CAPITOLO OTTO
Salve :D vi scrivo subito per chiedervi del disegno (fatto io) che ne pensate? So che non è il massimo ma... non avevo voglia di rifarlo :P Dite che vale come spoiler? ahahahah scrivete ORA cosa state pensando!
Scusate gli eventuali errori che modificherò volentieri sta sera se mi aiuterete a trovarli.
E spero che vi piaccia il capitolo perciò vi lascio... buona lettura a tutti :*
Capitolo otto
"Una cattiva azione non ci tormenta appena compiuta, ma a distanza di molto tempo, quando la si ricorda, perché il ricordo non si spegne."
Jean Jacques Rousseau
RICORDI DI UN INCUBO
«Basta, Cam, non ce la faccio più! Mi fanno male i piedi!»
Erano già alcuni minuti che Ria frignava come una bambina perché affermava di essere stanca. Erano quasi arrivati all'hotel, ancora qualche isolato e sarebbero giunti a destinazione, ma quel mulo testardo si ostinava a volersi fermare.
«Smettila di frignare come una bambina, Ria! Per l'amor del cielo hai diciotto anni, comportati d'adulta per una buona volta!» dichiarò per l'ennesima volta trascinandosi per una mano la ragazza.
Un istante dopo però, Ria si fece più pesante, costringendolo a voltarsi. Si era seduta sul marciapiede, tirando la sua mano per liberarsi dalla presa. Cam la lasciò andare e lei si sdraiò supina sul pavimento, chiudendo gli occhi e facendo un bel respiro.
«Vuoi davvero rimanere sdraiata lì per terra?» le domandò allacciando le mani dietro la nuca.
«Si» fu la risposta, mentre incrociava le braccia.
L'alcol le aveva proprio dato alla testa. Con un mezzo sorriso che gli incurvava le labbra, Cam estrasse il suo cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni e le fece una bella fotografia. Il flash le fece fare una smorfia davvero buffa, che somigliava in tutto e per tutto a quella che facevano i vampiri alla vista del sole. Cam ne aveva "interrogati" parecchi nell'arco della sua vita e gli erano sempre tornati molto utili, soprattutto negli ultimi quattro anni, quando era sulle tracce di Ria. Non erano certo come venivano ritratti nei film o nei libri di quest'epoca, o almeno non lo erano per Cam. Doveva ammettere che esteriormente apparivano come bellissimi uomini o donne, amanti eccezionali a quanto detto dagli umani, ma che dentro erano marci e deboli, facilmente manipolabili nelle giuste mani. Avevano il dono della compulsione, quei bastardi succhiasangue, molto utile per un investigatore abile come Cameron.
Era davvero strano associare Ria ad un vampiro, anche se non avevano niente in comune, o quasi, doveva ammettere che la ragazza, nei panni di un succhiasangue, avrebbe di certo fatto una vera e propria strage di cuori.
Lei mugugnò all'improvvisa luce accecante e si coprì il bel viso con le braccia. Qualcuno passò di lì e li osservò sconcertato per qualche attimo prima di tirare dritto per la sua strada.
«Ora basta scherzare, Ria, dobbiamo andare.»
«Non sto scherzando Cam, non riesco più a reggermi in piedi! Mi fa male tutto...» si lamentò lei.
Non potevano attendere oltre; se non riusciva a proseguire da sola, l'avrebbe fatto lui al posto suo. Le afferrò da sotto le ginocchia e dalle spalle e se la caricò in braccio, diretto al loro alloggio.
Passarono alcuni minuti in totale silenzio, così pacifico che Cam cominciò a pensare che la ragazza si fosse addormentata, ma poi parlò:
«È vero che sei immortale?» chiese in un sussurro.
Cam teneva lo sguardo davanti a sé, ma riusciva ad intravedere i due specchi lucenti degli occhi di Ria puntati sui suoi.
«Si» si limitò a dire.
Non gli piacevano le domande, soprattutto quando erano personali.
«Quanti anni hai?» continuò lei accarezzandogli il petto e salendo fino alla spalla.
Quell'improvviso contatto lo lasciò sconcertato: era così intimo, così naturale e sensuale, così sbagliato per lui. Ma non disse nulla, la lasciò fare, perché, anche se sapeva che non avrebbe dovuto, quel contatto gli piaceva e lui non era abbastanza buono da poterlo rifiutare.
«Ventuno.»
Smise di muovere la mano sulla spalla e si zittì per alcuni attimi.
«Quando sei nato, Cam?»
Stava iniziando a formulare le domande in modo differente, in modo da non lasciare niente di non detto o di sott'inteso. Era sveglia, anche da ubriaca, e questo lo fece sorridere.
«Il tre aprile» rispose lui, ben conscio di girare attorno a ciò le lei voleva realmente chiedergli.
«Di che anno, Cameron?» domandò sempre più impaziente.
«Sarebbe stato il tre aprile del 106... a.C.»
Ria trattenne il respiro, evidentemente stupita da quella rivelazione.
«Cam, tu hai... hai duemila e centoventuno anni!»
«Sei brava in matematica.» ridacchiò lui «Anche da ubriaca.»
Lei gli fece la linguaccia e gli diede un pizzicotto. Risero ancora per qualche attimo, poi lei gli toccò una ciocca di capelli.
«Perché è rossa? Tinta o naturale?» chiese girandosi la chiocca scarlatta tra le dita.
«Naturale, più o meno. È spuntata fuori quando sono diventato ifrit.» rispose, e si sorprese lui stesso di quanta sincerità stava mettendo in ogni singola parola.
Non le avrebbe più mentito, era una promessa che si era fatto tanto tempo fa, ma per questo non era necessariamente dovuto che specificasse sempre ogni dettaglio.
«un ifrit, un demone... e chi lo avrebbe mai detto? Con quel bel viso che ti ritrovi, sembri più un angelo che...» si interruppe a metà della frase per poi ordinare:
«Cam... mettimi giù. Subito.»
Lo aveva detto con un tono strano, con un tono che non prometteva nulla di buono. Il ragazzo la posò velocemente a terra, appena in tempo perché riuscisse a chinarsi e vomitare un'orribile sostanza appiccicosa. Cameron le tenne i capelli dietro la nuca, in modo che non se li sporcasse. Quando ebbe finito, le allungò un'estremità del maglione che indossava; non aveva altro con sé. Lei ci si pulì la bocca senza accorgersi di cosa stesse utilizzando, e quando lo fece, sgranò gli occhi mortificata.
«Oddio, Cam, mi dispiace, non mi ero accorta fosse...»
«Non importa» la interruppe lui «Ne troverò un'altra.»
Si accorse, poi, che effettivamente Ria barcollava parecchio e decise perciò di riprenderla in braccio. La ragazza sbadigliò, coprendosi la bocca con una mano e appoggiando la testa al suo petto, chiudendo gli occhi.
«Cos'eri prima di diventare un ifrit?» indagò la ragazza dopo qualche minuto di silenzio, riprendendo il discorso spiacevolmente interrotto.
«Siamo arrivati» disse lui senza rispondere.
Lei sbadigliò di nuovo, mentre entravano nel lussuoso hotel.
«Ora dormi, Ria» le sussurrò Cam.
«Riprenderemo il discorso» dichiarò, tra uno sbadiglio e l'altro, la giovane.
«Lo faremo... prima o poi.» mormorò lui entrando in ascensore.
«Sai è strano...» sussurrò prima di sbadigliare.
«Cosa?»
«Ho sempre avuto paura del contatto, o almeno la mia paura è peggiorata negli ultimi anni; ma con te è diverso. Non ho paura di essere toccata da te, e non ho paura di toccarti.» confessò Ria allacciando una sua mano inguantata al collo di lui.
«È solo perché sai che non puoi ferirmi.»
«Lo pensavo anch'io all'inizio, ma poi mi sono resa conto che probabilmente non avrei rischiato di ucciderti fidandomi della tua parola.»
«Eppure l'hai fatto»
«Già; per qualche strano motivo, con te mi sento al sicuro, sento di potermi fidare di te.» fece un altro sbadiglio.
«Ricorda che vai in giro con il lupo cattivo, non con il tenero agnellino.»
Stranamente la ragazza non ribatté. Probabilmente si era finalmente addormentata. Un altro sorriso gli incurvò le labbra; in così poco tempo Ria era riuscita a farlo sorridere più di quanto avrebbero potuto fare una coppietta che litiga o un incontro tra galli.
Entrati in stanza, furono immediatamente accolti dalla rozzezza del ragazzo elfo, che con il suo vociare svegliò Ria. Proprio ora che si era addormentata...
«Dov'eravate finiti? Sono riuscito ad anticipare il mio incontro per poter arrivare prima da Claudette, non perché voi due poteste giocare alla coppietta felice!»
«Claudette...» bisbigliò Ria muovendosi tra le braccia del ragazzo.
Cameron la portò in camera sua e la adagiò sul materasso, mentre l'altro ragazzo continuava imperterrito la sua paternale:
«Che le hai fatto? Perché Ria è ridotta in questo stato? Se solo hai osato farle del male io...»
«Tu cosa?» ribatté Cam, consapevole che il suo sguardo si era tinto di rosso.
Si voltò lentamente verso l'elfo, emettendo un ringhio che non aveva nulla di umano. Ria però lo bloccò trattenendolo da un lembo della maglia.
«Non fargli del male, Cam.»
Glielo chiese in un modo che lo fece sentire un vero mostro. Probabilmente con quegli occhi bestiali, non doveva sembrare la persona più affidabile del mondo.
«Non temere, ora gli uomini di casa faranno due chiacchere.»
«Torna presto»
Non aveva intenzione di allontanarsi per molto, gli avrebbe dato una bella lezione, così da far capire una volta per tutte qual era il posto dell'elfo in tutta questa storia.
«Ria, come stai? » domandò l'altro avvicinandosi alla ragazza.
Cam lo afferrò per il bavero della camicia blu notte che indossava e lo trascinò fuori dalla porta, ignorando le proteste del ragazzo, che si dimenava per liberarsi.
«Lasciami lurido demonio.» sbraitò.
Arrivati nell'altra sala, Cam lo scaraventò a terra, afferrandolo dal collo e avvicinando la sua faccia a quella dell'altro.
«Devi capire una cosa, elfo» incominciò, illuminandogli il viso con il suo sguardo di brace «qui l'unico di troppo sei tu. Non ho bisogno del tuo aiuto, non ho bisogno dell'aiuto di nessuno per ritrovare Claudette. Se sei ancora vivo e al nostro fianco è solo merito di Ria, fosse stato per me, ti avrei già fatto fuori per quello che hai combinato con le auto. Ma Ria ha deciso di perdonarti e io la rispetto, rispetto le sue decisioni e faccio come mi dice, ma la mia pazienza ha un limite. Perciò, vedi di non oltrepassarlo o il tuo viaggio finirà ancor prima di iniziare.» e detto ciò gli lasciò la gola, permettendogli finalmente di respirare.
L'elfo tossi per qualche istante, poi, con una mano che si massaggiava il collo, disse:
«Il mio incontro di questa notte è servito a qualcosa: so dov'è Claudette e ho rimediato una barca per arrivarci. Come vedi non sono del tutto inutile.»
Lo disse con un tono di sfida, come se volesse dimostrare la propria superiorità. Povero illuso, non si rendeva conto di quanto fossero prevedibili i suoi movimenti.
Cameron incrociò le braccia al petto e rispose con altrettanta arroganza con un sorriso malefico che mostrava alcune zanne.
«Bene, come previsto. Sei stato bravo elfo, anche la mia serata ha portato i suoi frutti.»
«Non chiamarmi elfo, ho un nome: Will. E a proposito della tua serata... dimmi che cosa hai fatto a Ria. Perché è conciata in quello stato?»
«Che tu ci voglia credere o no,» ammise Cam facendo spallucce «ha fatto tutto da sola. È solo una brutta ma semplice sbronza. Vedrai che domani starà meglio. Ora va a dormire, William, domani ci aspetta una giornata molto impegnativa» e nel pronunciare il nome dell'elfo ci mise tutto il disprezzo che provava nei suoi confronti. Quest'ultimo però fu abbastanza saggio da non sfidarlo un'altra volta e si rinchiuse nella sua stanza.
Cam fece un bel respiro e, sciogliendo la tensione accumulata, rientrò nella stanza di Ria, solo che non la trovò dove l'aveva lasciata. Il letto era vuoto, la luce del bagno spenta. Eppure era proprio da quella stanza che proveniva uno strano gorgoglio. Si avvicinò alla porta del bagno e accese la luce: Ria era aggrappata alla tazza del cesso e stava ancora vomitando. Quando lui accese l'interruttore, lei fece nuovamente quella buffa faccia da vampiro bruciacchiato.
«No, Cameron, va via. Sono uno schifo.» dichiarò appoggiando la schiena alla parete di fianco la tazza e coprendosi il viso con le mani. Non portava più i guanti e la camicia che le copriva ogni centimetro di pelle era appallottolata sul pavimento. Ora indossava solo una canottiera e i jeans. I capelli erano sciolti e le ricadevano morbidi sulle spalle. Sembrava una ragazza come tante, alla presa con la sua prima sbronza. Ma Ria non era come le altre, si ricordò; Ria era diversa, era speciale.
Fece qualche passo nella sua direzione, proprio mentre un altro conato di vomito le sconquassava il copro. Le tenne, di nuovo, i capelli dietro la nuca mentre rivedeva tutto quel ben di Dio di alcol che aveva ingurgitato. Quando ebbe finito, la ragazza schiacciò lo sciacquone e si riappoggiò alla parete. Cameron notò che si era sporcata il mento e si tolse perciò la maglietta già sporca per pulirla. Lei, come si era aspettato, sgranò gli occhi con un'espressione mista tra confusione e sorpresa.
«Che stai facendo?» domandò con tono sospettoso.
Cameron prese un lembo della maglia, uno lindo, e le ripulì il viso.
«Ti do una mano a pulirti, ubriacona.» disse in tono carezzevole.
Lei lo lasciò fare e quando ebbe finito ribatté con poca convinzione:
«Potevi usare un asciugamano, o la carta...»
«E negarti l'opportunità di vedermi nudo?» la punzecchiò alzandosi in piedi e porgendole una mano.
«Non sei nudo. E poi, non è niente che io non abbia già visto» ribatté con un mezzo sorriso, prima di perdersi in un rumoroso sbadiglio.
«Andiamo, è ora di andare a nanna principessina dalla sbronza facile.»
Lei accettò la mano che le porgeva e si sollevò, con qualche difficoltà, dal pavimento. Gesù, barcollava ancora! Doveva aver bevuto davvero troppo.
Continuò ad ondeggiare fino al letto, dove ci si buttò letteralmente sopra. Cameron rimase per una manciata di secondi ad osservarla; poi si voltò per andarsene. Ria però lo tratteneva da un passente dei pantaloni e lo costrinse a voltarsi: due splendidi occhi color del ghiaccio lo osservavano nascosti dalle palpebre calanti, il suo profumo era un invito allettante ad un banchetto proibito, la sua pelle lo implorava per un tocco.
«Rimani» gli sussurrò in un sospiro.
La ragazza si fece un po' più in la, così da lasciargli uno spazio nel grande letto a baldacchino. Come al solito, avrebbe dovuto rifiutare, girare i tacchi e andare via, probabilmente il più lontano possibile da lei, ma non lo fece. Al contrario si avvinò e scostò le coperte, infilandosi sotto il soffice tessuto, estremamente vicini l'uno all'altra.
Ria non si mosse, non si avvicinò ulteriormente a lui, non lo sfiorò, si limitò ad osservarlo per diversi attimi che parvero un'eternità, con occhi stanchi ma indagatori e curiosi.
«Buona notte Cameron» sussurrò infine lei, avvicinando la testa al petto di lui.
Non lo toccò, non lo sfiorò nemmeno, ma il solo fatto che fossero insieme, molto vicini, gli riportò un senso di pace che non sentiva ormai da un'eternità.
«Buona notte Ria» le sussurrò dandole un bacio sulla fronte.
Non le ci volle molto per cadere in un sonno profondo e lui ne approfittò per giocherellare con i boccoli rossi della ragazza. Era così bella e serena da addormentata. Lo aveva definito un angelo, ma non si rendeva conto che il vero angelo era lei; un angelo stupendamente dannato.
'Mamma!'
Una giovane donna era distesa a terra ai piedi di una lunga rampa di scale.
'Sono stata io a farle questo.'
Ria scese lo scalone saltando i gradini due per volta, inginocchiandosi di fianco la madre, mentre uno strano dolore le proveniva dal petto.
«Mamma! Mamma rispondimi!»
La donna aveva perso conoscenza e Ria allungò le mani per toccarla, ma si bloccò prima; non aveva idea di cosa avrebbe dovuto fare, si sentiva inutile. Poi le palpebre pesanti della femmina si aprirono leggermente.
«Mamma! Oddio, mamma, io non... dimmi cosa posso fare per aiutarti!»
La donna le fece un sorriso mesto per poi sussurrare con voce graffiante:
«Dammi la mano, Ria. È giunto il momento di salutarci.»
La ragazza stava per fare come le era stato detto, ma, nel sentire quelle ultime parole, rimase sotto shock.
«Non dire così, c'è ancora tempo, andrà tutto bene! Papà! Papà aiutami!» iniziò ad urlare tra le lacrime che le inondavano il viso e i singhiozzi che le sformavano la voce.
«No, pulcino, va bene così, non servirei a molto in questo stato; e poi è solo un arrivederci questo, non temere.»
E detto ciò la donna afferrò con le ultime forze rimaste la mano di Ria. Una strana sensazione attraversò ogni vena del suo corpo, donandole una forza maggiore; una forza che non aveva il diritto di provare in ginocchiata accanto a sua madre; una forza che parve proprio provenire da quest'ultima. Ria non poté fare a meno di osservare sconvolta il viso della madre che assumeva uno strano colorito grigiastro ed i suoi occhi diventare vitrei ed inespressivi.
Ma Ria ormai non piangeva più, i singhiozzi erano cessati; rimanevano solo alcune lacrime a rigarle il viso e un dolore penetrante che le proveniva dal petto. Le sue dita erano strette, sigillate attorno a quelle della madre anche quando arrivò suo padre e la fece allontanare.
I rumori attorno a lei erano diventati incomprensibili, non riusciva a fare altro che fissare inorridita le proprie mani tremanti, mentre tutto attorno a lei scorreva a rallentatore. In quegli istanti rimase chiusa in quella bolla incapace di venirne fuori, finché non udì un rumore stridulo che le trapanò i timpani e la costrinse a guardare davanti a sé: una bambina, avrà avuto sui tre-quattro anni circa, stava aggiungendo una tacca ad un elenco su di una lavagna. Ria non aveva idea del perché quella bimba fosse in casa sua, né di come avesse fatto a comparire così dal nulla. Poi analizzò meglio il nome in cima alla lavagna: MACARIA. Le si mozzò il fiato, facendole spalancare gli occhi e indietreggiare. C'erano diverse tacche sotto il suo nome, ora una in più grazie alla piccola. Osservandola meglio Ria si rese conto che quella bambina aveva qualcosa di familiare, ma essendo di spalle non sapeva dire con certezza se la conoscesse o meno. Poi si voltò. Il viso era totalmente oscurato dall'ombra in cui era immersa, un solo particolare era visibile e la sconvolse ancora di più: i suoi occhi. La bimba aveva gli stessi identici occhi color del sangue del demone che la perseguitava nei suoi incubi. Ria riusciva a malapena a respirare, tanto era lo shock che provava, ma quanto la piccola parlò, le sembrò che la sua voce le stesse entrando dentro l'anima.
«E siamo a dodici. Quante altre vite dovrai prendere prima di ritornare a casa?»
Dei brividi le percorsero tutto il corpo, lasciandola inebetita per qualche istante, poi riuscì a muovere una mano per portarsela al petto, alla ricerca del suo adorato anello, ma non lo trovò.
«Cercavi questo?» domandò una voce che aveva imparato a conoscere.
Si voltò verso destra e trovò due splendidi occhi azzurri che le sorridevano.
Spalancò gli occhi, cercando di far arrivare la maggior quantità possibile d'aria ai polmoni, continuando ad osservare quelle pozze azzurre.
Non poteva essere vero, era un sogno, era tutto un sogno; ma allora perché li aveva ancora di fronte?
Incominciò a scalciare e ad agitare le mani, così da potersi allontanare il più in fretta possibile da quell'incubo, ma dopo poco cadde a terra, facendosi un gran male al fondoschiena e tornando immediatamente lucida. Osservandosi attorno si accorse che erano nella stanza del lussuoso hotel ad Atlantic City, non a casa sua. Si portò una mano al petto e, con estremo sollievo, vi trovò appeso l'anello che tanto le era mancato in quel sogno. Un sogno, era solo uno stupido sogno, cercò di ricordare a sé stessa.
Dopo essersi data una calmata e aver regolato il respiro, Ria si voltò dal lato dove era caduta, speranzosa di non trovarci il ragazzo che credeva di aver visto. Al contrario, trovò Cameron che la osservava con la testa alzata, sorretta dalla mano, come se ce ne fosse bisogno, ed un sopracciglio alzato.
«Di solito, alle donne che possono vantarsi di aver passato un'intera notte con me non dispiace trovarmi mezzo nudo al suo fianco.»
«Ma che diavolo ci fai tu qui?»
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