6~ I can't
«You know that I can’t
Show you me
Give you me
I can’t show you a ruined part of myself
Once again I put a mask on and go to see you»
~~~
Da allora, il giovane si dedicò con ogni fibra di sé stesso al suo giardino, coltivando quei fiori che adesso avevano assunto un nuovo significato, una nuova sfumatura di colore, un nuovo calore.
Voleva renderli più belli, farli crescere ancora più rigogliosi, per lei.
Perché quei fiori erano tutto ciò che poteva darle, l'unico mezzo con cui poteva raggiungere il mondo esterno.
Voleva che quei fiori brillassero quanto il suo sguardo.
Ogni notte si acquattava tra le piante, e la aspettava.
Lei arrivava col suo cestino, si chinava e posava uno sguardo morbido su quel giardino.
Era da anni che il giovane non vedeva una morbidezza simile.
Ogni notte lottava contro sé stesso per non andarle incontro, per non raccoglierla da quel tappeto di spine e tenerla accanto a sé, per non crogiolarsi nel calore del suo sorriso.
Non poteva darle nulla se non i frammenti di sé stesso.
Non poteva mostrarle quanto fosse rovinato.
Non poteva addossarle questo peso, non poteva toccarla o l'avrebbe distrutta, così come aveva distrutto la sua vita.
E quindi ogni notte indossava la sua maschera e la osservava da lontano.
Una sera la ragazza giunse al suo giardino con le guance rosse e sporche di lacrime, le nocche graffiate e i vestiti malmessi: stava piangendo.
E stava imprecando.
Nel suo immaginario, il giovane aveva sempre creduto che le ragazze non potessero pronunciare parolacce, che determinati termini fossero troppo volgari per le loro labbra delicate - questo era ciò che gli avevano insegnato nel suo ducato.
Ma lei stava imprecando come un ubriaco nei bordelli:«Porca puttana quanto li odio, quegli stronzi. Quegli stronzi maledetti, crepassero! Morissero ammazzati nei loro letti o mentre pisciano, quei bastardi!»
Il giovane era sbigottito.
Si chiese perché lei fosse così infuriata, chi le avesse fatto un torto tale da ridurla in quello stato.
Era preoccupato, e al tempo stesso la trovava adorabile.
Una strana sensazione urgeva che le andasse incontro e la prendesse tra le braccia: voleva sorriderle, consolarla, prenderla in giro.
Spostarle dietro l'orecchio le ciocche arruffate e asciugarle le lacrime.
Avanzò di un passo. Un passo pieno di aspettative, di illusioni, di speranze.
Poi, la realtà gli piombò sopra e lo immobilizzò, il sorriso che aveva cominciato a piegargli le labbra raggelato, ogni muscolo teso e al tempo stesso pietrificato.
Non poteva.
Non poteva muoversi.
Non poteva volerla.
Non poteva starle accanto.
Era rovinato.
Improvvisamente lei si ruppe come una brocca d'acqua strabordante.
Cadde in ginocchio e si ruppe: cominciò a singhiozzare, i pugni serrati e il viso basso, in mezzo ai fiori.
«P-perchè non r-iesco, non p-posso, fare di p-piú? Perché n-non è mai abbastanza? Perché?! Non è giusto, non è g-giusto!» si lamentava, rivolta a sé stessa.
Sembrava una lacrima di luna, così chiara sotto la luce, così spenta sotto le stelle.
Lui la lasciò piangere, impedendosi di andarle incontro, pietrificato, le dita conficcate nella carne per ancorarsi alla realtà della sua impossibilità.
Dopo quelle che parvero ore, lei smise di singhiozzare.
Si asciugó le guance, riassumendo il controllo, respirando profondamente: lui la stava ammirando, turbato e al tempo stesso meravigliato.
Lei era in grado di apparire bella anche nella devastazione, in grado di apparire ordinata anche nel caos: era straordinaria.
La ragazza si rialzò in piedi, recuperando il cestino che aveva lanciato poco prima e cominciando a raccogliere i fiori.
Come se nulla fosse accaduto.
Come se non avesse pianto e gridato, disperandosi, fino a pochi istanti prima.
Infine, come ogni sera, scivolò nella notte e scomparve.
Il giovane rilasciò il respiro che non sapeva di aver trattenuto, sentendo la tensione sciogliersi.
Si lasciò cadere, senza fiato: ogni volta lei gli mozzava il fiato.
Si odiava per desiderarla così intensamente. Per volerle stare accanto, per tendere a lei, come una calamita.
Si odiava più del solito.
E al tempo stesso amava quel desiderio, perché quel modo di soffrire era un modo di vivere, quel dolore era comunque intensità, e aveva imparato che non esisteva vita senza intensità.
Quell'odio , quel dolore, quell'amore erano comunque vita.
E lui ci era aggrappato.
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