3~ I saw you hiding

«What is your name,
Do you have a place to go,
Oh, could you tell me?
I saw you hiding in this garden»

~~~


La notte nella sua torre era sempre buia e a tratti spaventosa.
Le candele non restavano mai accese a lungo, perché il giovane preferiva l'oscurità: sarebbe stato molto più difficile scorgere di sfuggita il proprio riflesso senza maschera negli specchi polverosi che infestavano la torre.

Gli specchi gli ricordavano la sua punizione e la sua condanna: ogni stanza della torre ne aveva almeno uno, e ogni giorno il giovane osservava il suo viso mascherato sotto i raggi del sole.

Quando scendeva la notte si toglieva la maschera, e senza candele riusciva a girovagare in quella sua gabbia respirando nuovamente l'aria pura.

Di notte il giovane diventava il mostro di cui i paesani parlavano, e infestava la torre come un'anima dannata.

Quando il cielo era limpido, il giovane usciva nel suo giardino per stendersi tra i fiori e ammirare la luna, che brillava lattea come era stato il colorito della sua pelle fino a qualche anno prima.
Anche la luna sembrava non rifiutarlo mai.

La natura non lo aveva mai rifiutato: aveva anzi raccolti quel bimbo sperduto, quel figlio abbandonato, e lo aveva nutrito e cresciuto.

Quella notte il giovane aveva l'unico occhio che ancora gli rimaneva spalancato, intento ad osservare il cielo stellato.
La brezza fredda gli si insinuava nei vestiti, e gli faceva ricoprire la pelle di brividi. Nonostante ciò, non aveva nessuna intenzione di tornare all'interno della torre.

Nel silenzio più assoluto, improvvisamente, udì un rumore sospetto.

Si mise in ascolto, tentando di identificare meglio il suono: qualcuno si stava muovendo nel suo giardino, poco distante da lui, e poteva percepirlo chiaramente.

Un brivido di paura gli corse lungo la schiena: non aveva la sua maschera, quindi per lui era impossibile mostrarsi.
Si immobilizzò, trattenendo il fiato.

Si sentì ridicolo: costretto a nascondersi da un intruso nella sua stessa proprietà.

Si avvicinò di soppiatto, strisciando sul terreno, avvicinandosi alla fonte del rumore, mentre una furia cieca montava dentro di sé.

Chi mai era stato così folle, così sprovveduto, da inoltrarsi nel castello del mostro?

La luna era brillante e illuminò subito l'intruso.
C'era una ragazza china nel suo giardino, e stava raccogliendo i suoi fiori.
Il giovane raggelò.

Come osava, quella sfrontata ladra, rubare i suoi preziosi fiori? Rubare la fonte dell'unico colore, rubare l'unica cosa che lo teneva ancora in vita, rubare quella sua unica speranza.
Era come rubargli la vita.

Avrebbe voluto gridarle contro, palesarsi nella sua orribile forma e cacciarla dal suo angolo di felicità, strapparle di mano i fiori che stava rubando, ma era spaventato.
Spaventato che lei potesse vederlo, e potesse ritrarsi.
Aveva paura di essere rifiutato ancora, perciò rimase fermo, costretto ad osservarla.

Era vestita di stracci, i suoi capelli scuri erano arricciati e sporchi, la sua pelle coperta di polvere e terra, come se dormisse per strada.
I suoi gesti erano veloci e precisi, lo sguardo abbassato, concentrato su ciò che stava facendo.

Nonostante ciò, il giovane riusciva a vedere quegli occhi sfavillare.
Non sapeva il nome di quella ragazza, non conosceva nulla della sua vita, e anzi odiava ciò che stava facendo, ciò di cui lo stava privando.
Eppure voleva sapere.

Voleva avvicinarsi, parlarle, chiederle e interessarsi.
Erano passati anni dall'ultima volta che aveva incontrato un'altra persona, ma lei era lì, nel suo territorio, sporca eppure così bella, così piena di vita, una vita che viveva in modo differente da lui e dai suoi fiori.
Voleva sapere di più riguardo quella vita.

Ma non poteva muoversi.
Non poteva mostrarsi.

La osservò sotto il  chiaro di luna fino alla fine.
La osservò raccogliere i suoi fiori, odiandola e al tempo stesso rimanendone affascinato.

Finché lei si alzò, si scrollò di dosso la terra sui suoi vestiti, tentando inutilmente di pulirli.
Si guardò intorno, circospetta, costringendo il giovane ad appiattirsi contro il terreno.
Sospirò, lanciando un'ultima occhiata al suo cestino ormai pieno di fiori, e poi, così com'era apparsa, misteriosa come la luna, scomparve.
Oltrepassò il cancello che delimitava il giardino, e fu inghiottita dalla notte; lei, il suo cestino e i suoi occhi brillanti.

Il giovane rilassò i muscoli tesi fino ad allora.
Ringhiò, furioso.

Il cuore gli batteva all'impazzata.
Da quanto tempo non provava quelle emozioni? Quanto tempo, quanti anni, quante occasioni e possibilità aveva perso?

La odiava.
La odiava da morire perché aveva portato una tempesta di rabbia e frustrazione nel suo giardino, nel suo mondo di spine, e ora lo stavano pungendo.
La odiava perché lo aveva spaventato, perché gli aveva di nuovo fatto provare qualcosa, la odiava perché aveva rubato i suoi fiori e più di tutti odiava sé stesso.

Era un odio cocente che gli bruciava l'anima e gli faceva venire voglia di sbraitare.
Era un odio antico, intrinseco, avvinghiato a lui quasi dovesse strozzarlo.

Ma il giovane trovava la tranquillità in quel suo modo di odiare e di morirne.

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