17. Il frutto della mia pazzia

Maya

Ti prego, non qui.

Ti prego, non qui.

Ti prego, non qui.

Era questa la frase che mi ripetevo più e più volte nella mia testa, mentre la mensa si riempiva di studenti affamati e stanchi delle ore precedenti. La tachicardia era aumentata a dismisura, il sudore rendeva le mie mani scivolose e la bocca era incredibilmente asciutta.

Ti prego, non qui.

Magari questo è l'inizio di un infarto.

No, è solo attacco di panico, lasciami stare.

Alzai lo sguardo, osservando la gente intorno a me che via vai si faceva sempre più stretta. Non riuscivo a vedere bene, la mia vista era occupata da dei puntini neri che non mi permettevano di connettermi con il mondo. Stavo tremando, il mio viso era in fiamme e la mia gola maledettamente secca.

Perché non hai portato le gocce?

Non ne ho bisogno.

Ne sei sicura?

Sì, smettila di importunarmi.

Un dolore al braccio sinistro mi costrinse a fare una smorfia, lo stesso che poi si assopì con un leggero formicolio nello stesso punto. Avevo i muscoli addormentati, lo sguardo vuoto e il corpo terribilmente sudato.

Posso farcela.

Non che non puoi.

Devi credere in me.

Sei tu che non credi in te stessa.

Un senso di nausea mi pervase, le orecchie emisero uno stridio pazzesco, come un treno che fischiava vicino al mio condotto uditivo. Masticai a vuoto, nella speranza che questo potesse ridare saliva alla mia bocca ormai secca.

Acqua, avevo bisogno di acqua. La stessa che non riuscivo a prendere a causa dei movimenti sconnessi, del tremolio incessabile. Il cuore correva ancora e ancora, una corsa pazza e inarrestabile, il mio petto era in fiamme e la mia testa pulsava così forte che le voci intorno a me diventarono ben presto dei mormorii sommessi.

Hai bisogno delle gocce.

Forse sì.

Devi prenderle.

Devo.

Ma non li hai, torna a casa e prendile, fingiti malata, fa qualcosa. Stai morendo.

Non sto morendo, è nella mia testa.

Da lontano scorsi la figura di Jamie avvicinarsi, la testa non smetteva di girare, pulsare, dare un fastidio immenso al mio organismo ormai provato dagli attacchi di panico improvvisi. Perché dovevano venirmi proprio nei momenti meno opportuni? Proprio quando la calca di gente era così tanta da comprimermi la cassa toracica? Stavo bene, no? Allora perché la mia mente giocava brutti scherzi?

Tu non stai bene. Altrimenti non avresti un attacco. Ti ricordi quando ieri, ti sei svegliata nel bel mezzo della notte e non riuscivi nemmeno a parlare? È un comportamento tipico di una persona che sta bene?

Va tutto bene.

Stai morendo.

Non sto morendo.

Cercai di regolarizzare il respiro, mentre il corpo continuava nella sua corsa matta e mi mandava in tilt il petto, il cervello, l'anima. Mi sentivo destabilizzata, non riuscivo a muovere il corpo, le voci intorno a me andavano a scemarsi.

Prendi le gocce.

Non mi servono.

Non mi servono.

Non mi servono.

Ripetevo a me stessa, mentre il mio io interiore, quello bastardo, continuava a ripetermi che senza non ce l'avrei fatta.

Jamie si sedette di fronte a me, rubandomi una patatina, senza ovviamente ricevere alcuna reazione da parte mia. Aggrottò la fronte, mangiucchiando in tutta tranquillità, per poi sbuffare.

«Ciao, eh!» esclamò, ruotando gli occhi.

«A-acqua.» replicai, cercando di alzare il braccio verso la bottiglietta, senza alcun successo.

Spalancò gli occhi, alzandosi di scatto e girando verso il mio lato, prendendomi il viso tremendamente sudato tra le mani. «Stai bene?» chiese allarmato.

«Acqua.» ripetei, muovendo la mascella come se cercassi di inumidire la bocca o semplicemente darmi dell'aria.

Archie si alzò di scatto, notando subito che qualcosa non andava. Non spostai nemmeno il capo, mi limitai a girare gli occhi verso di lui, che respirava a fondo. «Ehi, è tutto nella tua testa, okay? È nella tua testa.» disse, prendendomi il viso tra le mani e scansando categoricamente Jamie.

Annuii impercettibilmente. «Nella mia testa.» sussurrai.

Mi schiaffeggiò il viso, soffiandomi sul viso. «Ehi, ascoltami: non dare retta a quella Maya, dai retta a quella di tutti i giorni, quella forte. Ce la fai, chiaro? È. Nella. Tua. Testa.» disse accarezzandomi il viso.

Chiusi gli occhi, prendendo dei profondi respiri, mordendo il labbro. «Forse dovrei...» sussurrai.

«No. Non devi. Dimenticale. Ricordi cosa ti ha detto il signor Walkie? Puoi farcela da sola. Non ti servono.» sussurrò, stringendomi le guance.

Mi piegai in due, emettendo un conato di vomito. Non dovevo farlo lì, non davanti a Jamie. Sarebbe stata la cosa più imbarazzante della mia vita. Alzai gli occhi verso il mio migliore amico, che cercava in qualche modo di farmi riprendere.

«Archie, bagno. Portami in bagno. Ti prego.» mormorai, tendendo con fatica il braccio verso il suo, che non tardò ad afferrare.

Ci dirigemmo in bagno, andai in uno vuoto senza guardare se fosse femminile o maschile, mi inginocchiai sul pavimento e portai la testa verso il water, gettando tutto con l'aiuto di Archie che mi teneva i capelli.

Andava tutto bene. La tachicardia era passata di colpo.

Presi un profondo respiro e andai verso il lavandino, sciacquandomi il viso con acqua gelata.

«Sto bene.» annunciai, sentendo Archie che tirava un sospiro di sollievo.

«Credevo fossero passati, Maya.» sussurrò, accarezzandomi la spalla.

Scossi la testa, fissando i miei occhi incredibilmente lucidi allo specchio. «Non passeranno mai.» ammisi, a bassa voce.

Sospirò, annuendo. «Forse dovresti...»

«No, non voglio tornare a fare quella stupida terapia. Non è servito a niente, come hai potuto vedere tu stesso. Sono soldi sprecati. È il mio cervello che non va, è lui il bastardo. Non posso sconfiggerlo, fa parte di me.» dissi seria, continuando a fissare il mio volto stanco allo specchio.

«Sì, ma quando vedevi il dottor Walkie riuscivi a gestirli meglio, riuscivi a farteli passare più facilmente.» sussurrò dispiaciuto.

Chiusi gli occhi, facendo un profondo respiro. «Non mi serve a niente riuscire a gestirli. Devo liberarmene, non mi serve farmeli passare subito, perché torneranno sempre lo stesso.» risposi, passandomi una mano sul viso.

Sorrise. «Ce la farai, giusto?» mi disse con dolcezza.

Scossi la testa. «Non lo so più, Archie.» ammisi, tornando alla mensa.

Quel pomeriggio, pur di frenare la mia mente che viaggiava tra una moltitudine di pensieri negativi, decisi di mettermi sotto con lo studio. Distarmi con gli appunti di fisica mi serviva a tenere a bada i miei pensieri, a frenarli per un momento. Non avevo raccontato a mia madre dell'attacco che mi era venuto a scuola, altrimenti lei avrebbe subito chiamato il dottor Walkie, e ciò significava ricominciare il mio ciclo di terapie.

Mi stiracchiai sul materasso, aprendo di poco la finestra per permettere all'aria settembrina di accarezzarmi il corpo seminudo. Scrivevo freneticamente sul foglio, senza arrestarmi un attimo. Avevo spento anche il telefono, in modo da isolarmi completamente dal mondo esterno e dedicarmi solo ed esclusivamente allo studio. Mi voltai leggermente verso la porta, che venne aperta da mio fratello Jace con cautela, per poi essere richiusa alle sue spalle.

«Ehi, studi da quando sei rientrata da scuola. Perché non ti prendi una piccola pausa?» mi chiese con dolcezza, sedendosi sul letto.

Mi passai una mano sul viso, facendo una leggera smorfia e sospirando. «Hai un'idea migliore dello studio? Perché se così fosse, okay. Mi fermo un po'.» replicai sbadigliando leggermente.

Sorrise, prendendomi la mano. «Potremmo andare al Vanilla, prendiamo qualcosa io e te e poi torniamo a casa prima di cena. Che ne dici?» mi domandò, sorridendo ancora.

Annuii leggermente, indossando la prima cosa che avevo acchiappato dall'armadio e legando i capelli in una coda. Il Vanilla era una distrazione e io ne avevo assolutamente bisogno.

Il locale era semivuoto, il che ci permise di scegliere un posto con molta facilità. Alla nostra destra, una famiglia molto numerosa stava chiacchierando allegramente, scambiandosi dei gesti affettuosi e pieni d'amore. Spostai il capo verso mio fratello, che stava mangiucchiando le sue patatine e guardava con attenzione verso la porta, che venne varcata in quel preciso istante da Jamie, sua nonna, la madre e la piccola Becky. L'unica cosa che speravo con tutto il cuore era che lui non mi avesse chiesto come mi sentivo dopo quell'episodio spiacevole in mensa. Non avevo voglia di raccontare a Jace cosa mi era successo.

«Adoro quando il Vanilla è così tranquillo.» disse mio fratello, appoggiando i gomiti sul tavolo.

Annuii, sorridendo appena. «Sì, è vero. Puoi consumare la tua roba senza alcuna interruzione e magari passare anche del tempo piacevole con la tua compagnia.» sussurrai, guardando per un attimo Jamie, che non mi toglieva gli occhi di dosso. Gli sorrisi, schiarendomi la voce.

«Jamie Reyes, eh? Non fa che guardarti da quando è arrivato. Mi sa che gli garbi parecchio.» Jace ridacchiò.

Feci spallucce, grattandomi la spalla. «Ci vogliamo molto bene, credo. O forse no. Magari sono innamorata ma non lo so ancora, a volte mi chiedo come fa la gente a capirlo.» borbottai.

Jace sorrise. «Beh, non lo capisci, credo. Lo sai e basta. Tipo quando sai che qualcosa è in quel modo senza bisogno di avere delle prove.» borbottò.

Aggrottai la fronte. «Ma come fai ad accertarti che sia così senza avere delle prove fondate su dei principi ben precisi?» chiesi confusa.

«Perché il cuore non è razionale.» spiegò mio fratello con dolcezza.

«A volte neanche la mente lo è.» replicai, bevendo un sorso di Coca Cola super ghiacciata.

«Dovresti chiederti cosa provi davvero per lui, cosa saresti disposta a fare per un suo bacio.» sussurrò, voltandosi verso Jamie e alzando la mano a mo' di saluto.

«E se avessi paura di saperlo?» chiesi seria.

«La paura è per deboli. Tu sei debole, Maya?» mi chiese con la stessa espressione.

«No, io non sono debole.» risposi scuotendo la testa.

La notte era sempre stata la mia nemica numero uno, quando soffrivo gli attacchi frequentemente. Il mio dottore diceva che era logico, perché quello che mi succedeva provocava anche una forte insonnia che solo con il tempo avrei potuto tenere a bada.

Io e il sonno non siamo mai andati d'accordo. Mi ricordo che non dormivo quanto avrei dovuto e questo mi rendeva il giorno seguente una vera fatica. Nonostante i miei problemi, però, il mio cervello non aveva mai smesso di viaggiare, elaborare, capire. Questo mi aiutava ad avere degli ottimi voti a scuola, facendo in modo che la mia media risultasse invariata nel tempo. Presi il telefono, andando nella chat di Jamie e storcendo il labbro. Avrei dovuto scrivergli? Forse. Molto spesso un messaggio può sembrare banale, ma in realtà è molto importante. È tipo un: "Ehi ti sto pensando, e tu?" e il pensiero attesta che tu tieni a quella persona e tenere a qualcuno a volte può far male.

Mi accorsi del "sta scrivendo" e uscii di colpo dalla chat, bloccando il telefono. Farmi vedere lì sarebbe stato come un "ti stavo pensando ma senza dirtelo", il che mi avrebbe mostrato come debole, o innamorata.

"Ehi, stai bene?" mi scrisse.

"Ehi, ciao! Sì, grazie. Tu?"

"Stavo pensando a oggi, quando ti sei sentita male. Volevo parlare con tuo fratello quando vi ho visti al Vanilla, ma mi sembrava una cattiva idea."

"Lo era, infatti"

"Posso chiamarti?"

"Sì, certo."

Presi il telefono non appena squillò, sorridendo. «Ehi, ciao di nuovo.» sussurrai.

«Ciao di nuovo.» rispose lui.

«Cosa stai facendo?» chiesi, mettendomi a pancia sotto.

«Sto finendo la mia partita a Fortnite, poi penso di rimanere un altro po' al telefono.» spiegò.

«Non hai sonno?» dissi a bassa voce, appoggiando la testa sul cuscino.

«Temo di no. Tu?» chiese, tirando probabilmente una boccata di fumo.

«Voglio vederti. È un reato volerti vedere alle dodici e mezza di notte?» chiesi.

«Beh, se è un reato saremmo entrambi criminali.» sussurrò.

«Dove?» domandai di scatto, alzandomi.

«Ti passo a prendere tra cinque minuti.» rispose.

«Ti aspetto.» staccai la chiamata, vestendomi velocemente. Scesi le scale in silenzio, notando Amy dormire beatamente sul divano. La presi in braccio e la portai in camera sua, per poi bussare in quella di Jace. «Ehi, sei ancora sveglio?» chiesi, rimanendo appoggiata allo stipite.

«Sì, perché tu lo sei?» chiese, osservandomi dal letto, alzando il lenzuolo sull'addome nudo.

«Vado con Jamie. Puoi coprirmi?» domandai speranzosa.

«Certo. Sei coperta al cento per cento, fai attenzione.» mi fece l'occhiolino.

Sorrisi e gli mandai un bacio, scendendo di nuovo di sotto e uscendo in giardino, notando che Jamie era già lì che mi stava aspettando. Sorrisi e mi diressi nella sua auto, salendo. Aprii il finestrino e accesi una sigaretta, gettando fuori il fumo. Lui mi guardò, allungando una mano verso il mio viso e sorridendo appena.

«Sei più bella del solito, stasera.» sussurrò dolcemente.

«Oh, ehm... grazie.» borbottai, voltandomi verso il finestrino, godendomi la musica rilassante che risuonava alla radio.

Red Hills era deserta, l'auto sulla quale viaggiamo era l'unica a sfrecciare per le strade, sotto le luci soffuse della città. Probabilmente, quella notte, non avevamo una destinazione precisa, probabilmente avremmo girato per ore intere su quella macchina che ci avrebbe tenuti a debita distanza l'uno dall'altra. Ma i cuori, quelli non sarebbero stati lontano a lungo. Non potevano. Mi voltai verso di lui, allungando la mano verso la sua, che era posata sul cambio. La sfiorai, sospirando appena, sentendo il mio cuore ricominciare la sua corsa pazza. Stavolta non era un grido di aiuto, stavolta mi stava dicendo che stava spaventosamente bene con quel contatto. Jamie mi rivolse un'occhiata veloce, per poi sorridere appena.

«Dove vuoi andare?» mi chiese.

«Non lo so.» risposi, alzando la musica per via della canzone. Appoggiai la testa al sedile e chiusi gli occhi, ascoltando Young and Beautiful, di Lana del Rey. Jamie canticchiò, ondeggiando la testa, passando per la via principale della cittadina. Rivolsi il mio sguardo verso il cinema, dove Brad stava chiudendo a chiave la porta, per poi spegnere l'insegna luminosa che illuminava parte della strada. Alzai la mano verso l'uomo, agitandola. Alzò il capo e mi fece un sorriso enorme ma stanco. Erano tutti un po' stanchi, in quella città. Facevano tanto per vivere, ma non facevano quello che avrebbero dovuto fare sul serio: prendersi del tempo per loro stessi. Il lavoro era diventato parte importante delle loro vite. La canzone era cambiata: in quel momento Elvis Presley ci stava regalando delle emozioni inspiegabili e noi ancora viaggiamo senza una meta effettiva. C'era silenzio, avevamo fumato già due sigarette ciascuno e ci stavamo godendo quel vento piacevole che accarezzava piano piano le nostra braccia e il nostro viso. Rivolsi uno sguardo alla luna, piena e luminosa come non mai. Tirai fuori la macchina fotografica della mia borsa, puntando l'obbiettivo nello specchietto laterale, scattando una foto alla luna attraverso il suo riflesso. Spostai il mio corpo verso Jamie, sistemando la fotocamera verso il suo viso, zoomando e premendo il bottoncino per scattare il suo bellissimo profilo. Lui ridacchiò, voltandosi, così ne approfittai per scattarne un'altra.

«Ti stai divertendo a scattarmi foto?» disse alzando un sopracciglio, per poi scoppiare a ridere. Momento catturato, ero riuscita ad immortale la sua risata.

«Sei un bellissimo soggetto. Te ne scatterei tante.» ammisi, abbassando la macchina fotografica.

«Potremmo fermarci in collina, lì potresti fare tutte le foto che vuoi.» propose.

«Farti tutte le foto che voglio.» lo corressi, sorridendo.

La collina era il posto più bello di Red Hills, ed era un peccato che pochi lo conoscessero. C'era un lungo muretto che mostrava tutta la cittadina addormentata. Era un posto fantastico per rifugiarsi da una brutta giornata o semplicemente per ritrovare un po' sé stessi. Jamie si mise sul muretto, accendendo una sigaretta e osservando le luci lontane che sembravano tante piccole stelle. Presi la fotocamera, scattandogli un'altra foto. Lui si voltò, con la sigaretta stretta tra le labbra, mentre io lo fotografai di nuovo. «Mi sento un vip.» disse ridendo, allungando una mano verso di me.

Posai l'aggeggio dentro la borsa, afferrandola. «Può essere che lo sei, sì. Potresti diventarlo. Un musicista, magari.» risposi, saltando sul muretto e sedendomi al suo fianco. Lui prese la macchina fotografica dalla mia borsa, portandola sull'occhio sinistro.

«Guardami.» ordinò dolcemente, così mi voltai di scatto, strizzando gli occhi per via del flash. Lui rise, scattando una foto al panorama.

«Tutte queste foto saranno dei ricordi.» ammisi, avvicinandomi a lui e appoggiando la testa sulla sua spalla.

«Ricordi che ci faranno sorridere.» sussurrò.

«O piangere, dipende dal punto di vista.» dissi pensierosa, accendendo una sigaretta.

Lui storse il labbro, sospirando. «Che ti è successo oggi, Maya? Perché ti sei sentita male di colpo?» sussurrò, prendendo la mia mano e giocando con le mie dita.

Scossi la testa. «Non era un vero e proprio male fisico. A volte vorrei che lo fosse, così da trovare una cura vera e propria. A volte vorrei credere che quello che mi succede non sia qualcosa che parta da me, un frutto della mia pazzia.» ammisi, abbassando lo sguardo.

Lui mi guardò perplesso, continuando a giocare con le mie dita. «È qualcosa di mentale?» chiese.

«Più o meno, sì. È come se il mio cervello mi stesse dicendo che qualcosa in me non va, che le mie emozioni dovrei gridarle più spesso, fino a farmi bruciare la gola. Mi chiede aiuto, ogni tanto. Ma io non so ascoltarlo, non so capirlo.» sussurrai, facendo un profondo respiro. «Sono lì, tranquilla, che penso che la mia vita non possa andare meglio di come sta andando, e lui torna. Lui mi dice che forse dovrei guardare meglio dentro me stessa, modificare qualcosa, prendermi cura della mia persona. Forse a volte non lo faccio abbastanza, e lui mi manda dei segnali. Io non lo ascolto, perché ho paura, ma lui continua fino a farsi dare retta.» aggiunsi a bassa voce.

«Sono attacchi di panico, i tuoi?» mi chiese serio.

«Credo di sì. A volte non lo so nemmeno, a volte non voglio saperlo. Ma poi succede che il cuore comincia a battere forte, la vista si annebbia, l'udito va male e io sento di morire giorno dopo giorno. E so che non è nulla, che io sono più forte di loro e che posso combatterli. Ma loro arrivano quando meno me lo aspetto e mi trovo impreparata.» spiegai, alzando per un attimo lo sguardo verso i suoi occhi, seriamente preoccupati.

«C'è un qualcosa per fare in modo che la smettano? Gli attacchi, dico, o qualsiasi cosa essi siano.» borbottò.

«Le gocce, Jamie. Sarebbero tipo dei calmanti, ma non posso prenderli. Creano dipendenza e io non voglio essere dipendente da qualcosa che può passare da sola. Voglio dire di avercela fatta da sola.» feci un profondo respiro.

«Il male dev'essere estirpato dalla radice, per passare del tutto.» disse accarezzandomi il viso.

Annuii, sospirando. «Trovare le mie radici è impossibile. Sono sotterrate da un dolore non espresso, da grida silenziose. Ci vuole tempo.»

«Lo faremo insieme. Lo troveremo e faremo vedere a quei fottuti demoni che noi siamo più potenti di loro.» disse sorridendo appena.

Ricambiai il sorriso, senza rispondere. Quella notte, mentre tutta la città dormiva, la gente sognava nei loro letti, sperando in un domani migliore. Io e Jamie quel domani tanto lontano lo stavamo sognando da svegli. Era come se i nostri cuori, in un modo o nell'altro, sperassero che quel tanto temuto futuro fosse vissuto insieme, nel bene e nel male. E io non lo sapevo allora, neanche Jamie poteva saperlo, ma di male ne avremmo affrontato tanto. E per quanto la cosa potesse essere paurosa o impossibile da superare, ci sarebbe stato sempre un briciolo di bene che ci avrebbe tenuto ancora in piedi, ancora insieme. A sedici anni non potevi sapere che quando le anime decidevano di unirsi, lo facevano sul serio. A sedici anni combattevi per qualcosa che speravi durasse nel tempo, e anche quando le cose fossero sembrate impossibili, saresti riuscito comunque a farcela. Perché a sedici anni possedevi due cose che nessuno degli adulti poteva mai avere: la speranza e la forza. E quando eri possessore di queste due piccole cose insignificanti agli occhi di chi aveva già passato l'adolescenza da un pezzo, potevi considerarti la persona più forte del pianeta. Ed io e Jamie lo eravamo, in quel periodo. Solo che non eravamo consapevoli che quella speranza e quella forza, riuscivamo a tirarla fuori solo insieme. Nonostante tutto.

E per quel "nonostante tutto", avremmo lottato davvero tanto. Fino a perdere le forza e la voglia di farlo ancora. Ma esisteva sempre, in ogni singolo male, una sola piccola luce che ti avrebbe salvato da esso. E io l'avevo trovata in Jamie e lui... beh, lui l'aveva trovata in me.

-Spazio Autrice

Pare che Maya stia cominciando piano piano ad aprirsi. Chissà come andrà a finire, chissà se questi momenti passati a parlare di tutto, o di niente, riusciranno a rimanere per sempre nel cuore dei nostri protagonisti. Voi cosa ne pensate? Ci leggiamo marterdì❤️

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