Scars

Capitolo XXI

"Non so nulla, perché so troppo, e non capisco abbastanza e mai capirò."

― Anne Rice, il vampiro Armand

Il rumore dei sassi scricchiolava sotto le mie scarpe.
Formando un'orchestra naturale, composta dall'aria dolce, né troppo forte né troppa gelida.
Intenta ad accarezzarmi il viso come il pennello di un pittore delicato.
Ariana dormiva serenamente contro le mie braccia. Incosciente di tutto quello che aveva fatto poche ore prima.

Portai lo sguardo sul suo viso angelico, incamminandomi verso l'hotel dalla quale ero fuggito come un ladro.
Avvistando le finestre ancora sprangate contro il vuoto.
Il dolore della ferite inflitte, sull'addome e sotto la clavicola, erano ancora pungenti.
Pertanto, avevo cercato di reprimere i gemiti, concentrando la mia attenzione sulla donna addormentata davanti a me.
Che persona strana...
Un mostro che diventava beatitudine quando dormiva
Un fiore vivo che sbocciava solo quando moriva.
Mi sembrava di vivere una fiaba contorta. Dove la "Bestia" diventava la carneficina della "Bella".
Esalai un altro respiro, raggiungendo la finestra.
Issando Ariana oltre la mia testa per poi adagiarla con cura sul davanzale.
Successivamente, feci un salto.
Afferrando i bordi del davanzale e sollevando il resto del mio corpo.
Scesi dall'altra parte della finestra, poggiando i piedi sul parquet. Innalzando la sua figura assopita e distendendola sul letto matrimoniale.
In tutto questo, mi dimenticai delle mie ferite, fino a quando non presero a sanguinare ancora più abbondantemente.
Avevo la camicia intrisa di sangue, e non solo, avevo erroneamente sporcato il letto e bagnato il suo abito nero con macchie più scure.
Non era un taglio profondo ma la piaga cominciava a farsi sentire.
Ariana non era riuscita a scendere in profondità ma comunque mi aveva lasciato due tagli abbastanza lunghi, che sicuramente sarebbero restate cicatrici a vita.
Deformai la mia faccia in una leggera smorfia, osservando i tagli sotto la camicia appiccicosa e umida; liberandomi del blazer e dell'indumento ormai rovinato.
Buttai la camicia nel cestino della stanza, guardandomi attorno, in cerca del kit di pronto soccorso.
Una volta individuato, lo aprii cercando un paio di forbici, delle garze e del disinfettante.
Okay... stavo ufficialmente per andare a farmi benedire.
Inumidii un pezzo di cotone con l'alcool, portando la sostanza verde sopra la mia ferita, mordendomi le labbra nel mentre.
Parte della mia mente aveva già cominciato a insultare ogni cosa, sia viva che materiale.
Bruciava molto.
E sembrava di avere lo stomaco in fiamme.
Allontanai il disinfettante, tagliando gran parte del rotolo, applicando la garza con attenzione attorno all'addome, imitando la stessa cosa con la ferita sotto la clavicola.
Passai la garza da sotto l'ascella alla spalla sinistra.
Con la consapevolezza che avrei comunque preso un appuntamento dal dottore.
Ero grato a mio padre, ex agente della polizia, il quale mi aveva insegnato a subire in silenzio.
Come tutti, era sull'idea che un uomo potesse piangere solo due volte e mai più.
La prima volta che avevo pianto, era stato quando mio padre era rimasto ricoverato all'ospedale di Toronto.
Colpito in una sparatoria dove aveva eroicamente tentato di salvare una donna incinta.
Avevo all'incirca undici anni.
E ricordavo ancora la sua voce roca che mi diceva di non farmi veder piangere.

" Castiel, asciuga quelle lacrime da coccodrillo!"

Mi venne quasi da ridere al pensiero di quel giorno.
Mia madre stava consolando Will e Paris che si erano lasciati andare come fontane in piena estate.
Mentre mio padre se ne stava lì tutto in silenzio, osservando la scena come se fosse un eccessivo dramma teatrale.
Impassibile davanti alle nostre manifestazioni d'affetto.
La seconda volta invece, era stato per Dave.
Sì.
Avevo pianto per Dave.
Lui non era soltanto il mio migliore amico ma anche il tipico fratello maggiore.
Eravamo cresciuti insieme giocando alla caccia al tesoro, sotto le scrivanie di mio padre e di suo padre.
Freddy Jensen.
Anche lui un caro agente di polizia.
Mentre gli adulti erano indaffarati, io e Dave giocavamo a fare i detective per tutta la struttura della stazione.
Dave Jensen, era il solito ragazzo alto e palestrato.
Occhi color nocciola e una zazzera scura portata lunga sulle spalle larghe.
Sin dalla nostra adolescenza eravamo inseparabili: lui, attento e obbediente alle regole.
Io, ribelle e trasgressore di ogni tipo di norma.
Non vedevo mai l'ora di infrangerle.
Amavo l'avventura e ogni forma di pericolo. Tanto che all'età di sedici anni, incontrai la mia prima e vera peripezia.
Ero rimasto vittima di un traffico di droga.
Ovvero, avevo scoperto un gruppo di giovani adulti che spacciava in modo illecito nel cortile fuori dalla scuola. E giusto per peggiorare le cose , il mio carattere immaturo, mi aveva presto portato diverse disgrazie.
Convinto e sicuro di avere Dave come bodyguard, avevo subito accettato una subdola scommessa da parte del gruppo di malintenzionati.
Mi avevano dato appuntamento, e io ero andato da solo pensando di riuscire a risolvere ogni cosa come mio padre.
Invece, colto in un tranello, mi avevano pestato a sangue per poi buttarmi nel lago sottostante.
Quel giorno avevo seriamente pensato di scomparire per sempre tra le acque fredde del Green lake.
Però, diversamente dalla sorte alla quale mi ero condannato, due braccia familiari mi avevano salvato e riportato sulla terra ferma.
Dave non mi aveva soltanto salvato quel giorno, ma aveva persino menato i tre ragazzi a mani nude.
Da solo, senza molti sforzi.

Non avevo sparso lacrime sotto le forti mazzate inflitte, nemmeno durante l'affogamento.
E fu ancora più divertente, perché il mio sistema nervoso decise di dirmelo più tardi.
Quando Dave infuriato, pensò bene di non parlarmi per due mesi interi.
In quel momento non capii perché scelse di punirmi in quel modo, lo compresi più tardi.

🔸🔸

Flashback

Castiel smise di mangiucchiare la penna deponendola sulla scrivania del suo ufficio. Troppo preso a pensare alle vicende del passato, piuttosto che concentrarsi sui documenti affidatogli dal capo.
In conflitto con un ricordo dominante, che non voleva saperne di lasciarlo in pace.
Si alzò dalla sedia andando a cercare il suo migliore amico.
Dave Jensen.
Ora suo collega di lavoro.
-Dave posso entrare?-
Castiel non aspettò la sua risposta, sedendosi con noncuranza sulla prima sedia girevole nella stanza.
Dave rimase con gli occhi inchiodati sullo schermo del computer.
-Che senso aveva chiedermelo se sapevi di entrare lo stesso?-
Castiel abbozzò un sorriso divertito alla domanda del suo amico.
-Ho una domanda da farti-
confessò, incrociando le braccia sul petto.
Dave si accigliò alzando lo sguardo sul ragazzo furbo seduto davanti a lui.
L'espressione quella di una volpe.
-Rispondi alla mia domanda con un'altra domanda?- smise di controllare i dati sul pc per rivolgere tutta la sua attenzione al giovane ventenne.
-Sono tutto tuo-.
Castiel congiunse le mani avvicinando la sedia al tavolo.
-Ti ricordi quella volta in cui ho fatto quella cazzata e ti sei rifiutato di parlarmi?-
Dave osservò l'espressione concentrata del suo amico, socchiudendo gli occhi alle sue parole.
-Quando mai non fai cazzate?-
Si portò una mano sulla guancia appoggiandoci il peso della testa.
Castiel alzò gli occhi al cielo all'accusa di Dave, voltando lo sguardo altrove.
-Comunque sì, mi ricordo come se fosse stato ieri perché?- lo incitò a continuare.
Castiel riportò l'attenzione su di lui.
-Ecco... Perché non hai voluto parlarmi per così tanto tempo?-
Il suo viso leggermente imbarazzato.
Dave sorrise a tale visione, rivedendo in Castiel l'impavido bambino di dieci anni.
-Dovevo punirti in qualche modo, quindi mi sono messo d'accordo con tuo padre - esordì lui.
Castiel sgranò gli occhi alzandosi di scatto dalla sedia.
Aveva passato due mesi a sentirsi un fallimento totale, pensando di avere deluso il suo unico amico.
-Cosa??-
Si avvicinò ancor di più al suo collega.
- Mio padre stava cospirando con te??-

-Certo che sì, te lo meritavi-

Dave si allargò in un altro sorriso compiaciuto alla vista della sua faccia irritata.
-Stupido, stronzo, coglione! Hai una vaga idea di come mi hai fatto sentire? Mi sono persino messo a piangere!-
Le sue parole rotolarono così velocemente dalla sua bocca, ancor prima che potesse arrestarle.
-Cosa hai detto?-
Dave era alquanto meravigliato.
-Cosa..? Merda! Nulla...-
Castiel saettò la faccia dall'altra parte imprecando sottovoce.
-Quindi "Il grande Castiel Smith" ha pianto per me? Che onore...-
Dave lo prese in giro.
Anche se nel profondo la brusca confessione gli aveva scaldato il cuore.
-Sta zitto! -
Castiel aggrottò la fronte, cercando di dissolvere le guance scarlatte.
Dave si sciolse in una risata contagiosa, obbligando Castiel a increspare le labbra.
-Almeno hai imparato la lezione?- chiese lui fra un sorriso e l'altro.
-Quale lezione?-
Castiel si sedette di nuovo.

-La prudenza è l'arte di sapere fino a che punto si può essere audaci-

🔸🔸

Quindi in pratica...
Non potevo più versare lacrime. Avevo sprecato le mie due possibilità.
Appoggiai il kit sul comodino di fianco al letto, distendendomi vicino al corpo di Ariana.
E lentamente  voltai gli occhi su di lei: il profilo gentile e i lineamenti armoniosi. La pelle chiara e le labbra sottili.
Scesi ancora pò con gli occhi, dalle labbra rosee al mento leggermente sbucciato.
Ricordandomi solo in quel momento di averla spinta a terra bruscamente, nel vano tentativo di raggiungere l'arma prima di lei.
Scossi il capo rimettendomi seduto, allungando nuovamente la mano verso il kit di pronto soccorso.

Presi un cerotto rettangolare dalla scatola di plastica, deponendolo con prudenza sulla sua cute, trovandomi presto a indugiare con le dita sulla sua guancia. Il palmo della mia mano premuto contro il viso di lei.

No Castiel, non affezionarti più del dovuto...

Ritirai la mano afferrando invece un lenzuolo con la quale proteggerla dal freddo della notte.
E poi rimasi lì.
A fissarla con una mente ricolma di dubbi e incertezze.

Che cosa era successo ad Ariana in passato?
Quale trauma aveva disfatto la sua persona?

A tal punto da privare la sua essenza dell'amore, e renderla un sarcofago inondato di tenebre.
Trascinai lo sguardo dalla sua figura verso la finestra, tornando a distendermi vicino a lei.
Contemplando il vuoto e aspettando l'alba.

🔸🔸

-Castiel sai una cosa?- Il signor Smith interruppe la quiete di quel pomeriggio.
-Cosa papà?-
Il ragazzo abbandonò il libro che stava leggendo, per dirigere la sua attenzione sull'uomo di mezza età, seduto sulla veranda di casa.
-Sai perché ti ho sempre detto di rimanere estraneo al pianto?-
Castiel dischiuse gli occhi ammirando suo padre con occhi indecifrabili. Portandosi entrambi le mani dietro la schiena.
Edgar smith diede un colpetto sullo spazio vicino a lui. Sollecitando il figlio a raggiungerlo.
-Dovrei esserne curioso?- Castiel si accasciò sulla poltrona osservando la campagna davanti a loro.
I suoi genitori avevano sempre adorato la casa in montagna o in campagna; dove spesso, trascorrevano gran parte dei loro giorni festivi.
Lontano dalla città e dagli occhi scrutatori.
-Perché? Non vuoi saperlo?- Il signor Smith scrutò il suo secondogenito. Analizzando l'espressione pensierosa e distratta. Ritrovando nel suo sguardo gli intonati lineamenti di Elena Smith.
La sua donna.
-Un tale diceva che "Le donne avrebbero sempre finito per piangere, mentre l'uomo per ascoltare e sospirare".-
Castiel portò gli occhi su di lui, confuso da tale affermazione.
-In poche parole, a noi uomini, non è permesso piangere. E non perché non possiamo piangere, ma perché se lo facessimo...- Edgar si arrestò per qualche istante, portando lo sguardo dal figlio verso l'orizzonte.
-Se dovessimo presentarci deboli, allora chi rimarebbe il pilastro portante tra i due?-

🔸🔸

Il giorno seguente venne con il caos.
Ovvero, dopo che lei ebbe aperto gli occhi.
Ariana sedeva lì sul letto, inerme.
Mani composte e lo sguardo perso.
Immobile come una statua di marmo lasciata a sé stessa.
Senza alcun potere di intendere e volere.
Seduta contro il testiere, avvolta in un silenzio insolito.
-Follies?-

Pronunciai il suo nome come se fosse qualcosa da non articolare.

Osservando poi, i suoi occhi scuri spostarsi da un punto indistinto della stanza alla mia faccia.
Mi ero svegliato alle sette del mattino, trovandola già sveglia, seduta in silenzio nella luce mattutina del giorno.
E non si era mossa.
Avevo persino avuto il tempo di andare in bagno a farmi una doccia e prepararmi. Rifasciando di nuovo le ferite in segreto.
Nel bagno.
Non volendo che lei ne fosse a conoscenza. Questo se in caso non si ricordasse niente.
-Follies hai bisogno di andare in bagno? Hai fame ?- tentai di spezzare l'involucro del silenzio. Tastando le mie parole e il tono della mia voce. Affinché suonasse morbido e privo di ogni sentimento nocivo.
Eppure, non mi rispose.
-Follies c'è qualcosa che non va?- Mi sedetti di fronte a lei avvicinando leggermente il mio viso al suo.
I suoi occhi scuri sembravano cercare qualcosa. Spruzzati di nero e pervasi da una luce non familiare.
Nessuna traccia dell'odio del giorno prima, né della luce sinistra sempre onnipresente.
Invece Ariana pareva solo spenta e meditabonda.
Fece un leggero movimento, alzando le mani davanti ai suoi occhi per poi scendere con lo sguardo sull'abito che indossava. Macchiato e strappato in alcune parti.
L'odore di sangue essiccato e terriccio sotto le nostre narici.
Riportò gli occhi su di me, focalizzando l'oscurità nei miei.
Non riuscivo a capire che cosa stesse pensando, né cosa stesse provando. Illeggibile e riservata.
Emozioni che non traspiravano né davano un indizio dei suoi pensieri.
-Perché non parli Follies?-sbatté le lunghe ciglia più volte, come se stessi parlando una lingua che lei non poteva comprendere.
Sospirai non sapendo come rianimare il suo essere silenzioso. Insomma, ormai mi conosceva bene. Non era più una questione di mancata confidenza qui.
Bensì di qualcosa che non conoscevo, e che lei non era pronta a rivelarmi.
-Mia madre mi aspetta a casa vero?-
Alle sue parole improvvise sussultai quel poco, ma abbastanza da farglielo notare.
La sua voce debole e affaticata.
Che cosa stava succedendo?
Aveva sbattuto la testa?
Perso la memoria?
-Follies tua madre... -
Come potevo dirle che nessuno la stava aspettando se non quello spoglio manicomio senza nome. Come potevo dire a qualcuno in quello stato, che non c'è mai stato nessuno ad aspettarla?
Abbandonata dalla sua famiglia all'età di otto anni.
E mai più reclamata indietro.
-Follies... Sì, tua madre ti aspetta- tentai di dire, sentendomi solo in quel momento in pena per lei. Assorbendo la confusione e la devastazione ora racchiusi nel suo sguardo.
-Allora non dovreste accompagnarmi da lei?-
La sua domanda mi punse il cuore.
Allungai le mie mani afferrando le sue mani nelle mie, per poi tirarla contro di me.
Avvolgendo la sua figura perplessa all'interno delle mie braccia.
-Signore perché mi sta abbracciando? Non dovrebbe accompagnarmi?-
Strinsi la presa, portando una mano nei suoi capelli.
In lenti gesti delicati.
-Sì, tra poco andiamo...- dissi poco convinto.

Oh quanto ti detesto Ariana...

Perché confondi la mia mente in tanti modi. E quando penso di volerti allontanare trovi sempre un modo di ancorare la tua ancora nel fondo del mio mare.
Dov'è ora la parte di te così odiosa e impertinente?
La parte di te perfida e crudele?
Dov'è la parte di te che ora dovrebbe farmi arrabbiare e desiderare di vederti pagare per tutto quel male?

-Signore qualcuno sta bussando alla porta...-

Mi destai dai miei pensieri, interrompendo l'abbraccio, volgendo lo sguardo sulla porta.
Non avevo nemmeno percepito il suono dei colpi.
-Apri la porta Castiel! So che sei lì con Follies!-
La voce familiare e consueta giunse dritta e chiara.

Hansel...?

Mi alzai da letto dirigendomi verso la porta.
Girai le chiave, abbassando la maniglia verso il basso.
-Perché non rispondi a quel cazzo di cellulare!-
Hensel entrò tutto rabbuiato. Gli occhi turchesi incupiti, e le vene del collo tese al massimo.
I suoi occhi si voltarono velocemente verso di Ariana. Precipitandosi subito da lei.
-Ariana stai bene?-
Hansel pareva preoccupato e la sua voce impaziente.
Sembravano non avere bisogno della mia presenza.
Ariana era tranquilla e silenziosa con gli occhi inchiodati su di lui.
E lui pervaso da lei.
-Ciao Hansel stai tornando adesso dal collegio?-
Hansel sgranò gli occhi guardandola scioccato, per poi guardare me.
Mi ritrovai a schiudere gli occhi a mia volta. Stupito dalle sue parole.
Portando una mano sotto il mento e
Mordendomi il labbro con assidua insistenza.
-Diamine! Un'altra volta! Cosa le hai fatto?-

Un'altra volta? Dunque, non era nemmeno la prima volta?

-Castiel cosa le hai fatto?!- sobbalzai saettando gli occhi sulla figura slanciata di lui.
-Io? Niente! -
Hansel marciò verso di me sbattendomi contro il muro. Afferrandomi per il bavero della camicia azzurra. Torcendo il tessuto nel suo pugno di ferro.
-Ma che cazzo stai facendo!?-
Mi dimenai tentando di liberarmi dalla sua morsa glaciale.
-Cosa gli hai fatto Castiel!? Non voglio ripetermi!-
I suoi occhi erano qualcosa di estraneo e oscuro.
La fronte aggrottata e l'ira dipinta sul suo volto.
Non riuscivo nemmeno a parlare, o a mettere le parole insieme.

-Hansel non ho fatto
niente!- ripetei, - era così da stamattina, da quando si è svegliata- aggiunsi confuso quanto lui.

Hansel mi lasciò andare, marciando verso i miei vestiti del giorno prima. E prese a cercare qualcosa nelle tasche dei miei pantaloni; buttando le mie cose per aria, nel tentativo di trovare un indizio.

-Un taser! Hai usato un taser contro di lei ?!-

Estrasse la pistola elettrica sventolandola davanti ai miei occhi.
In tutto questo Ariana non si mosse né emise qualche rumore; ma restò ferma a fissarci dal letto matrimoniale.
Hansel si girò verso di lei notando le piccole gocce di sangue sulle lenzuola bianche.
-Anche se dovesse cercare di ucciderti non devi mai usare il taser contro di lei!- mi accusò per la seconda volta.

-Come potevo saperlo! Non è che avevo una guida di sopravvivenza! -

Odiavo quando la gente si comportava in quel modo. Quando ti puntavano il dito contro, senza aver prima ascoltato la tua versione della storia.

-Stammi ad ascoltare coglione!-
Hansel si avventò di nuovo su di me, ghermendomi per le spalle.
Schiacciando la piaga sotto la clavicola nelle sue larghe mani.
Gemetti appena.

-Follies possiede alcuni problemi di salute! E per lei armi come queste potrebbero spedirla in un arresto cardiaco!-
Dischiusi lievemente le labbra.
Sorpreso dalla rivelazione sulla salute Ariana.

Non lo sapevo...

-Hansel Io non lo sapevo! Nessuno me ne aveva mai parlato prima d'ora...-

-Tutte fottute scuse! La prossima volta al posto di sprecare il tuo tempo in futili mansioni! Fai ricerche più approfondite!-

-Stavo cercando di sopravvivere bastardo! Non stavo sprecando il mio tempo!-

Ancor prima che potessi arrestarmi gli stavo urlando addosso.
Infuriato e stanco dei suoi attacchi ingiusti.

-Non mi interessa! Se a causa tua lei muore... Ti giuro che ti ammazzo Castiel-

La minaccia venne tagliente e stracolma di odio.
Un odio che non avevo mai visto negli occhi di Hansel.
Allentò la presa per poi avviarsi verso di lei.

Follies pareva spaventata.
Il suo corpo tremante e pallido.
Forse, turbata dalle nostre grida.

Hansel allungò le mani prendendola fra le sue braccia, raccogliendo i lembi dell'abito lungo dal pavimento.
Con un calcio aprì la porta trascinandola via con lui.
Lasciandomi contro il muro, con le ferite nuovamente aperte.

-Non volevo intenzionalmente usare il taser Hansel! - gli gridai dietro.
Non ricevendo comunque risposta.
Se non il rumore dei suoi passi che si allontanavano.
Mi lasciai andare contro la parete di nuovo, strisciando con la schiena verso il pavimento.
La mia era stata legittima difesa.

Ariana stava per dissanguarmi, come avrei potuto saperlo?

Come diavolo avrei potuto saperlo...

Affondai la testa nelle mie mani, annullando ogni sensazione attorno a me.
Lasciandomi vincere dal senso di colpa.

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