6. Ce l'abbiamo fatta

Pov Sara

La paura mi attanagliava le viscere.

Era stato un crescendo di ansia da quando avevo compreso che il mio utero aveva deciso di prosciugarsi una settimana prima della data del cesareo.

Era come se un musicista impazzito stesse premendo tutti i tasti della mia anima in una sinfonia folle, fino a raggiungere il picco che avrebbe portato al frantumarsi di qualcosa e sperai con tutta me stessa che l'apice non avesse portato via il mio equilibrio.

E il picco l'avevo raggiunto quando mi avevano caricato sul lettino d'ospedale e avevano chiuso le porte alle mie spalle, lasciandomi senza l'unica persona che in quel momento sarebbe stata in grado di tenere incollati insieme i miei sentimenti e raccoglierne eventuali cocci se lo scoppio sarebbe stato troppo forte.

In quella gravidanza avevo capito una cosa: che Michele era l'unica persona sulla faccia della terra ad avermi vista fragile e ad aver messo la mia vita prima della sua. Era stato il custode di quella nuova famiglia che probabilmente non mi vedeva del tutto pronta e aveva sopportato i miei continui scleri dell'ultimo mese, mettendo da parte l'orgoglio in nome dell'amore.

Io senza di lui non sarei stata in grado di dare alla luce nostra figlia.

Le ostetriche mi parlavano, ma io sentivo a tratti quelle parole.

Avevo bisogno di lui.

Il parto naturale mi spaventava talmente tanto da rendermi inerme, uno stupido involucro vuoto che non sarebbe stato in grado di collaborare.

La cosa più naturale del mondo, la continuavano a chiamare.
Com'è che io riuscivo solo a piangere disperata fissando il muro schifosamente bianco?

Lo sanno fare tutte le donne, ripetevano quelle infermiere nel tentativo di calmarmi e farmi collaborare.
Forse io ero meno donna delle altre, allora.
Perché non mi sentivo minimamente in grado di farlo.

Il flusso impazzito dei miei pensieri fu interrotto dalle sue urla che minacciavano il primario.
Mi uscì un sorrisetto.
Stava lottando con tutti i suoi mezzi per oltrepassare quel divieto del cazzo.

Piantai gli occhi sulla porta, con la speranza che la misera consapevolezza della sua presenza al di là mi avrebbe potuto rilassare.

"Signora, si rilassi. Mancano pochi centimetri".

Io sentivo solo il dolore che mi piegava in due con cadenza sempre più regolare e, nei momenti di respiro, pensavo che non volevo partorire e che avevo bisogno di lui.

Appena la porta si aprì, lo vidi. Tra noi era come se ci fosse una barriera invisibile che in quel momento mi sembrò incolmabile.

Due secondi dopo era al mio fianco, con la sua mano a stringere la mia.

Da quelle dita era come se fosse partita una sorta di connessione interpersonale che mi trasmetteva la sua energia.

"Non voglio partorire" mi lamentai, guardandolo negli occhi.

"Credo che tu non abbia scelta in questo momento. Fidati che se potessi, lo farei io al posto tuo".

Mi parlava con un tono di voce talmente calmo che mi lasciai cullare da quel suono.

"E se dovessi morire come mia madre?" mi uscì fuori di getto, sputando fuori il peso che mi impediva di collaborare e che mi rendeva follemente irrazionale. La mia paura fottuta di partorire aveva una causa. Il cesareo mi avrebbe resa sicura, questo mi faceva sentire vulnerabile.

"Non voglio neanche sentire la parola morte in questo momento" mi disse, fermo.

"E se dovesse succedere? Non lo possiamo controllare" pigolai.

"Non succederà. Io non lo permetterò" mi guardò negli occhi.

"E come?"

"La morte dovrà passare sul mio cadavere" scherzò, stringendomi la mano.

Sentivo gli sguardi delle infermiere e del dottore perforarmi, stupiti da quello scambio di battute.
Ma a quanto pare mi ero rilassata e, nonostante le contrazioni che ogni tanto mi lasciavano senza fiato, sentivo che bisbigliavano che la dilatazione procedeva.

"E lasceresti Emilia da sola?" mi sforzai di sorridere io, mentre una fitta mi costringeva a mordermi le labbra per non urlare.

Mi strinse la mano, percependo il mio dolore.

"Da qua ne usciamo tutti i tre. Vivi. È una promessa, Sara. E io mantengo le mie cazzo di promesse".

I suoi occhi mi perforarono l'anima e raggiunsero quel musicista impazzito che stava scuotendo i tasti della mia anima.
In un secondo quel crescendo si acquetò e le dita di quel folle presero a suonare con più delicatezza, accompagnandomi in una discesa di emozioni che assomigliavano a una ninna nanna.

"Signora, a ogni contrazione deve spingere. Ogni contrazione che lascia andare è persa. Più si sincronizza, meno tempo ci vorrà".

Chiusi gli occhi.
Non avevo scelta, dopotutto.

"Oh Cristo" imprecai, aggrappandomi al suo braccio e conficcandogli le unghie nella pelle.

Poi mi accasciai sul cuscino, respirando a pieni polmoni.

"Non ce la faccio" mi feci prendere di nuovo dallo sconforto.

"Hai abbastanza palle anche per partorire, manca poco".

"Se avessi letteralmente le palle starei mugugnando frasette motivazionali del cazzo, invece sto provando la peggiore delle torture su un cazzo di letto" sbottai, presa in contropiede da una contrazione in cui spinsi con forza.

"Okay, insultami. Almeno sei coerente con te stessa" mi sentii dire.

Arrivavano sempre più rapide, tanto da non lasciarmi nemmeno il tempo di respirare.

"Ti giuro che se provi a scoparmi un'altra volta, ti taglio le palle" riuscii a minacciarlo, facendo sghignazzare le ostetriche.

"Le ultime spinte, vedo la testa".

Quella frase mi fece ritrovare la forza che pensavo di aver perso e strinsi i denti.

Emilia venne fuori facendomi provare la stessa sensazione che si sentirebbe se dalla vagina uscisse un bambino interamente coperto di lava.

Il bruciore era talmente intenso che il suo urlo fu coperto dal mio, come se entrambe fossimo venute al mondo insieme.
Lei come nuova creatura, io in quanto genitrice.

Questa volta le forze mi abbandonarono sul serio e mi sdraiai sul letto.

Quando mi misero in braccio quel fagottino avvolto in un asciugamano di spugna bianco, sorrisi soddisfatta.

"Mi sa che lassù ti hanno ascoltato" sussurrai, stringendo con delicatezza quel corpicino che era stato nove mesi dentro di me e che ora finalmente potevo abbracciare e conoscere.

Due occhioni vigili, della stessa tonalità dei miei, mi scrutavano curiosi.
Forse aveva ragione, erano talmente verdi da rendere insostenibile lo sguardo.
Me ne resi conto solo guardando i suoi, come se attraverso le sue iridi potessi vedere un mio doppio.

Pov Michele

Guardavo quel batuffolino adagiato sul petto di Sara e non riuscivo a muovere un dito.

Improvvisamente, tutta la forza di volontà e la determinazione che avevo avuto durante il parto, mi avevano abbandonato, lasciandomi come un sacco vuoto.

Era lì.
Era nata.
Era mia figlia.
Ero padre sul serio, adesso.

La girò verso di me, con un sorriso talmente luminoso che non le avevo mai visto.
Aveva usato la stessa delicatezza che si usa per mostrare a qualcuno un gioiello prezioso, un diamante raro, un tesoro inestimabile.

Improvvisamente mi ritrovai a essere fissato da due paia di occhi identici.
Due iridi erano incastonate tra le ciglia lunghissime ed erano colmi di felicità e amore.
Le altre erano due smeraldi enormi in un visetto minuscolo e candido, colmi di curiosità e altrettanto svegli.

"Se anche lei ha il potere di lanciare fiamme con gli occhi, sono un uomo morto" sorrisi.

"Mi premurerò di insegnarglielo" scherzò lei.

Poi la portarono via, per ripulirla e fare i controlli di ruotine.

Continuò a guardarci fino a che non scomparvero dietro alla porta.

Mi alzai, baciandola lievemente sulle labbra.
Poi appoggiai la mia fronte sulla sua, perdendomi in quegli smeraldi.

"Ce l'hai fatta, amore".

"Ce l'abbiamo fatta, Mik. Senza di te starei ancora a fissare il muro, disperata" sorrise a un centimetro da me.

"Chissà cosa ha pensato" mi venne spontaneo dire.

"Che è capitata in una famiglia strana, ma decisamente affiatata" mi rispose.

Avvertii la mia famiglia e le sue amiche, nella fretta non avevamo avuto tempo.

Mamma ebbe quasi un mancamento al telefono a sapere così di essere diventata nonna con una settimana d'anticipo.

★······★······★

"È biondissima, qualcosa ha ripreso anche da te" scherzò Sara, stringendola tra le braccia.

Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel visetto che mi continuava a guardare con gli occhi spalancati e curiosi.

"Credo di essere l'unico coglione con i capelli biondi e gli occhi marroni" ribattei.

Allungai la mano per toccare quelle guanciotte piene, e Emilia, per tutta risposta, agganciò la sua manina sul mio dito, circolandolo.

"Oddio, è minuscola" riuscii a dire, sentendo le lacrime di commozione.

"Beh, se la devi far uscire da lì sotto non è proprio tanto minuscola... ci ho rimediato sei punti di sutura" sorrise lei, facendomi cenno di prenderla in braccio.

Non feci in tempo a prenderla che arrivano, nemmeno si fossero coordinati, i miei genitori e le sue amiche.

"Dov'è la mia nipotina?" gridò mia madre prima ancora di varcare la soglia della camera.

"Guarda le zie cosa ti hanno portato" esordirono Giulia e Francesca, allungando i fiori a Sara e agitando un peluche morbissimo di fronte a un'Emilia che spalancò gli occhi, quasi spaventata da tutta quella gente.

Mia madre aveva a sua volta dei fiori e un braccialetto d'oro per la sua prima nipotina.

"È bellissima" commentò mio padre, toccandole il piedino lasciato scoperto dalla tutina.

"È grandissima più che altro" commentò mamma.

"Michele ha appena detto che è minuscola" mi prese in giro.

"Perché non l'ha partorita, mi sa" sorrise Francesca.

Sbuffai, sentendomi preso in giro. "Direi che sei in ottima compagnia, vado a prenderti il famoso sushi che ti ho promesso".

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