Tricarico, 18/10/2006 ore 11:30

Non sento la voce stridula di Carolina.

Sono sola. Di nuovo.

No, un momento, dietro di me c'è il mio compagno di viaggio.

– Non sei sola, non lo sei mai, ricordatelo, – mi dice con il suo solito tono pacato, quasi rassicurante.

– A proposito, non ti ho ancora chiesto il nome. Forse l'hai detto quando quel pazzo è entrato nello scompartimento ma non credo di avertelo sentito dire.

– Infatti non l'ho detto. Ma, come ti ho detto prima, non è ancora il momento.

Che infame.

– E quando lo sarà?

– Molto presto.

– Va bene, aggiungiamo del mistero ad una situazione che di normale già non aveva nulla. Tanto sono convinta che prima o poi questo discorso salterà di nuovo fuori.

– Sicuramente.

– Ma dove mi hai portata ora? In un asilo?

– Siamo in un paesotto nell'entroterra lucano, una delle più problematiche aree interne del vostro paese.

– Aree interne?

– Ma l'hai presa o no questa laurea in architettura?

Lo fisso negli occhi, furibonda, ma non replico.

– Le aree interne sono quei territori caratterizzati da un'importante distanza dai principali centri di offerta di servizi essenziali come scuole, ospedali, centri per l'impiego, etc... ma voi giovani chiamate tutti questi posti un po' lontani e abbandonati con un unico nome.

– E sarebbe?

– Culonia.

Wow, che battutona. Sicuramente premio comicità dell'anno.

– Anche tu mi sei simpatica, Annarita.

Sì, tutte chiacchiere.

Però devo ammetterlo: per essere in provincia di Culonia mi accorgo che si tratta comunque di un bel posto. L'atrio dove siamo non è molto grande, ma, attraversata la strada, ci si ritrova direttamente nella graziosa villa comunale irraggiata da sprazzi di sole scoperto e picchiettante, capace di mostrare con estrema grazia il lato migliore di ogni bella esperienza.

L'aria è diversa qui, molto più pulita rispetto alla mia città.

Inspiro a pieni polmoni, sempre se questo sia reale, ma mi accorgo, voltando la testa verso la villa, che l'intera città si affaccia su una grande vallata imbevuta di boschi popolati da imponenti cerri e da querce maestose. Da lontano, invece, si notano delle piccole ma spigolose cime; devono essere le dolomiti lucane, nulla da invidiare alle "originali", forse un po' più basse e un po' meno brulle.

In tutto questo però sono circondata da una mandria indiavolata di bambini dai tre ai cinque anni che si muovono tutti intorno a me, chi fa finta di giocare a calcio con una pallina da tennis, chi gioca a nascondino, chi invece si diverte a fare giochi con l'acqua. Insomma, come direbbero a Roma, una caciara. Penso un po' a com'è stata la mia infanzia, direi che non mi posso lamentare, anche se preferivo più giocare da sola, come quel bambino di carnagione olivastra nell'angolo che se ne frega di tutto il resto e fa dei disegni con un bastoncino su del ciottolato.

I bambini... avevo dimenticato come ci si sentisse ad essere così liberi, così puri. Come se fosse scomparso.

– Tutto ciò che scompare, Annarita, rimane sempre ben in vista dentro di noi.

– Forse è proprio così. O forse hai sempre ragione tu, come per tutto il resto.

– Non ho mai preteso di aver ragione.

Mi fanno un po' tenerezza e allo stesso tempo molta paura: io non sarei capace di gestire queste situazioni, andrei nel panico anche se uno solo di loro cadesse a terra e piangesse chiamando la mamma.

– Allora bambini, tutti intorno a me adesso!

Una voce da uomo quasi mi fa saltare sul posto urlando come un forsennato per farsi sentire da tutti. Non è un maestro, almeno non all'apparenza. Ha il viso totalmente truccato, un naso roso di plastica, una ridicola parrucca fatta tutta di ricci scuri ed è imbottito di cipria anche sulle braccia. Un clown.

Sta iniziando a fare dei palloncini tutti di forme diverse.

– Un classico insomma. Non so come i bambini possano trovarlo ancora divertente.

Il mio amico scuote la testa mentre anche lui continua ad osservare la scena con me.

Ad un certo punto il clown inizia a correre tutto intorno all'atrio, imprecando per il fatto di non riuscire a trovare più i suoi pantaloni, mentre con grande orgoglio sfoggia i suoi mutandoni a pois rossi.

– Anche questo un grande classico, – dico, un po' imbrunita in volto.

Ed ecco che si avvicina al bambino rimasto da solo a disegnare. Lo fissa facendogli delle linguacce e, con una voce molto grottesca ma amichevole, sembra voler chiedergli se sappia dove sono finiti i suoi pantaloni.

Il bambino lo ignora totalmente.

– L'avrei fatto anche io, non ho mai provato troppa simpatia per i pagliacci.

– Guarda meglio... – replica il mio amico.

E come sempre, ha ragione lui. Il bambino in questione ha un apparecchio acustico dietro l'orecchio sinistro.

Allora il pagliaccio si dà al mimo, inizia a gesticolare cercando di strappare un fiore di cartapesta che aveva conficcato nel terreno. Dopo alcuni tentativi, andati volutamente e ovviamente a vuoto, continua a provarci, facendo dei capitomboli incredibili, ma non ci riesce. Si asciuga il sudore dalla fronte e riprova ancora, saltando sul posto, suonando un fischietto giallo per l'esasperazione, facendo finta di piangere, il tutto contornato da mugugni di rassegnazione.

Stavolta il bambino si volta e lo guarda. Un timido sorriso inizia a dipingersi sul suo volto.

Con molta gentilezza e quasi con naturalezza, il bambino si avvicina al fiore di cartapesta e lo coglie dandolo al clown il quale, con un urlo di gioia e con un sorriso smagliante, prende il fiore e inizia a danzare con il bambino, portandolo a cavalcioni e mettendolo insieme al gruppetto di bambini che tutti insieme acclamano il piccolo eroe della giornata.

– Beh, complimenti. Alla fine c'è riuscito anche a far ridere quel bambino, – dico al mio bianconiglio.

Ma ad osservare l'intera scena non eravamo solo noi due: c'era ovviamente anche la maestra di quell'asilo, vestita con un grembiule azzurrino e con le mani impiastricciate di colori a tempera. Con una strana apprensione si catapulta verso il clown che ha ancora il bambino sulle spalle e, prendendolo in braccio, si allontana dal gruppo con il bambino, lo stringe a sé baciandolo più volte sulla fronte e sulle guance. Il clown segue la maestra, portando con sé un ridicolo zainetto rosa che mi sembra aver già visto.

– È successo qualcosa? – chiede alla maestra, facendosi immediatamente serio, come se avesse il presentimento di aver fatto qualcosa di sbagliato.

– Mi chiedi se è successo qualcosa? – risponde quasi in lacrime l'anziana maestra, – Tu non conosci questi bambini, non sai cosa è successo ad Omar.

– Intendi per l'apparecchio acustico? – chiede ancora il clown.

– Quando due anni fa Omar è arrivato qui dalla Libia abbiamo fatto delle ricerche, venendo a conoscenza del fatto che una bomba aveva ucciso entrambi i suoi genitori e tolto a lui l'udito. Da quando è qui non l'ho mai visto sorridere. Tu hai fatto qualcosa di così grande che non riesco a spiegarmi, – dice ancora con la voce rotta dall'emozione.

Un po' mi sono emozionata anch'io. Sento gli occhi inumidirsi.

Il clown allora riacquista il proprio sorriso, spostando una ciocca di capelli dalla fronte di Omar e carezzandogli il volto, visibilmente emozionato.

– Ecco spiegato con chi stava parlando al telefono, con quella donna... – mi sussurra il mio amico.

– È una cosa di una bellezza unica, ho sempre il giudizio affrettato nei confronti delle persone.

– È un difetto comune a molti umani.

– Dimmi una cosa... – dico con la voce rotta dall'emozione.

– Ti ascolto.

– Può una bellezza così semplice e così profonda farmi riempire gli occhi di lacrime?

– Può darsi, cara Annarita. Magari riuscirai ad apprezzare di più il sorriso che si dipinge sul volto di un bambino.

– Può darsi.

– Signorina, signorina!

Sento un'altra voce, ma non riesco a capire da dove provenga...

– Signorina, signorina! Ha detto che doveva aiutarmi!

Questa voce la conosco... è Mariele!

Ancora uno schiocco di dita e sono di nuovo sul treno.

– Signorina! – mi sento scuotere un braccio, – Non si sarà mica addormentata!

– Io? Addormentata? Per carità... – mento strabuzzandomi gli occhi mentre mi rendo conto di essere ritornata a bordo del treno e lancio un'occhiataccia al mio simpaticissimo compagno di viaggio.

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