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Mi risvegliai in ospedale e le infermiere accorsero subito verso di me.
Sembravano leggermente agitate, le vedevo muoversi freneticamente tutto attorno al mio letto.
Parlavano ma non capivo cosa stessero dicendo.
Ero confusa, frastornata.
Il dottore mi aveva salutata con un grande sorriso stampato in faccia e poi mi disse che mi avrebbero estubata e che dovevo prendere un respiro profondo.
Fu un'esperienza orribile; non appena la mia gola fu libera da quel tubo cominciai a tossire sputando più saliva di quella che pensavo di avere, per poco non vomitai.
Le ore successive furono altrettanto confuse poiché mi fecero una serie infinita di esami e cose varie.
Io me ne stavo lì, senza dire una parola.
Li lasciai lavorare senza chiedergli quando potevo andarmene.
Quando riuscii ad alzarmi andai in bagno e non appena mi guardai allo specchio mi sorpresi non poco quando vidi che i miei capelli, oltre ad aver superato di poco le spalle poiché non li avevo tagliati per sette mesi, erano anche diventati molto più mossi di quello che ricordavo.
Mi portai la mano destra su di essi e fu a quel punto che notai una cosa ancora più strana.
Avevo dei puntini neri su tutte e cinque le dita più un altro sul palmo.
«Ma che diavolo...»
A quel punto presi la saponetta tra le mani e provai a lavare via quegli strani puntini, ma per quanto sfregavo quei cosi non se ne andavano.
Alla fine mi arresi.
«Possiamo chiamare i tuoi genitori o qualche familiare?» mi chiese con tono gentile il medico non appena ritornai in stanza.
«I miei genitori abitano fuori città... come il resto della mia famiglia» risposi io senza guardarlo in faccia.
«Capisco» dal suo tono di voce riuscii a capire che fosse triste per me.
Ma io non ero triste o abbattuta per ciò.
I miei genitori mi avevano mandata in quella città per liberarsi di un peso, non di una figlia.
Non volevano avere niente a che fare con me e avevano pensato bene di mandarmi lontano da loro con la scusa che avrei dovuto cominciare a essere più indipendente ora che avevo 23 anni.
Qualche ora più tardi mi venne comunicato che ero pronta per le dimissioni.
Non avevo nulla con me, quindi le infermiere mi diedero dei vestiti presi dagli oggetti smarriti.
L'unica cosa che mi apparteneva era la carta di identità e le chiavi di casa; a detta loro le avevo in tasca quando i paramedici mi avevano portata in ospedale.
Quando fui finalmente libera presi a vagare per le strade di Jungjin come se mi fossi appena svegliata in un altro mondo.
Dovevo andare a casa, ma allo stesso tempo non volevo tornarci e per questo motivo camminavo più lentamente, come se in realtà non avessi una meta.
Ero a circa metà strada quando cominciai a sentirmi seguita.
Non mi voltai, sapevo che dietro di me c'era qualcuno... due persone.
Riuscivo a sentire i loro passi e i loro respiri.
Il mio cuore prese a battere più forte, ma dovevo essere pronta... anche se non sapevo combattere.
Avrei dovuto improvvisare.
I passi si fecero sempre più vicini, fino a quando non sentii una mano sulla spalla.
Reagii d'istinto: in un attimo afferrai il braccio dello sconosciuto e con un'agilità che non sapevo di possedere glielo girai e lo atterrai mettendogli un ginocchio sulla schiena per bloccarlo.
Come cavolo avevo fatto!?
Io non ero in grado di combattere.
La signora dello Yung aveva detto che avevo bisogno di allenarmi per far sì che potessi utilizzare i poteri, come era possibile che fossi già in grado di fare una cosa del genere?
«Ehi ehi! Piano!» urlò il ragazzo che avevo appena atterrato.
Io non mollai la presa.
La seconda persona che era con lui, una ragazza con i capelli mossi e la frangetta, se ne stava lì in piedi a godersi lo spettacolo.
Poco dopo notai che erano vestiti allo stesso modo: una tuta rossa con due strisce bianche sulle maniche della felpa.
«Già mi piace» disse accennando una leggera risata.
Non avevo capito se lo stava dicendo al suo amico o se stava parlando tra sé e sé.
In un attimo però la situazione si ribaltò; il ragazzo aveva approfittato della mia distrazione per liberarsi dalla mia presa.
Non sembrò aver fatto alcun tipo di fatica.
Non mi atterrò né immobilizzò.
Voleva semplicemente liberarsi.
Io però non mi sentivo al sicuro e mi misi in posizione di attacco, con entrambi i pugni di fronte a me.
«Oh oh!» urlò allarmato il ragazzo, anche lui con i capelli mossi acconciati in un mullet.
«Sta tranquilla, non vogliamo farti del male» continuò.
«Che cosa volete da me!?» urlai senza abbassare la guardia.
A quel punto la ragazza, che era così silenziosa che quasi mi ero dimenticata di lei, avanzò verso di me.
«Devi venire con noi»
«E perchè dovrei? Nemmeno vi conosco»
Lei roteò gli occhi al cielo, come se dovesse spiegare qualcosa di basilare ad un bambino di 5 anni.
Uscì la mano destra che aveva in tasca e mi mostrò il palmo.
Anche lei aveva quei sei pallini su di essa.
Il ragazzo fece lo stesso.
«V-voi siete dei Counter?» chiesi abbassando i pugni.
«Esatto, vogliamo solo che tu venga con noi, così ti spiegheremo tutto»
«Non ho bisogno di nessuna spiegazione, non ho intenzione di far parte di tutto ciò»
I due reagirono in modo diverso.
Sul volto del ragazzo leggevo un misto di delusione e tristezza, ma quello della ragazza era impassibile, come se non avessi detto nulla.
«Adesso, se non c'è altro, io me ne andrei» feci per voltarmi per proseguire il mio cammino, ma la voce della ragazza mi interruppe.
«Quindi ti tiri fuori?»
«Ho bisogno di pensarci, ma prima voglio tornare a casa mia»
«Ti facevo più coraggiosa»
Mi stava provocando, ne ero certa.
Ma quella frase mi diede comunque molto fastidio e non riuscii a stare zitta.
«Tu non mi conosci» le dissi con tono minaccioso e avvicinandomi così tanto che i nostri visi, adesso, erano a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro.
Lei mantenne lo sguardo fisso sui miei occhi.
«Oh cavolo» bisbigliò il ragazzo che stava assistendo alla scena.
«Allora fa in modo che io mi ricreda su di te» mi sfidò lei.
Sapevo che voleva innervosirmi apposta per portarmi a fare quello che voleva lei.
Avrei dovuto rifiutare.
Ma qualcosa mi diceva che sarebbero ritornati.
Quindi meglio levarsi il dente e non pensarci più.
«D'accordo, ma me ne vado quando voglio»
«Affare fatto» disse allontanandosi da me.
Poi si voltò e prese a camminare.
Il ragazzo mi guardò e mi fece cenno di seguirla.
«Comunque... io mi chiamo So Moon e lei è Do Ha Na» disse indicando prima sé stesso e poi la ragazza.
Io feci un cenno con la testa.
«Tu invece sei?»
«Yoon Jieun» risposi secca io.
Dopo una decina di minuti Ha Na, che era rimasta davanti a noi, si fermò davanti ad un edificio.
Sul muro principale vi era un'insegna con scritto "NOODLES EONNI".
«Siamo arrivati» disse Moon accanto a me tutto eccitato.
Non mi rimase che prendere un bel respiro ed entrare.
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