7. Maternità
Pov Sara
In questo momento mi sentivo circondata d'amore nonostante fossi un po' dolorante per via del parto.
Emilia aveva guardato con curiosità quelle persone che le accarezzavano i piedini e le manine e si lasciavano andare in urla di giubilo.
Non lo dicevo perché ero la madre, ma era proprio una bella bambina.
Il fatto che fosse già un po' più grandicella e avesse le guanciotte e le manine paffute la rendeva adorabile.
Aveva il nasino leggermente all'insù, un sacco di capelli biondi, le labbra rosee e quegli occhioni che rischiavano di far capitolare chiunque.
Continuavo a stringerla tra le braccia, non riuscivo a lasciarla andare.
Provavo un tumulto di emozioni indescrivibili, non avevo ancora realizzato del tutto che quella bambina sarebbe stata con me per tutta la vita e che avrei imparato a conoscerla con il tempo, con la consapevolezza di essere indissolubilmente legate.
Lei era stata dentro di me e io le avevo passato la mia genetica e avrei contribuito alla sua crescita in ogni momento.
Ero un po' spaventata ma al tempo stesso estremamente felice.
E poi non ero sola, tutte quelle persone che erano accorse in ospedale ci sarebbero state per aiutarci.
Emilia, a un certo punto, proruppe in un pianto disperato.
Io spalancai gli occhi, osservando il suo visino arrossarsi e le lacrime uscire da quegli occhioni lucidi.
Sentii il panico assalirmi, non avevo tenuto in conto che i bambini potessero piangere. Lo sapevo, certo, ma non immaginavo che sentirlo per la prima volta mi avrebbe lasciata così interdetta.
Mi sentii come se il mio cervello fosse andato in blackout, incapace di capire cosa stesse succedendo sul serio.
"Ha una bella grinta" commentò Giulia, guardandoci con un sorrisino.
"Credo che abbia semplicemente fame, ha già mangiato?" chiese Agnese.
"No... non..." improvvisamente mi sentii stupida.
Era nata alle tre del pomeriggio ed erano le sei e mezza, come avevo fatto a non pensarci?
"Ti hanno già spiegato come si allatta e come farla attaccare?" domandò mia suocera, un po' più premurosa.
"No" sbuffai.
In che diavolo di ospedale ero capitata? Io ero incompetente ma anche le infermiere non scherzavano.
Sbottonai il pigiama e tirai fuori il seno, con le mani un po' tremanti.
Emilia smise di singhiozzare e si fiondò sul mio capezzolo, attaccandocisi con foga e succhiando forte, facendomi uscire un mugugno di dolore.
"Direi che aveva decisamente fame" commentai, per spezzare il silenzio.
"Già" ridacchiò Agnese, ammirando come le guanciotte di sua nipote si stessero muovendo per succhiare e come con le manine stringesse la stoffa del mio pigiama.
"Credo che tu sia l'unica ad aver partorito con un balconcino di pizzo rosso" sghignazzò Francesca, alludendo al mio reggiseno.
"Sai com'è" ribattei, "non era in programma partorire oggi".
"Darei un rene per poter vedere la faccia delle ostetriche quando ti hanno tolto le mutandine" rincarò la dose Giulia.
"Ero talmente terrorizzata che neanche ci ho fatto caso" bofonchiai, rendendomi conto che non doveva essere stata una scena comune quella di togliere alla partoriente un tanga striminzito.
Sbuffai, non avevo avuto intenzione di rinunciare al mio intimo da incinta e appena avessi potuto togliere quelle mutande di cotone, avrei continuato a usarlo anche con una bambina piccola.
Percepivo lo sguardo di Agnese, che probabilmente doveva sentirsi profondamente a disagio per quei discorsi fuori da ogni suo standard.
"Che cos'è tutto questo silenzio?" si inserì la voce di Michele.
"Stiamo assistendo alla prima poppata della bebè Royal" scherzò Francesca.
"E io me la sono persa così? Potevate chiamarmi!" si offese lui, raggiungendo il letto.
"Ancora non ha finito, siediti vicino a me" lo consolai.
Sbuffò, adagiando il mazzo di rose bianche e rosa vicino agli altri fiori.
"Grazie, sono bellissimi" lo ringraziai, appoggiando la testa sulla sua spalla.
Emilia si staccò dal seno, buttando la testa all'indietro e io tirai su il reggiseno in fretta.
La nonna la prese subito in braccio, appoggiandola sulla sua spalla per farla digerire.
"Beh, almeno avrò l'onore di sentire il primo ruttino" si lamentò ancora lui.
Poi mi piazzò davanti la box con il sushi, facendomi esultare di gioia.
Infine frugò sulle tasche dei pantaloni e tirò fuori una scatolina di Tiffany.
"Non me le sono scordate le regole dell'etichetta, a differenza vostra" polemizzò lui, guardando i suoi genitori.
"Non pensavo che te la saresti presa così, figliolo. Ti stuferai di vederla attaccata al seno" lo prese in giro Riccardo.
Sbuffò, ma si lasciò andare in un sorrisetto.
Aprì la scatolina, da cui uscì fuori un trilogy estremamente elegante. Tra due diamantini, un piccolo quarzo rosa decisamente scintillante.
Me lo infilò al dito, baciandomi sulle labbra.
Sorrisi, dopotutto non potevo essere più felice di così.
★······★······★
La prima notte era stata pressoché perfetta e Michele aveva guardato tutta la sera e il giorno dopo la cullina su cui era adagiata la bimba.
"Sei proprio innamorato" lo pungolai la mattina dopo, mentre continua a guardarla in attesa che si svegliasse per prenderla in braccio.
"Gli occhi verdi mi fanno cedere" mi rispose a tono lui, sorridendomi.
"Allora in attesa che apra i suoi, vieni da me" ridacchiai, facendogli posto sul letto.
"Sei gelosa?" ribatté lui, colpendomi la spalla con fare scherzoso.
"Ma ti pare, è mia figlia" risposi io, con una linguaccia.
Non potevo che essere felice di vederlo così preso.
★······★······★
Per i primi giorni non riuscivo a muovermi molto bene e, nonostante riuscissi ad alzarmi dal letto, si occupava lui del cambio pannolini, tra qualche occhiata perplessa delle infermiere.
Inoltre spesso e volentieri Emilia iniziava a piangere dal nulla e lui aveva il compito di calmarla, tenendola in braccio. Sembrava che smettesse di piangere solo se la tenevamo in braccio e nel mentre camminavamo. Io ci avevo provato ma ero ancora dolorante, quindi lo faceva lui.
"Su questo ha ripreso da te, anche tu urlavi come una sirena da piccolo" ammise Agnese, cullando tra le braccia la nipotina.
Mi trattenni dal fare battutine, non avrei rischiato di compromettere il rapporto con mia suocera, ma fui contenta di sapere che non era il principino senza macchie che lei aveva tentato di dipingere.
"E come mi calmavi?" chiese lui, speranzoso di trovare una soluzione.
"Non ti calmavo, dopo un anno hai smesso di strillare".
"Un anno?" spalancò gli occhi lui.
Li spalancai anche io.
Non sapevo se fossi pronta a sentirla piangere disperata per un anno.
Ma ancora non avevo realmente capito l'entità del problema.
La maternità non era quel periodo rose e fiori che ti propinano ovunque, dipingendotelo come un momento talmente magico e idilliaco che era impossibile non volerlo.
Tornati a casa, ci ritrovammo da soli, con una neonata che si stava rivelando decisamente difficile.
La notte, i risvegli erano sempre più numerosi e io provavo ad allattarla pensando che il mio latte non fosse sufficiente a sfamarla ma dopo la prima poppata smetteva di volere il seno e continuava a urlare a dismisura.
Avevamo, allora, chiamato il pediatra pensando che soffrisse di colichette o di gonfiore... l'aveva rivoltata come un calzino, ma sembrava che non avesse niente.
Era in perfetta salute.
Il dottore aveva asserito di non aver mai visto una bambina che crescesse così in fretta, il mio latte doveva essere decisamente nutriente e lei ne prendeva a sufficienza.
"Allora perché continua a piangere?" chiedemmo, dopo l'ennesima visita in un mese e mezzo.
"Non lo so, i bambini piangono. Credo sia normale".
"Sì, ma si sveglia in mezzo alla notte, dal nulla e inizia a piangere come se l'avessimo picchiata. Anche durante il giorno, un secondo prima è tranquilla, e poi inizia a urlare disperata..." ribattei io.
"Signora, non lo so. Non ha problemi di salute. È un fase, le passerà appena crescerà un pochino" mi sentii rispondere.
Tornammo a casa, dopo l'ennesima crisi di Emilia in macchina.
Eravamo esausti. La notte, oltre alle canoniche poppate ogni tre ore, ci svegliavamo più e più volte di soprassalto con le sue urla. A volte tra una poppata e l'altra non riuscivamo neanche a dormire, perché spesso dopo un'ora iniziava a piangere, tenendoci svegli fino al pasto successivo.
E se non si svegliava urlando dal nulla, dovevamo cambiarle il pannolino.
Il giorno eravamo ridotti a due zombie. Spesso io mi addormentavo sul divano, cercando di sfruttare i minuti in cui lei dormiva tranquilla o giocava sulla sua sdraietta.
Non mangiavamo un pasto decente da troppo.
Io non avevo le forze di cucinare e lui meno di me.
A volte venivano le mie amiche, portandoci qualcosa di caldo e dandoci almeno la libertà di dormire un paio d'ore di seguito... ma loro avevano trovato lavoro e quindi non riuscivano a venire spesso.
Emilia cresceva perfettamente, diventando ogni giorno più bella e la sua bellezza era direttamente proporzionale ai pianti disperati che la coglievano improvvisamente.
Erano due mesi che la situazione peggiorava, arrivando a farci svegliare quasi ogni ora.
Le uniche interazioni che riuscivo ad avere con Michele riguardavano pannolini, latte, pianti e possibili soluzioni per farla smettere.
Le avevamo provate tutte: la sdraietta che la dondolava, le passeggiate sul portico coperto con il passeggino, i massaggi rilassanti.
Quando piangeva ce le inventavamo tutte, portandola a spasso per la casa e cercando di distrarla con qualsiasi cosa: un soprammobile, una lampada strada, la biblioteca, la portavamo a vedere il mare dietro casa, avevamo provato persino con i bagnetti caldi.
Ma non c'era verso.
Lei piangeva imperterrita.
E io iniziavo a sentirmi annullata.
Non esistevo più.
A malapena riuscivo a farmi una doccia la sera, quando lui la teneva buona.
Poi ci davamo il cambio ed entrava in bagno lui.
Non mi sentivo più una donna.
Non ero più io.
Il trucco, i capelli arricciati e in ordine, gli appuntamenti fuori, il sesso o semplicemente una pizza sul divano con un film di sottofondo erano un miraggio. Per non parlare di un abbraccio, le coccole sul letto, o anche un'innocente nottata di sonno ristoratore con una colazione pacifica e decente il giorno dopo.
Cose che erano state la mia quotidianità ora erano semplicemente desideri irrealizzabili.
La mancanza di sonno e le urla perforanti mi toglievano la voglia di vivere, impedendomi di fare altro se non vivere in funzione delle sue poppate.
Mi sentivo una macchina da latte più che una persona.
Sperai che quel periodo finisse presto, perché l'amore che provavo nei confronti di quella bambina era offuscato dalla frustrazione e dalla stanchezza.
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