Nogales (Sonora, MEX), 17/04/2018 ore 16:50
– Nogales? Niente galli? – ridacchio a denti stretti come una cretina e allo stesso tempo cerco un buco per sotterrare la faccia.
– A volte mi domando come Carolina faccia a sopportarti... – replica secco il mio interlocutore, poi prosegue, portando il suo sguardo sul grande muro fatto di enormi canne color ruggine che stridono terribilmente con il cielo azzurrino senza nuvole.
– Il nome Nogales è spagnolo, probabilmente si riferisce ai grandi alberi di noci che si trovavano nel passo montano che si vede lì alle nostre spalle, – mi indica con il dito.
È un altopiano piuttosto brullo con diverse colline, alcune più alte delle altre da cui si inerpicano diverse antenne che sovrastano tutto il resto.
Non so chi abbia fatto il piano urbanistico di questa città, ma di sicuro se l'avesse fatto mio nonno senza occhiali sarebbe riuscito a fare qualcosa di più decente. Non c'è nessun criterio, solo diverse case sparse un po' ovunque, anche lontane centinaia di metri l'una dall'altra. L'architetto che è in me si sta suicidando.
Qualcosa non torna...
Mi volto di nuovo e inizio ad osservare una serie di autobus, riverniciati malamente di bianco e strapieni di gente.
– Prima che lo chieda, sono tutti uomini e donne messicani con ordini di estradizione immediata. Ne arrivano centinaia al giorno da queste parti. E questo è solo uno dei confini tra Stati Uniti e Messico, il più antico.
– Ecco dove siamo! Alla fine Trump c'è riuscito ad innalzare il muro, siamo capaci solo a fare questo, ad alzare muri.
– In realtà non è colpa di Trump, almeno non tutta. Il muro esiste dal 1918, è uno dei più antichi e che risponde alla tua domanda dello strano "disordine" nella disposizione delle case di questa città. Il muro la divide in due parti; se lo scavalchi e se riesci a sopravvivere ti ritroverai in Nogales, Arizona, Stati Uniti.
– Una città divisa in due?
– Esattamente, come Berlino Ovest e Berlino Est e tante altre città murate della storia. Conosci la storia, vero?
– Sì. – chiudo lì il discorso guardando tutta quella gente, uomini e donne scortati dalla polizia di frontiera, come un gregge di pecore. Hanno tutti la stessa espressione, vuota, assente, spenta.
La stessa che ho visto nell'uomo che non aveva pagato il biglietto sul treno.
– Appunto, siamo qui per lui, no? Non dirmi che è tra questi corridoi di persone?
La mia guida, piuttosto accigliata, scuote la testa con un rapido movimento. Poi, facendo roteare con la mano la catenella legata all'orologio da taschino, schiocca le dita.
In un lampo, ci ritroviamo sull'uscio di una piccola e vecchia casa... se così si può chiamare.
– Una catapecchia, esattamente.
Un asfissiante odore di naftalina misto a puzzo di sudore e di umanità penetra fin dentro le mie ossa. Sembra di essere all'interno di un incubo: una tettoia di lamiere d'alluminio e amianto dalla quale gronda dell'acqua stagnante, un piccolo fornellino a gas posto in un angolo di una parete che, un tempo, doveva essere bianca ed ora completamente annerita per i fumi e per la sporcizia. Poi all'angolo diametralmente opposto ai fornelli non posso non notare una piccolissima televisione, una di quelle televisioni con il tubo catodico. A terra, invece, c'è solo una rete di quello che una volta doveva essere un letto con un largo materasso rosso.
– Quanta bellezza...
– Su, entra, guarda con attenzione.
Faccio qualche passo all'interno e mi balzano all'occhio una serie di poster appiccicati con dei chiodi e stracciati negli angoli. Poster che ritraggono calciatori dal nome sconosciuto, di macchine da corsa, di supereroi. Mi sembra di essere stata catapultata nuovamente negli anni novanta. E davanti a me ne ho la conferma: su di un tavolino che credo venga usato per mangiare trovo qualcosa di davvero singolare, qualcosa che ha dei retaggi talmente nascosti della mia infanzia che credevo di aver seppellito per sempre insieme al gattino Virgola e Tonio Cartonio.
– Sì, è proprio una videocassetta.
La rigiro tra le mani. Nessuna etichetta, nessuna scritta, tranne che sulla parte anteriore dove c'è scritto molto in grande "Captain America" su un pezzettino di nastro adesivo gommato. Mi sono ritornate in mente tantissime immagini, quando non c'era internet e per poter rivedere un film eri costretto ad aspettare che lo passasse la televisione e a doverlo registrare su cassetta, con tanto di pubblicità ovviamente.
Sorrido.
– Sai, una volta ne guardavo a centinaia e a ripetizione con mia madre, quando ancora avevamo un rapporto. Forse lei è stata sempre un po' troppo distante nei miei confronti... o forse io nei suoi.
– L'essere distanti, l'essere cauti, Annarita, è il contrario dell'essere felici.
Voci indistinte arrivano alle mie orecchie. Provengono da fuori.
– Vado a vedere. – dico al mio amico.
C'è solo una piccola stradina privata, non vedo auto nei paraggi. Una piccola scritta grossolanamente con della vernice azzurra dice "Via de la libertad".
Quelle che si sentono sono le urla di gioia di un bambino, credo che non abbia più di dieci anni, dei capelli cortissimi a scopettina e pare sia vestito anche bene, molto bene. Sembra contrastare troppo con tutta la povertà che attornia le case qui vicino.
Ha una palla di cuoio tra i piedi, ripete più volte dei palleggi un po' malriusciti. Ma non gli importa, accanto a lui c'è il padre. Ed è proprio lui, l'uomo che avevo visto in treno.
– È un padre di famiglia allora.
– Sì, Annarita.
– Ma guarda quanta gioia! Nemmeno io mi divertivo così tanto con mio padre... lo invidio. Questo che stiamo vedendo è il passato, vero?
– No.
– No? – domando ancora più stranita, – Non dirmi che puoi viaggiare anche nel futuro!
– Solo nei futuri potenziali, mia cara. E questo è il più prossimo, il più vicino; non il più bello, ma certamente il più probabile.
– Forse sei Dottor Strange... O Doctor Who, o una fusione dei due, ecco chi sei.
– Mi piacerebbe dirti di sì, ma preferisco rispondere alla domanda che ci ha portato qui: a quell'uomo i soldi serviranno per poter arrivare in tempo sull'aereo che lo condurrà qui. Gli serviranno per poter stare con suo figlio.
Mi fermo. Guardo la gioia negli occhi del ragazzino che continua ad urlare:
– Ne ho fatti dodici papà! Guardami, guardami!
– Bravissimo Esteban! Bravo! – esulta il padre. Sorrido anch'io con loro.
Ma come... li capisco? Credevo di essere una mezza sega con lo spagnolo...
– Per quello che vedi non credo ci sia bisogno di traduzione. L'amore non ha lingue.
- Vuoi dirmi che al potere di portarmi a spasso in vari luoghi e vari tempi hai anche il potere di Google Translate?
Il mio bianconiglio ridacchia alla mia domanda inopportuna, del resto lui non vi è abituato come Carolina, poi sospira.
Sappiamo entrambi di essere in uno spazio che non è in nessun luogo, che forse siamo ancora entrambi nel treno. Come se, per le cose davvero importanti, il tempo improvvisamente si sospendesse e ci facesse capire che questi sono gli attimi più importanti della vita.
Questi momenti, questi sorrisi.
E probabilmente è proprio così.
– Qui a Nogales, un po' come in tutto il Messico, ci sono tanti genitori orfani.
– Genitori?
– Purtroppo sì. Mamme e papà i cui figli, nati dall'altra parte della città prima dell'estradizione, si ritrovano cittadini americani. Con queste politiche restrittive è difficile che i genitori vedano i figli. I più fortunati possono vederli una volta l'anno, altrimenti bisogna aspettare la burocrazia americana per permessi di pochi giorni o poche ore.
– Davvero?
– Sì.
– Esteban ha undici anni. Vive in America, è la prima volta che riesce a vedere suo padre da quando aveva quattro anni. Non appena ha imparato a scrivere ha chiesto il permesso alle autorità per poterlo vedere, per poter stare poche ore con lui.
– Per farsi coccolare...
– Esatto. – risponde senza remore il mio bianconiglio.
I due continuano a giocare amabilmente mentre dall'asfalto il papà di Esteban prende un grande pezzo di cartone di forma circolare.
– Dai, prendilo! Vediamo se lo scudo del tuo personaggio preferito è davvero indistruttibile!
– Papi! È di vibranio, il metallo più duro della Terra!
Sorrido ancora di più. Avrei voluto avere io un padre così, un padre supereroe. Ed è buffo che il personaggio di Captain America che dovrebbe rappresentare la libertà, la lotta contro le oppressioni, le prepotenze e le angherie degli uomini sia il personaggio preferito di un ragazzo vittima di tutto ciò. Sono in questi momenti che mi vergogno di essere umana.
Noto, in lontananza, una terza figura. Da com'è vestita sembra una guardia federale o qualcosa del genere, con tanto di berrettino e manganello. Serve forse ad incutere paura? Non ne hanno già tanta questi poveracci?
– Serve a riportare il bambino negli Stati Uniti. È lì per controllare che il padre non si appropri del minore, del figlio, – risponde la mia guida.
– Uhm... per controllare, sì, certo.
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