. Tremavo e non capivo più nulla. Dovevo dirgli la verità per allontanarlo, prima che creasse un casino.
-Se bacio qualcuno per cui non sento niente poi...-. Non volevo completare la frase, mi venne in mente Carter, un bambino che mi aveva dato un bacio sulle labbra per gioco all'asilo e di cui poi non si seppe più nulla. Mi sentivo in colpa, sapevo che era scomparso a causa della mia maledizione. -Non posso, ho infranto un sacco di cuori e sono così stanca-. Non potevo permettergli di baciarmi.
-Allora non respingermi- sussurrò mentre faceva scivolare le mani sulle mie. Mi desiderava glielo leggevo negli occhi. Come potevo mandarlo via?
-Io posso spezzare la maledizione Emily-. Cosa? Come sapeva della maledizione?
Era preoccupato, mentre il senso di disagio cresceva in me, lasciandomi senza parole.
-Non è facile da spiegare ma...- cominciò sospirando -La tua famiglia è stata maledetta dai demoni. E' tremendo, ma per continuare ad avere un potere sulla Terra, ci serviamo anche di donne mortali per continuare la nostra stirpe. Io e te siamo vincolati-. Non riuscivo a parlare. Un senso di nausea mi assalì. -Se ti stai chiedendo se siamo parenti, beh no. Tuo nonno era il capo clan dei Reiyel, prima di sposare tua nonna, io provengo dal clan Mumiah-.
Volevo fargli un applauso per la creatività, ma dentro di me sapevo che era così, che non mi stava mentendo. Era questa la parte della maledizione che non conoscevo.
-Quindi sei un demone?-. Non mi sentivo impressionata, ma confusa. Quella parete divenne la mia colonna vertebrale, altrimenti mi sarei afflosciata a terra.
-Sì- scostò una mano, per far comparire una fiammella sul suo palmo che si spense in scintille arancioni. Come conferma. -Ma non sono malvagio, ti tratterò meglio di qualunque mortale. All'inizio ero spaventato da tutto questo. Così ti ho spiato e ho capito nel tempo che non potrei avere una compagna migliore di te. So che è difficile da credere... tu non mi conosci-.
Non sapevo se sentirmi offesa. -Ma i demoni non fanno...cose cattive?-.
-Non tutti, ma che posso farci? Io ti appartengo. Sono le tue labbra che voglio baciare, è il tuo profumo che mi guida ovunque tu sia, per sempre-.
-Allora forse dovrei cambiare profumo- sorrisi sarcastica.
Lui ridacchiò. -Fidati di me, ti prego-.
-Mi chiedi troppo-.
-Lo so, ma per colpa mia abbiamo tempo fino alla mezzanotte di oggi, dovrai innamorarti di me-.
Piegai la testa di lato, per notare una sfumatura rossastra cerchiargli le iridi. -E se non succede?-.
Ero così perplessa, disorientata.
-Diventeremo cenere- concluse in un soffio e quelle parole mi fecero rabbrividire.

La tenerezza del cuore
-Da dove si parte violatore della mia privacy?- gli nascosi la mia angoscia e il mio disappunto su tutta quella faccenda. Lui si scompigliò i capelli, prima di prendermi per mano di nuovo.
-Andiamo- rispose, incoraggiandomi. Sembrava così tranquillo, mentre io dubitavo di poter provare lo stesso desiderio che sentiva lui in poche ore. Ma cercai a tutti i costi di non aver paura. Mi posò la sua giacca troppo grande sulle spalle e ne fece comparire dall'aria una per sé, prima di confonderci con la folla mascherata che girava per le vie, i ponti ed i canali di acqua verde salmastra. Venezia era indubbiamente romantica. Due bambini mi urtarono correndo, per lanciarsi dei coriandoli. Lui ne approfittò per stringermi al suo fianco, ma ora quel contatto mi disturbava. Mi sentivo costretta a farmelo andare a genio. Camminammo per un po' tra gli enormi palazzi e chiese, mentre lui mi parlava della sua vita. Cresceva in me la consapevolezza di avere il peso anche della sua esistenza sul cuore. Era una tragedia: io ero cresciuta evitando l'amore e non avevo idea di come innamorarmi. Avevo paura anche se ero nata per questo.
Nathan si fermò un attimo, dicendomi di aspettarlo, mentre si infilava dentro una bottega, con una scritta che non sapevo decifrare sull'insegna. Il vento sembrava più freddo ora che si era allontanato. Tornò poco dopo, con in mano un sacchetto bianco. -Sono per te- mi disse, porgendomelo. Con curiosità ci guardai dentro, notando dei dolcetti fritti tondi, ricoperti da una spolverata di zucchero a velo. -Sono ottime, assaggiale-. In effetti stavo morendo di fame. Aveva ragione, dentro erano dolci, ripieni di crema soffice. Lo ringraziai mentre mi conduceva sopra un ponte, al cui di sotto stava galleggiando una sorta di barca lunga e nera, con due innamorati che si baciavano. Provai un moto di invidia, mentre addentavo l'ultimo dolcetto. Lui era così gentile con me. Ma questo bastava?
Mi guardava attentamente. Sollevò un dito verso il mio viso e mi accarezzò l'angolo della bocca con dolcezza. -Avevi un po' di crema- si leccò il polpastrello per poi tornare serio -Sta funzionando?-. Capii subito cosa intendesse. Mi portai una mano al petto. Tum. Tum. -No, ma mi sto divertendo- ammisi, con un sospiro di frustrazione che faceva risultare le mie parole quasi una bugia. Pensai alla nonna, era così tenace, ed aveva accettato ciò che ora toccava a me.
Dei turisti giapponesi, credo, si fermarono a scattarci delle foto ed una ragazza con la borsa trapuntata di fenicotteri rosa ci disse che eravamo proprio carini. Forse aveva ragione. Lo trovavo carino, ma non glielo avrei mai detto.
-A volte bisogna saper rischiare- sussurrò solleticandomi l'orecchio con il suo respiro -Ma non ti succederà mai nulla di brutto con me-.
-Promesso?- mi assicurai. Lui scosse la testa, ma era felice. Mi tolse la maschera di pizzo, e poi si inginocchiò per terra. La folla sembrò non notarlo, ma io mi stavo imbarazzando lo stesso. Infilò le mani sotto il bordo della gonna, per poi armeggiare con il nastrino che teneva i tacchi saldi ai miei piedi.
-Ti mostrerò che nessuno è come me- era sfrontatezza ciò che sentivo nel suo tono.
-Ah si?- lo sfidai. Fece un gesto plateale e mi porse la mano, che afferrai. Dal ponte ci trovammo in un attimo sopra la superficie dell'acqua, fresca sotto la pianta dei miei piedi nudi. Ero piacevolmente meravigliata -E' magnifico, Nathan-. Visitammo tantissimi canali, volteggiando invisibili, mentre la gente festeggiava tra artisti di strada, travestimenti e venditori di souvenir. Finché tornammo al punto dove erano rimaste abbandonate le mie scarpe.

Lieto fine?
-Forse è proprio questo che sbaglio-. Il rosso del sole illuminò le sagome dei nostri volti. Lui continuava a stringermi a sé, così forte, che quasi mi mancava il respiro e potevo percepire ogni lembo del suo petto sotto il giaccone di pelle nera. In quel momento ebbi la consapevolezza che non mi avrebbe lasciata andare. Mai.
Avvicinai la mia bocca alla sua, ma rimanendo ad una distanza di sicurezza. -Io ho sempre avuto paura, perché vedevo la maledizione come un ostacolo, sapevo che c'era una persona in grado di spezzarla. Ma tu hai idea di come si riconosce la persona giusta? Dici di esserlo, ma io come faccio a saperlo? Insomma... Sei sbucato dal nulla-.
-Hai anche paura di me- sospirò sulle mie labbra, in modo così accogliente che sentivo di potermi sciogliere come un cioccolatino dimenticato in tasca. Ma cercai di restare vigile.
-Io ho paura di amare- sentenziai quella verità, pesante come un macigno sulla mia anima -Perché per me è un territorio inesplorato, capisci? L'ho sempre evitato-.
-Voglio essere il ladro del tuo cuore, essere colui che ti accompagnerà in questa scoperta, e non per via degli obblighi del mio destino. So che un giorno non basta per conoscerci, ma tu sei formidabile, davvero, ed io ti appartengo già. Se mi vorrai al tuo fianco, io non te ne farò pentire. Ti aspetto da troppo tempo- sussurrò, riempiendo con studiata lentezza la distanza tra le nostre labbra. E questa volta non lo fermai. Perché sapevo che aveva ragione lui. Affrontiamo la paura solo provandola, guardiamo in faccia la realtà solo se abbiamo il coraggio di aprire gli occhi al buio. Ed impariamo ad amare solo se azzeriamo le difese e facciamo posto nel nostro cuore. Rischiando, come nel gioco d'azzardo, perché non si conosce come va a finire.
Se il destino voleva questo, allora ci avrebbe tenuto insieme.

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