𝐢𝐢. 𝓤n gioco da ragazzi
( act one ) : CHAPTER TWO
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⋆.˚ ★ ﹐ Logan si era reso conto dell'errore madornale che avevano fatto lui e le figlie di Demetra soltanto quando il rimbombo del fulmine creato dal figlio di Zeus lo aveva scaraventato a diversi metri di distanza.
E ne aveva avuto un ulteriore conferma quando, rimettendosi in piedi da quel folle volo, vide Reginald con la loro bandiera in mano.
Questo era ciò che era successo più o meno due ore prima, e ora, mentre aspettava che fosse il suo turno di essere visitato dal medico del campo, non poteva fare altro che ripensarci.
Almeno, però, era in buona compagnia: praticamente tutti i partecipanti al torneo erano finiti in infermeria, chi per un semplice controllo, come anche lui d'altronde, e chi per motivi più seri. Quindi aveva comunque potuto passare il tempo d'attesa interminabile a parlare con i suoi compagni di squadra, e anche con i suoi avversari.
Quelli messi peggio, al momento, erano James e Kaìque. E Apollon si sentiva incredibilmente solo senza i suoi due migliori amici. E si sentiva anche incredibilmente in colpa, perché lui stesso era il motivo principale per cui uno dei due si ritrovava in quella situazione.
Perfino il dottore, però, gli aveva detto di non essere così drammatico: erano entrambi svegli, rispondevano agli stimoli e avevano soltanto preso una bella botta, nulla che non gli fosse già successo almeno una decina di volte.
Quel medico, però, non aveva idea di quanto drammatico Apollon fosse davvero, e lui non aveva intenzione di rivelarglielo: aveva addirittura pensato che se si fosse colpito in testa abbastanza forte, forse lo avrebbero ricoverato assieme ai suoi due amici.
Si era subito reso conto che quella era probabilmente una delle idee più stupide che aveva mai avuto, e di idee stupide lui ne aveva avute tante. Eppure per qualche momento, ci aveva pensato davvero.
E proprio con questi pensieri ad affollargli la mente, Apollon era entrato nella piccola ma luminosa stanza bianca in cui riposavano Kaìque e James e aveva nascosto il piatto pieno di dolcetti al caramello dietro la schiena: aveva promesso a James che si sarebbe fatto perdonare, e lui andava matto per i dolcetti al caramello.
"Guarda un po' chi si vede." Disse James, con un tono particolare tagliente. "Il traditore."
Apollon incassò il colpo. James era sdraiato su un lettino, con un doppio cuscino per avere la testa rialzata, testa che ora era coperta da una fascia bianca, dove fino a poco prima c'era stata quella rossa. Kaìque, invece, probabilmente andando contro le direttive di ogni infermiere del Campo, si era seduto, e teneva la schiena appoggiata al muro della stanza. Proprio quest'ultimo, vedendolo entrare, scosse la testa. "Amico, è stato davvero un colpo basso il tuo."
Ma dicendo queste parole, già gli sorrideva.
Kaìque era una persona particolare: c'erano davvero tante cose che lo facevano incazzare, ma sapeva anche quando stare fuori dalle situazioni in cui non c'entrava, ed era proprio quello che stava facendo in quel momento.
Lasciava che fossero i suoi due amici a risolvere la questione da sé.
"In battaglia non esistono colpi bassi. Solo colpi necessari." Rispose Apollon, mentre si avvicinava al letto di James e si ci sedeva sopra, all'altezza dei polpacci del figlio di Afrodite, che dal canto suo aveva ancora un espressione dura in volto. "Ti ho portato questi." Disse Apollon, indicando il piatto che ora aveva sulle sue gambe.
James guardò prima il piatto, poi l'amico. "E tu credi che bastino i miei dolci preferiti per farti perdonare?" Gli chiese, ma Apollon l'aveva visto il luccichio nei suoi occhi quando glieli aveva offerti. Infatti, ora, sul suo volto era tornato un piccolo sorriso. "Se lo credi, sappi che hai ragione." Disse ancora, puntandogli il dito contro. "Ma sappi anche che sei in debito con me. E non si discute."
James prese un dolcetto dal piatto di Apollon e lo addentò, accompagnando questo suo gesto con un verso d'approvazione.
"Sembra ti stiano facendo un lavoro di mani, James." Disse Kaìque, avvicinatosi anche lui per prendere un dolcetto. "O di bocca." Aggiunse Apollon, portando le braccia a fare da scudo alla testa perché già sapeva che James lo avrebbe colpito. E così fece, anche più di una volta.
Tra loro tre era così: si prendevano in giro a vicenda, e la vittima di queste incursioni poteva cambiare da un momento all'altro.
Prendevano in giro James per la sua fissazione con gli specchi, Apollon per la sua poca perspicacia e Kaìque per la sua irascibilità. A ognuno il suo.
Questo breve momento di pace e di normalità tra loro tre, impegnati a ridere e a mangiare dolcetti, venne interrotto dalla porta della stanza che si apriva, con un impeto che non sarebbe mai potuto appartenere ad uno degli infermieri.
"Ravenna, ho scoperto che in Canada è illegale fingere di praticare la stregoneria ma praticarla davvero non lo è, lo sapevi?" Disse Elide entrando, e chi poteva essere, se non lei.
Non appena si rese conto che in quella stanza non c'era affatto Ravenna, Elide si fermò di blocco e si guardò intorno con espressione confusa.
"Ciao Elide." Disse Apollon, salutando con la mano. James si accodò.
"Come cazzo è possibile che sia illegale fingere di praticarla e non praticarla?" Chiese invece Kaìque. "Non ha alcun senso." Aggiunse ancora.
Elide fece spallucce. "Me lo chiedo anche io. Che stupidi i Canadesi." Disse sorridendo. Poi parlò di nuovo. "Comunque, cercavo mia sorella. Mi avevano detto che l'avrei trovata nella stanza numero sette."
Kaìque, Apollon e James si guardarono divertiti.
"Allora perché la stai cercando qui?" Disse James.
"Perché questa è la camera numero sette, mi sembra ovvio James." Rispose Elide, girandosi ad indicare il numero attaccato alla porta. Peccato che quel numero fosse un sei e non un sette.
"Oh - disse Elide vedendolo - Scherzavo, non è per niente la camera numero sette. Non ci crederete mai, ma è la seconda volta che sbaglio."
"Già. Non ci crederemo mai, assolutamente." Annuì Kaìque.
"Ciao di nuovo Elide." Aggiunse invece Apollon salutandola di nuovo con la mano, mentre lei si avvicinava nuovamente alla porta da cui era entrata poco prima.
Elide ricambiò il saluto e si chiuse la porta alle spalle, per poi riaprirla neanche cinque secondi dopo. "Ragazzi, comunque dovreste davvero farvi una doccia." Disse Elide, mantenendo inalterato lo stesso sorriso che aveva stampato sul volto dall'inizio. "Puzzate come dei maiali."
E se ne andò, riuscendo a sentire le risate incontrollabili dei tre ragazzi anche quando effettivamente raggiunse la camera di sua sorella, al terzo tentativo. Ma, come si suol dire, la terza è sempre la volta buona.
Entrando in camera di Ravenna, Elide rapidamente salutò sua sorella e le sue compagne di stanza temporanee. Beatriz e Maria erano due persone che non ti aspetteresti mai insieme. Forse era proprio questo il motivo per cui, invece, sembravano così inseparabili. Da una parte, Maria e il suo sguardo che sembra scavarti l'anima, le sue risposte taglienti.
Dall'altra, Beatriz e la sua luce, in grado di illuminare tutto ciò che la circonda, con il suo ottimismo evidentemente capace di fare breccia anche negli animi più particolari, come quello di Maria.
E anche se durante Caccia alla bandiera erano sempre costrette a sfidarsi, nulla cambiava nella loro amicizia.
Ravenna, dal canto suo, era una persona molto più solitaria. Preferiva stare in disparte, fare le cose da sola. Motivo per cui Elide rimase particolarmente sorpresa quando nella stanza scorse una quarta figura.
Asterios, con il suo mezzo sorriso sempre stampato sul volto, era stravaccato su una sedia e aveva la testa immersa in un libro dalla copertina nera.
"Vedo che abbiamo compagnia." Disse Elide, prendendo posto sul letto di sua sorella, e lanciandole uno sguardo, uno di quelli che solo due sorelle sarebbero in grado di comprendere.
La risposta di Ravenna arrivò immediata. "Lo avevano messo da solo nella stanza qui di fronte e ha pensato di venirci a trovare." Disse la corvina, parlando del figlio di Ade.
"Già. - annuì lui - Mi annoiavo."
"Pensa tu." Disse Maria, con un forte sarcasmo tagliente nella voce. E Beatriz le rispose con una leggera spinta. Anche loro erano sedute l'una affianco all'altra su uno dei tre letti.
"Mar, non essere antipatica." La riprese Beatriz continuando comunque a sorridere. Sapeva che con Maria era una battaglia persa. Avrebbe sempre detto quello che le passava per la mente, anche a costo di non risultare simpatica.
"Che c'è?" Chiese quest'ultima. "Non ho detto nulla. Per ora."
Fu il turno di Asterios di rispondere, essendosi sentito preso in causa. "Se do fastidio posso andare via." Iniziò lui, chiudendo il libro e usando il pollice della sua mano sinistra come segnalibro. "No, scherzavo. Non mi interessa se do fastidio, starò qui a prescindere." Disse ancora, e riaprì il libro, tornando a leggere dal punto in cui si era interrotto.
Il figlio di Ade era fatto così. Aveva una così alta considerazione di sé stesso da poter fare invidia persino ai figli di Zeus. Ma, più di ogni altra cosa, era impossibile da decifrare. Sembrava essere propenso a fare qualcosa e poi subito dopo lo si vedeva fare l'esatto opposto.
Era una mina vagante, ed era forse questo il motivo per cui molti, al campo, erano così attratti da lui.
Ravenna gli lanciò uno sguardo, uno di quegli sguardi giudicanti che sembrerebbero quasi emettere una sentenza, senza dover usare la voce o il martellino dei giudici durante i processi.
"Vault, non guardarmi in quel modo." Disse di nuovo Asterios, che non aveva staccato lo sguardo dal libro neanche per un secondo, ma era riuscito comunque a vederla, o forse a percepire l'intensità del suo giudizio gravitare sulle sue spalle. "Stavo scherzando." E finalmente, alzò lo sguardo dal libro e rivolse la sua completa attenzione a Ravenna, per la prima volta da quando era entrato.
Ad Elide non sfuggì quello scambio di sguardi e si chiese da quanto tempo andasse avanti quella situazione. Così, lasciandosi andare ad una breve risata, si alzò dal letto e si avviò verso la porta da cui era entrata poco prima. E questo riscosse Ravenna. "Eli, dove stai andando?" Chiese alla sorella, con le guance arrossate. Lei rispose puntandole un dito contro. "Non commenterò quello a cui ho assistito." Disse la figlia di Ecate. Poi si rivolse agli altri. "Qualcuno vuole qualcosa da mangiare?"
୨ৎ
Non appena le fu dato il via libera di andarsene dalla stanza d'ospedale in cui era stata per le ultime due ore, Kleopatra si era recata immediatamente all'armeria del campo.
La sconfitta le bruciava ancora addosso come il ghiaccio d'inverno. La sentiva su tutto il corpo, e non era riuscita a lavarsela via neanche con una lunga doccia.
Sapeva di non potersi aspettare sempre la vittoria, gli anni al campo glielo avevano insegnato più che bene. Ma quella non era stata una partita come le altre, era stata la prima prova del torneo, e lei avrebbe voluto vincere. Avrebbe dovuto vincere. Eppure non lo aveva fatto, era stata superata ancora una volta.
E adesso aveva bisogno di calmarsi, di sfogare tutta la tensione accumulata nelle ore già passate di quella giornata infernale.
Non aveva bisogno di armi per farlo, le bastava la sua furia, e i suoi pugni, che uno dopo l'altro iniziarono a colpire come un'onda improvvisa uno dei sacchi presenti nell'armeria.
Si fermò solo quando sentì dei rumori provenire dall'ingresso della grande stanza. Lysander e Silver fecero il loro ingresso, già armati fino ai denti e con lo stesso obbiettivo di Kleopatra in mente, allenarsi fino a sfinirsi.
Quando la videro, la salutarono.
"Kleo, scusa, non ti avevo proprio vista." Disse Silver. Lei scosse la testa in risposta.
"Non preoccuparti. L'importante è che non ci sia nessuno dell'altra squadra. - disse Kleopatra sorridendo - In questo momento mi sale la rabbia solo a pensarci." Il suo tono era scherzoso, ma sapeva perfettamente che in realtà intendeva davvero ciò che aveva detto.
Non le importava che tra le file della squadra rossa ci fossero persone che conosceva da anni, con cui aveva condiviso bellissime esperienze e a cui voleva bene. Quando Kleopatra si ritrovava con l'orgoglio ferito, non c'era nessuna motivazione che tenesse. Bisognava soltanto aspettare che passasse la bufera.
La figlia di Poseidone riprese il suo allenamento, con Lysander accanto che invece si preparava ad iniziare. "Vedo che abbiamo avuto tutti la stessa idea." Disse quest'ultimo, sorridendole appena un momento prima di iniziare anche lui a tempestare di colpi il suo sacco.
Dall'altra parte della sala, invece, Silver con il suo fisico snello e i capelli scuri legati in una treccia fatta di fretta, si allenava nel combattimento.
I suoi calci fendevano l'aria uno dopo l'altro.
Era notevole quanto in alto riuscisse ad arrivare, vista la sua statura e la sua corporatura minuta.
Fu lei la prima a vedere Marisol entrare nell'armeria, e fu lei la prima a rendersi conto che quella situazione non sarebbe finita bene.
Tra tutte le persone al campo, Marisol era sicuramente tra le più propense a provocare e, in quel momento, Kleopatra era tra le più propense a cedere alla provocazione. E infatti, proprio come Silver aveva previsto, Marisol parlò.
"Guarda un po' chi si rivede." Disse la figlia di Afrodite, camminando lentamente verso l'angolo della sala in cui Kleopatra e Lysander si stavano allenando. Quando fu vicina abbastanza, rivolse la sua completa attenzione al ragazzo.
"Com'è che avevi detto, Lys? Sarà un gioco da ragazzi?" Aggiunse, mentre il sorriso che aveva in volto le cresceva sempre di più.
"Dai Marisol, avete vinto. È proprio necessario rigirare il coltello nella piaga?" Disse Lysander, con il suo solito sarcasmo. Il figlio di Hermes, solitamente sempre in cerca di liti, probabilmente per la prima volta in vita sua cercò di non alimentare il fuoco ardente che già bruciava nell'aria.
"Si, è più che necessario. Io le cose che penso non me le tengo, lo sai." Rispose Marisol, continuando ad avere la stessa espressione soddisfatta stampata sul volto.
"Dovresti iniziare a farlo, allora." Disse Kleopatra, gettando a terra le protezioni per le nocche e rimanendo così a mani nude.
Vedendola avvicinarsi a Marisol, anche Silver dall'altro lato della stanza si fermò, mise da parte tutto ciò che stava facendo per dedicare la sua completa attenzione alla scena che stava avvenendo a pochi metri da dove si trovava lei.
Un passo dopo l'altro, Marisol e Kleopatra si ritrovarono l'una di fronte all'altra. La tensione tra le due era palpabile, ma la figlia di Afrodite continuava a mantenere il suo sorriso strafottente ad adombrarle il volto: si capiva quanto falso esso fosse proprio dal fatto che, solitamente, i sorrisi dovrebbero portare luce al volto, non ombra.
La sua espressione, invece, in quel momento sembrava più cupa che mai.
Dall'altra parte, la figlia di Poseidone non aveva alcun bisogno di nascondersi dietro un finto sorriso. Kleopatra voleva che si vedesse quanto era incazzata, e ci stava riuscendo più che bene.
"Oppure?" Chiese Marisol, senza alcuna strafottenza nella voce. "Cosa succede?" Sembrava lo stesse chiedendo davvero, a scopo informativo. Ma tutti, in quella stanza, sapevano che non era così. Le sue parole erano un'atto di sfida. E Kleopatra la colse.
Marisol non ebbe il tempo di parare il primo pugno della figlia di Poseidone, che la colpì direttamente al naso. Non cadde a terra, ma il colpo fu abbastanza forte da farle perdere per un momento l'equilibrio.
Ma la figlia di Afrodite era comunque sollevata, perché non aveva sentito nessun tumore di ossa spezzate a seguito del colpo, quindi per quanto male le facesse il naso, era improbabile che si fosse rotto.
Kleopatra aspettò un paio di secondi prima di colpire di nuovo. E questo fu il suo unico errore, perché ora Marisol se lo aspettava, e parò il colpo dirottandole il braccio prima di assestarle una gomitata sul labbro.
Se c'era una cosa che Marisol non sapeva fare per nulla, era il combattimento corpo a corpo. Non aveva mai imparato, non si ci era mai impegnata.
Peccato, pensò in quel momento. Un po' di tecnica in più le sarebbe servita eccome, anche perché Kleopatra era rimasta appena scalfita per un secondo dal colpo che aveva ricevuto ed era subito tornata ad attaccare la sua avversaria.
Marisol aveva tentato una finta, ma era stata clamorosamente scoperta dalla figlia di Poseidone che aveva contrattaccato con un colpo al ginocchio destro e questa volta l'aveva fatta finire a terra.
L'unica cosa che Marisol potè fare a questo punto, fu cercare di coprirsi la testa con le braccia, e parare la miriade di colpi che Kleopatra le stava scaricando addosso, come se avesse preso lei il posto del suo sacco da pugilato.
Dopo un tempo che le era sembrato interminabile, poi, Marisol non aveva sentito più il peso della sua avversaria addosso, e potè finalmente aprire gli occhi, tenuti serrati fino a quel momento. Kleopatra era stata tirata via dai figli di Hermes e ora Silver la stava allontanando il più possibile da lei.
Osservandola mentre si allontanava, Marisol non potè che provare invidia. La figlia di Poseidone manteneva la sua aria divina anche con i capelli arruffati e anche con il sangue che le scorreva dal labbro.
Se Marisol si fosse guardata allo specchio in quel momento, invece, probabilmente avrebbe visto soltanto qualcosa da odiare. Era questo il lato negativo dell'essere una figlia di Afrodite: sapere di essere figlia della dea della bellezza e dell'amore, sapere di dover essere lei stessa un esempio almeno in parte della divina bellezza di sua madre, e non sentirsene mai in grado.
Neppure nei momenti migliori.
Silver tornò indietro diretta a suo fratello: Lysander sembrava incapace di agire da solo, in quel momento. Aveva un'espressione di stupore dipinta in volto, e probabilmente era stata la sua espressione dall'inizio del combattimento.
"Perché cazzo non le hai fermate prima?" Quasi gli urlò contro sua sorella. Lysander guardò Silver con più serietà di quanta lei gliene avesse mai vista addosso, e poi rispose. "Sinceramente, avevo paura picchiasse anche me."
Silver sbuffò. "Sei inutile, cazzo." Gli disse lei, anche se non lo pensava davvero, e tornò a mettersi davanti a Marisol come scudo, vedendo che Kleopatra, che lei stessa aveva allontanato qualche minuto prima, stava tornando indietro.
Quando le ebbe raggiunte, la figlia di Poseidone puntò un dito contro Marisol, con la rabbia che rendeva i suoi occhi più scuri dell'abisso più profondo.
"Prima o poi - disse Kleopatra, quasi sputando fuori le parole con un'ira che in realtà ben le si addiceva - questa tua bocca del cazzo ti farà finire male, Costela." Si passò la mano sulla bocca, per pulirsi da quel poco di sangue che ancora non si era raggrumato. "E io non vedo l'ora che accada."
Poi si voltò, e uscì come una furia dall'armeria.
Marisol non le rispose.
୨ৎ
Dopo essere stata lasciata da sola nell'armeria anche da Silver e Lysander, Marisol si era presa un momento per pensare.
Non si sentiva in colpa per l'accaduto, ma riconosceva che avrebbe potuto evitarlo. Se la situazione fosse stata a parti inverse, l'avrebbe considerata una bastardata. Ma lo aveva fatto comunque, e non gliene importava granché.
Questo la diceva lunga sul tipo di persona che era diventata da quando era stata portata al campo.
Nel profondo sud del continente americano, con la foresta Amazzonica sempre alle spalle, Marisol non avrebbe mai neanche pensato ad un comportamento così vile.
Circondata dalla sua famiglia, dal suo popolo e dalla sua cultura, riusciva a dare il meglio di sé e a far fuoriuscire quella parte del suo carattere che ora teneva nascosta a tutti, una parte sensibile, gentile, luminosa come il nome che portava, ma che stava ancora soffrendo il lutto della sua vita prima del Campo Mezzosangue.
Con questi pensieri ad affollarle la mente, Marisol si avviò verso l'uscita della grande sala d'allenamento a testa bassa. Proprio perché aveva gli occhi troppo impegnati ad osservare le decorazioni delle mattonelle del pavimento non si accorse che sulla porta, in realtà, già si stagliava una figura.
"Hai sempre questa faccia cupa, Sole."
Marisol alzò lo sguardo di scatto, incontrando gli occhi scuri che avevano appena pronunciato quelle parole. La figlia di Afrodite lo aveva riconosciuto subito dalla voce: conosceva Damien Cabrera, la rovina fatta a persona, da più tempo di quanto avrebbe voluto e dire che parlava con gli occhi non era affatto un eufemismo.
Aveva questi occhi scuri e profondi, che risaltavano il suo volto fino a quasi mettere timore. Per capire ogni suo stato d'animo, a Marisol bastava leggere il suo sguardo.
"Ti ho già detto che non hai nessun diritto di chiamarmi così." Disse Marisol, senza neanche preoccuparsi di alzare la voce. Anche se avesse sussurrato, il fastidio nel suo tono sarebbe stato palese a chiunque.
Poi si avvicinò alla porta, con l'intenzione di attraversarla passando di fianco a Damien, che si stagliava al suo lato, poggiando la spalla destra allo stipite, con le braccia incrociate al petto.
Ma appena lui notò il movimento di Marisol, e ne capì l'intenzione, si spostò dal lato della porta per occuparne il centro e impedire che la ragazza potesse uscire da essa.
Marisol sbuffò e fece un passo indietro, per non dovergli stare così vicina, ritornando alla sua posizione iniziale.
"Cabrera, non ho tempo da perdere. Facciamo in fretta." Disse Marisol. "Cos'è che vuoi?"
La figlia di Afrodite aveva conosciuto Damien diversi anni prima, per quanto si possa dire di conoscere una persona tanto manipolatrice, tanto falsa, tanto egoista quanto lo era lui: era stato lui, infatti, a strapparla dalle radici della sua terra e a portarla al campo.
Il giorno in cui aveva conosciuto Damien, era stato per Marisol il peggiore della sua vita e non era più riuscita a guardarlo negli occhi senza leggerci dentro i resti di tutto ciò che aveva perso.
Damien, d'altronde, non le aveva reso le cose facili. L'aveva stanata, come si fa soltanto con le prede. Poi l'aveva trovata, e dopo aver messo a soqquadro la sua vita intera, l'aveva trascinata al campo di forza senza lasciarle alcuna scelta.
Ma forse, effettivamente, una scelta non l'avrebbe avuta comunque: aveva visto cosa accadeva ai semidei quando arrivavano al campo, aveva sentito le loro storie su mostri inimmaginabili che gli avevano dato la caccia per ore, giorni, ne aveva visto le ferite, sul corpo e nell'animo.
Ci sono notti, però, in cui si sveglia e pensa a come sarebbe stato essere lasciata indietro. Si chiede se davvero l'avrebbero raggiunta, quelle creature, o se avrebbe potuto continuare a vivere indisturbata. Si chiede se sarebbe morta, ma sa che l'avrebbero comunque accolta le braccia confortevoli della sua terra madre. E con questi pensieri torna a dormire.
"Chi ti dice che voglio qualcosa, Sole?" Le chiese Damien, andando ad insistere ancora una volta sull'uso di quel nomignolo che Marisol tanto odiava.
"Tu vuoi sempre qualcosa. È questo il punto." Rispose lei, alzando gli occhi al cielo. Da quando era arrivata al campo, aveva visto Damien poco e niente: una volta, era perfino passato un anno tra una visita e l'altra. Ma ogni singola volta, la sua presenza aveva significato per Marisol essere usata a qualche scopo.
La prima volta aveva avuto bisogno di un filtro d'amore, la seconda di un modo di intrufolarsi al piano superiore della Casa Grande per consultare l'oracolo, la terza di un posto in cui dormire per la notte, e il motivo per cui lui non potesse semplicemente dormire dove risiedeva per tutto il resto del tempo, Marisol non lo seppe mai.
In uno di questi incontri, Damien la obbligò perfino a tenere nella cabina dei figli di Afrodite un uovo di serpente che stava per schiudersi.
Anche di ciò, Marisol non seppe mai il motivo.
E ancora oggi, non sarebbe stata in grado di spiegare precisamente quale fosse il ruolo di Damien al campo. Sapeva che era un'essere sovrannaturale, probabilmente un semidio, ma non aveva altre informazioni su di lui o su cosa facesse nei lunghi periodo di assenza dal campo.
"Che bassa considerazione che hai di me." Disse ancora Damien, questa volta lasciandosi sfuggire un sorriso, il primo da quando si era palesato.
"Non puoi semplicemente credere che sono tornato per un saluto ad un'amica?" Chiese, mettendo su un finto broncio mentre si sporgeva in avanti per incontrare lo sguardo della ragazza, che stava facendo di tutto per evitarlo.
Quando i loro sguardi si incontrarono, Marisol gli lanciò un occhiata critica. "No." Rispose lei, semplicemente.
Damien rise, brevemente e in modo secco.
Marisol tentò nuovamente di lasciare l'armeria e questa volta riuscì almeno ad arrivare alla soglia della porta prima di sentire una presa decisa bloccarle il polso. Poi si sentì tirare, e si ritrovò con la schiena poggiata allo stipite sinistro della porta, con Damien davanti che ancora le stringeva il polso.
"Sono venuto ad avvertirti, Marisol." Disse lui, ad un palmo dal suo volto. Il suo sguardo era penetrante come al solito, sembrava volerle dire qualcosa, ma questa volta la semidea non riuscì a capire cosa stessero cercando di comunicargli.
"Guardati le spalle, - parlò ancora Damien, lasciandole il polso e allontanandosi di un passo - di questi tempi non ci si può fidare di nessuno."
Le diede le spalle ed iniziò ad allontanarsi dalla struttura.
"E di te, invece, dovrei fidarmi?" Gli rispose Marisol, con un tono tagliente come al suo solito.
Damien non rispose, e la figlia di Afrodite sorrise a sé stessa, scuotendo la testa. Non l'aveva chiamata Sole.
AUTHOR'S NOTE
Ho tante cose da dire su questo capitolo.
Inizio con una precisazione, che ho già fatto su discord ma che rifaccio anche qui perché non tutti sono nel server (se ancora non ho aggiunto qualcuno ditemelo che le cose me le scordo
molto facilmente).
Questo e il prossimo capitolo sono molto di passaggio, mi servono ad introdurre bene i personaggi, cosa che non potevo fare mentre cercavano di uccidersi a vicenda durante la prima prova. E questo è il motivo per cui in questo capitolo non ci sono tutto i personaggi ma soltanto la metà. Se non avete trovato i vostri sappiate che ci saranno sicuramente nel prossimo capitolo, non li ho dimenticati.
Altra informazione di servizio, ho introdotto un nuovo personaggio che non avevo ancora nominato e che, se notate bene, non è neanche nel cast. Damien è un personaggio che in realtà ha inventato empireodierno e che ha introdotto lei nella scheda di Marisol che potete trovare sul suo profilo. È andata più o meno così: lei un giorno mi scrive e mi dice "senti als ho avuto questa idea da scrivere nella scheda del mio oc, riusciresti ad inserirla nell'af o ti complico solo la vita?" e la risposta è stata che mi avrebbe complicato la vita ma che avrei ovviamente accettato perché le cose semplici a me non piacciono. Quindi ho preso la sua idea, l'ho adatta alla trama che avevo in mente e mi sono creata un profilo di questo personaggio a cui ora diamo tutti il benvenuto. Ve lo lascio qui sotto.
DAMIEN CABRERA
23 , ( bill skarsgard )
Si, l'ho fatto coquette.
Comunque volevo dirvi che i vostri commenti mi fanno morire dalle risate vi prego non smettete mai sono troppo divertenti.
Vabbè, spero di riuscire ad aggiornare nel più breve tempo possibile perché la prossima settimana ho non uno ma due esami e non so davvero dove sbattere la testa. Mi inventerò qualcosa. Con questo è tutto <3
Fatemi sapere cosa pensate del primo capitolo e, se volete, anche le vostre aspettative su cosa accadrà nel prossimo. <3
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