Sepolto
La vita caotica di un tranquillo commesso di un negozio di souvenir
Da I Testi delle Piramidi:
Khonshu che uccise i signori, che li strangola per il Faraone e che per lui estrae ciò che si trova nei loro corpi.
Steven analizza con attenzione ogni parola, esaminando le particolari caratteristiche della divinità egizia legata alla luna e alla vendetta, all'interno dell'Enneade.
Grant è quel tipo di persona che ti sorprenderebbe, se gliene dessi la possibilità. Inforca gli occhiali da lettura dalla spessa montatura scura e, da topo di biblioteca qual è, si immerge nello studio sulla mitologia egizia che da sempre lo irretisce con la sua aura fitta di mistero.
Chi scommetterebbe sull'invisibile commesso del negozio di souvenir del quale i colleghi non ricordano il nome? Non abbastanza invisibile per Donna Kraft, comunque. L'amabile responsabile si diverte a vessarlo in ogni maniera possibile.
Tuttavia Steven Grant possiede una notevole conoscenza sull'Egitto e i suoi arcani, anche se non può mai mettere a frutto la sua erudizione, nemmeno occasionalmente con i visitatori del museo cui, a volte, fornisce delucidazioni. Gli aspri rimproveri della sua superiore e l'assegnazione dei compiti più ingrati sono il risultato della sua "intraprendenza"
La donna-uomo, la schiavista, lo tiene sotto tiro costantemente e, nonappena Steven azzarda una conversazione con chicchessia, lei lo disintegra con occhiate malevole e lo punisce con straordinari rigorosamente non retribuiti, costringendolo a estenuanti turni serali passati a scorticarsi le mani inventariando riproduzioni di antichi manufatti tirati fuori, di continuo, da cartoni impolverati fino a fendere il dorso delle mani di miriadi di micro tagli da carta. Fino a che le dita gli fanno male.
E Steven, da qualche tempo, non si sente più al sicuro a restare relegato in solitudine fino all'ora di chiusura, all'interno del magazzino del museo. Allo spegnersi del timer che regola l'illuminazione, gli sembra che le statue si animino. Mentre guadagna l'uscita affretta il passo nervosamente, sotto il peso traballante della tracolla da lavoro mentre scorge sul pavimento di emperador lucente le ombre delle sculture inseguirlo. Strizza le palpebre, scuote il capo, Steven. È solo stanchezza; gli occhi sono affaticati dal troppo tempo trascorso a scansionare i codici di centinaia di prodotti catalogati nell'ultima settimana, per un minimo di un'ora e mezza al giorno se non due.
Percorre di gran carriera gli ultimi metri per guadagnare l'uscita, attraversa i corridoi mentre le luci interne si spengono mano a mano al suo passaggio, secondo l'orario tarato dal timer. Guarda dritto dinnanzi a sé. Con la coda dell'occhio scorge l'uomo nello specchio. Il suo riflesso è un richiamo dalle vetrine delle teche. Una presenza assidua che lo reclama, vuole parlare con lui, ma Steven lo ignora. Ha fame e consumerà la sua cena frugale, un sandwich, con l'amico artista di strada che siede presso la fontana all'esterno del museo. Bertrand Crawley se ne sta immobile nell'umidità penetrante della sera e degli schizzi provenienti dall'acqua. Una statua d'oro con un braccio proteso in avanti, la mano a ricercare la benevolenza dei passanti frettolosi e distratti dai propri smartphone, che fissano ipnotizzati, maggiormente interessati a uno schermo che al bisognoso accanto a loro. I più generosi depositano qualche penny nella sua bombetta capovolta e posata in terra, dopo l'immancabile foto di rito.
Quando torna a casa, Steven chiama il centro di cura per i disturbi del sonno che gli suggerisce attività di concentrazione che possano favorire di restare sveglio, perché il commesso riferisce di non riposare abbastanza da molto, di svegliarsi esausto come se il suo corpo lo trasportasse altrove, durante la notte. Quando la stanchezza lo vince, gli capita rimanga assopito per talmente tanti giorni che arrivi a mancare appuntamenti importanti. Così egli mette in atto una serie di indicazioni su come restare vigile per capire cosa gli accade di notte.
Sarebbe davvero voluto uscire con la collega che lo aveva invitato per un appuntamento, il venerdì sera precedente. Per lei era determinato ad andare in una bisteccheria, anche essendo vegetariano, pur di far colpo sulla bellissima ragazza dai ricci scuri: una Venere di bronzo, dolce e amichevole con lui. L'unica che lo apprezza da quando lavora nel negozio di souvenir. E ora quell'unica possibilità è alle spalle. Svanita. Ha mancato l'occasione. Si è addormentato per tutto il fine settimana. Svegliatosi la domenica, credendo fosse venerdì sera, si è presentato al luogo stabilito. Da perfetto gentleman ha acquistato fiori e cioccolatini per la graziosa fanciulla ma nessuno si è presentato al tavolo dove ha aspettato invano. L'ha chiamata e lei gli ha ricordato di averle tirato un bidone, riattaccando all'altro capo. Steven ha chiesto al commis di sala che giorno fosse.
«È domenica, signore». Il cameriere ha fugato ogni dubbio. Lacrime amare e brucianti lambiscono le ciglia che incorniciano uno sguardo vacuo.
Le rughe si sono fatte feroci attorno agli occhi del commesso, in una smorfia dal sapore di fiele, di un'esistenza condannata alla solitudine.
Racconta a Crawley, Steven, mentre mangia il suo panino; la serata con la collega è andata bene: ha smontato la cavigliera fissata al letto camuffando i segni delle viti nel legno cosicché lei non si facesse strane idee, quando lui l'ha invitata a salire. Hanno ballato e Steven ha sistemato uno dei fiori lilla brillante tra i lunghi ricci scuri della la ragazza. Lei ha scartato i cioccolatini, nella graziosa scatola a forma di cuore che lui le ha regalato, e ne hanno gustato qualcuno, tra una risata e una chiacchiera rilassata, vicini. Molto vicini l'uno all'altra, seduti sul letto nel piccolo monolocale del commesso osservando Gus, il grazioso coinquilino di Steven che vive nell'acquario illuminato dai led, a tema egizio anch'esso.
La memoria non aiuta il commesso. In molti momenti il suo cervello va in confusione, come si spegnesse. Lentamente perde cognizione del nome della ragazza di fronte a sé, ma ne conosce la voce. È un richiamo familiare e rassicurante. Lo chiama per nome e gli tiene le mani tra le sue. Vorrebbe tanto ricordare dove l'ha incontrata la prima volta ma la mente lo abbandona. Sa solo di trovarsi al sicuro finché è con lei.
Gli sussurra parole in tono sommesso e sono come una musica della quale l'uomo gioisce.
«Davvero tu non ricordi niente? Le nostre avventure. La nostra vita insieme?» La ragazza lo tiene per le mani. Lascia scorrere i propri pollici in lente carezze lungo le dita fredde e tremanti dell'impiegato del museo.
«Dio, quanto vorrei!» soffia lui tra le labbra, in un sospiro pesante, la voce ebbra delle note della rassegnazione. Il suo sguardo vaga assente e lontano mentre la memoria si fa immateriale, composta di niente, tanto che non riesce a sentirsi, Steven. Non riesce nemmeno percepire il proprio corpo, fatta eccezione per le mani e la voce della ragazza.
Il calore di una lacrima solitaria, che gli scorre lungo uno zigomo, conferma all'uomo di non stare sognando. Lei lo stringe a sé, gli accarezza il capo. Il viso immerso nelle ciocche scure e ritorte, respira Steven. Le note olfattive secche e pungenti di cannella, miste a quelle balsamiche della mirra rapiscono i sensi dell'uomo trasportandolo nell'immaginario di un deserto spaccato dal sole rovente nel pieno di un mezzogiorno infuocato. Si perde tra le dune brunastre, dalle note sabbiose, della chioma femminile, immerso in un'oasi ristoratrice mentre la voce calma della giovane lo conduce attraverso un viaggio extracorporeo, curando ferite antiche di cui Steven tenta di rimuovere ogni traccia.
Braccia gentili cingono con dolcezza le ampie spalle maschili. Il profumo esotico della donna, il calore che ella emana conducono in un luogo di pace. Steven si lascia cullare dalla voce di donna che lo avvolge. Dita gentili danzano eteree su uno zigomo affilato, consunto dal solco di un passato fatto di un dolore bruciante. La ragazza dagli occhi scuri lo culla. Lo osserva con tenerezza; lei non gli farà del male. Lo ascolta, gli crede, quando le racconta che spesso cade in trance, tormentato da spaventosi sogni vividi nei quali qualcuno tenta di ucciderlo e, puntualmente, senza una spiegazione plausibile, si ritrova in salvo con una scia di sangue alle spalle.
Putnam Psychiatric Hospital, Chicago, molti anni prima
Le braccia della ragazza lo stringono senza fargli male. Non somigliano alle fibbie di cuoio che Steven è certo abbiano serrato stretto un camice di tessuto duro e spesso intorno al suo corpo. In una visione disperata sente le cinghie robuste stringere fino a lasciare i segni anche al di sotto della pesantissima veste. Quando viene spogliato, Steven può vederne chiaramente i segni violacei sulla pelle martoriata delle braccia piene di ecchimosi bluastre che sfumano al giallo.
Osserva il proprio busto smagrito, solcato dalle piaghe causate dalla stretta delle cinte e dalla stoffa del camice che passa al di sotto di esse premendo ancora di più contro la pelle a guisa dei morsi acuti di denti aguzzi.
Un potente getto gelido lo scaraventa contro mattonelle parimenti fredde. Si dibatte alla stregua di un animale feroce, da braccare. Nemmeno l'acqua gli arreca refrigerio, piuttosto lo frusta furiosamente esasperando il languore per le ferite. Strattonato con violenza per entrambe le braccia viene rivestito del sudario che torna a immobilizzarlo. Urla Steven. Disperatamente. Le corde vocali afone.
I muscoli un tempo guizzanti intrappolati in un'atonia che a malapena gli consente di socchiudere le palpebre. La luce dell'ambiente circostante è accecante. Visi che non può distinguere nitidamente sovrastano il suo corpo privo di forze alla loro completa mercè. Imbrigliato alle sponde metalliche del letto di una stanza luminosa e asettica, lo sguardo vitreo fissa il soffitto bianco. Stretto in una sindone che pare acciaio, ha gli avambracci trapassati dai chiodi di una moderna crocifissione fatta di aghi e sieri sperimentali.
«Dottoressa Emmet, a quanto portiamo il voltaggio stavolta?» chiede una voce maschile con timbro meccanico.
«Sessanta volts, il massimo consentito. Faremo in modo che Spector la smetta con la fissa stramba per il vigilante notturno. La voce è ancora troppo potente nelle sua mente. Dobbiamo cancellare gli insani pensieri che animano le manie di un folle.»
La corona di spine cala sul capo del reo visionario, colpevole di giocare con l'action figure di un eroe mascherato di cui si diletta a scrivere e disegnare su un quadernetto, dando voce ai pensieri, quando non viene sedato, addormentato, drogato dai farmaci, fritto dall'elettroshock. Reo colpevole del gravissimo reato di parlare con troppi amici immaginari. Un misfatto che gli è costato la famiglia, la quale lo ha affidato alle amorevoli cure del Putnam Psychiatric Hospital dall'età di undici anni.
Elias Spector non è un cattivo padre ma non è mai stato capace di difendere suo figlio dai neonazisti del quartiere degradato dove vivono.
«Sei orfano, Marc. Devi convincertene. Nessuno ti ha mai reclamato e resterai qui dentro fino a che saremo certi che non potrai nuocere a te e ad altri.»
La sentenza inappellabile emessa dalla voce gracchiante della dottoressa Emmet è l'ultima voce che rimbomba nelle tempie del prigioniero, prima che l'elettricità invii le sue scosse e le pupille si rigirino indietro. Una lacrima sorpassa la cortina di ciglia scure che si stringono in una morsa di dolore inaudito.
– Abba, abba, lama sabactàni?
Si ridesta, non può quantificare quanto tempo dopo, in preda al panico. D'istinto sente l'urgenza di correre via spaventato dalla sua stessa mente. Non compie che mezzo passo prima di cadere rovinosamente al suolo, battendo il viso sul pavimento freddo e levigato di una prigione che non gli lascia neppure il respiro.
Attirata dal tonfo all'interno della stanza adiacente la guardiola, la dottoressa Aralune entra per accertarsi delle condizioni del paziente. Presiede il turno della mattina e, dalle condizioni nelle quali è ridotto l'uomo, capisce che Spector abbia avuto un'altra nottataccia.
La dottoressa Aralune è un'anima gentile e compassionevole, ha sposato la professione di psichiatra per una forte vocazione verso le anime, e vedere i pazienti dopo le terapie la sconvolge sempre.
È entrata come una talpa al Putnam Psychiatric Hospital. Ella sospetta che, contravvenendo alle vigenti disposizioni di legge, nell'istituto si pratichi ancora la terapia elettroconvulsivante. Non ne ha ancora le prove ma è lì per indagare e la dottoressa Emmet, il primario, e il dottor Arthur Harrow confabulano spesso, smettendo improvvisamente di parlare all'arrivo di Aralune. Oltretutto quest'ultima ha notato che i pazienti sono in stato catatonico più del solito quando lei torna alla clinica, dopo le volte nelle quali non era di turno.
Come un buon samaritano, Aralune si china sul corpo inerte del paziente Spector. Raccoglie la bambola che quest'ultimo doveva tenere tra le mani quando è caduto, nel tentativo di scappare dal letto a cui era legato. Come una moderna madonna, la professionista di buon cuore rigira il paziente accasciato, verso di lei, prendendolo tra le braccia. I lunghi capelli lisci e castani accarezzano il viso trasfigurato dal dolore di un ragazzo. Le mani gentili gli spostano le ciocche corvine, scompigliate, dalla fronte. Lo chiama per nome con dolcezza e lui si lascia cullare, sente il suo corpo caldo stringerlo a sé. – È ìmma – pensa per un momento – è venuta a riprendermi– perché lei è dolce come la sua mamma. Seppure con occhi stanchi ne osserva il viso tondo e regolare, gli occhi color nocciola ridenti, il naso delicato. La sua voce, gli arriva come un'eco ovattata. Lo sorregge tra le braccia e lo chiama per nome
«Marc, Marc, puoi sentirmi? Sono la dottoressa Attilia Aralune. Sono qui per aiutarti.»
Incapace di reagire, osserva il movimento delle belle labbra piene e rosee della donna, somigliano a quelle della ragazza dai ricci scuri con la quale ha ballato e a cui ha posato il fiore lilla tra i capelli, l'altra sera.
È morto, ne è certo. E la creatura gentile, vestita di bianco, è certamente un angelo venuto a prenderlo. Suo padre, Elias, gli ha insegnato, da piccolo, che gli angeli e il paradiso esistono.
Angolo Autrice
Eccoci giunti al secondo appuntamento. Vi ho nuovamente fatto salire sulle montagne russe insieme a Steven-Marc. Abbiate pazienza, tutto quello che sembra confuso tornerà a occupare il suo posto al momento giusto. Del resto un viaggio nella mente di un uomo con un disturbo della personalità credo non possa essere niente di meno che un ottovolante.
A presto, figli della vendetta. Aspetto le vostre impressioni.
La storia prende una sua direzione e già in questo capitolo introduco il personaggio OC della dottoressa Attilia Aralune.
Nives🌙.
Il marmo Emperador è uno dei più apprezzati al mondo. Il suo caratteristico colore marrone scuro, a tratti nero, e le sue venature color nocciola, crema e verdastre, lo rendono uno dei materiali marmorei più attuali e moderni.
Abba, abba, lama sabactàni! Dall'aramaico: Papà, papà, perché mi hai abbandonato? È un voluto richiamo alle ultime parole del Cristo crocifisso, prima che spirasse: Eloì, Eloì, lama sabactàni. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato, visto che Marc Spector è ebreo.
Ímma è l'appellativo mamma in aramaico.
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