5. Laurea in tre

Pov Sara

I giorni seguenti proseguirono velocemente e sembrava quasi che anche lui fosse più sereno.

Mi resi conto che, nonostante non lo avesse ammesso per non appesantirmi, la scelta di non lavorare gli fosse costata una fatica immensa.

Anche io ero stata nervosa per il terrore di non riuscire a portare a termine il mio obiettivo, ma anche lui non era stato tranquillo.

Il pomeriggio, quando si rintanava a leggere in terrazzo, fumava una sigaretta dietro l'altra, facendomi storcere il naso.
Era ovvio che quel periodo di nullafacenza fosse pesato anche a lui.

Si era sacrificato per spianarmi la strada, per non farmi rimanere indietro, per starmi vicino.
Era l'unica soluzione possibile: uno dei due avrebbe dovuto cedere, rinunciare a qualcosa.
E, nonostante il suo ego spropositato, aveva ceduto lui.

Lo guardai lavorare concentrato al pc mentre muoveva, frenetico, le dita sulla tastiera.

Sorrisi, gliene sarei stata sempre grata.
La sua era una dichiarazione d'amore oltre ogni limite.

Nessuno l'avrebbe biasimato se non avesse lasciato il lavoro, se mi avesse costretto a trasferirmi con lui lasciando il futuro che stavo costruendo qui.
Era normale che la vita degli uomini fosse continuata a scorrere come sempre, nonostante un figlio imminente.

Io, invece, sarei stata criticata se non avessi fatto di tutto per rendere unita una famiglia.

Per evitare che su di me piovessero il peso delle critiche e l'incombenza di un paese nuovo, di cui non conoscevo la lingua, e con una bambina piccola, l'aveva fatto lui, proponendolo a tutti come una libera scelta di un padre attento.

Non sapevo se fosse stata o meno una libera scelta o una decisione adeguatamente ponderata... non sapevo nemmeno se se ne fosse già pentito o se avesse avuto rimpianti con il tempo.

Ciò che vedevo ora era che, avendo un impegno reale, era più sereno e rilassato e aveva smesso di fumare come una ciminiera.

Eravamo così fottutamente uguali da farmi ridere a volte.
Anche io quando non avevo la mente occupata e mille progetti per le mani mi innervosivo e mi sentivo inutile.

Mi avvicinai a lui, posando le mani sulle sue spalle.

Avevo letto e corretto tutte le pagine che aveva già portato a termine e il suo era un lavoro ottimo, a un occhio non troppo attento sarebbe anche potuto sembrare il mio.
Non si percepiva quasi lo stacco di stile.
Anche lui aveva una scrittura pulita, lineare, senza troppe subordinate o arcaismi ad appesantire la narrazione.
Forse io mi lasciavo andare un po' troppo con le virgole, mentre lui prediligeva punti o congiunzioni ma eravamo pressoché simili anche in quello.

"Pausa?" gli sussurrai sul collo.

"Finisco questo paragrafo" rispose lui.

"Nemmeno fosse sul serio la tua tesi" lo presi in giro, baciandogli il collo.

Mugolò, staccando gli occhi dal PC.
Ora avevo la sua attenzione.

"Dai, una pausa in spiaggia ti schiarisce la mente" lo tentai, non staccandomi dal suo collo.

"Solo se ti fai il bagno nuda con me" ammiccò lui, facendomi sedere sulle sue gambe.

"Non so se ci arrivo in acqua" protestai io, stavolta.

"In acqua possiamo fare il bis" disse lui, iniziando a baciarmi con passione.

★······★······★

Il giorno della laurea era arrivato, quando avevo consegnato la tesi il giorno della scadenza, avevo pianto davanti al sito, ringraziandolo per l'opportunità che mi aveva dato.

Faceva un caldo sovrumano e io ero chiusa in un vestitino verde che, per miracolo, non avevo sporcato vomitando tra l'ansia e la nausea nei bagni dell'università.

Stavo condividendo, di nuovo, quel momento con le persone più importanti della mia vita.
Giulia, Francesca, Michele, Emilia che scalciava come se avesse capito che fosse un momento speciale per la sua mamma.

La festa fu intima: un pranzo caloroso e una festa in costume sulla spiaggetta della villa dove avevamo cantato, ballando a piedi nudi sulla sabbia.

Poi mi sarebbe aspettata una festa decisamente più istituzionale a casa dei miei suoceri la settimana prossima. Festa in cui non avrei potuto indossare le converse e non avrei potuto togliermi il vestito per godermi la spensieratezza e non soffrire il caldo.

La sera, calato il buio, ci ritrovammo io e lui sulla spiaggetta, con lo sciarbordare del mare sotto e un cielo coperto di stelle.

"Congratulazioni, dottoressa" sghignazzò lui, sdraiandosi sull'asciugamano, probabilmente un po' alticcio per via della birra e dello champagne.

Io avevo brindato con un succo di frutta, pure le bevande analcoliche troppo elaborate mi facevano venire la nausea.

"Non ce l'avrei fatta senza di te" risposi, sdraiandomi accanto a lui.

"Ce l'avresti fatta lo stesso, solo che ci avresti messo un po' di più" notò lui.

"Grazie" sussurrai.

"Mi hai già ringraziato nelle pagine della dedica, sul palco alla fine della discussione e innumerevoli volte quando scrivevo. Mi sono pure divertito, non devi ringraziarmi più" ammise, con gli occhi fissi sul cielo.

"Lo so, era un grazie per avermi messo al primo posto nella tua vita" spiegai.

"Dove altro avrei dovuto metterti? Sei mia moglie" mi rispose, abbassando il tono della voce.

"Avresti potuto non farlo, nessuno ti avrebbe mai detto niente, amore".

"Non l'ho fatto per gli altri, l'ho fatto per noi" disse.

"Non so quanti avrebbero lasciato un lavoro, forse nessuno" mi lasciai andare.

Da parte sua sentivo solo il silenzio e il suo respiro regolare.

Tirò fuori il pacchetto di sigarette dai bermuda e ne accese una.

"Ti sei pentito?" chiesi, avvicinandomi di più e guardando la stessa porzione di cielo che osservava lui.

"Non lo so, quando non ho niente da fare mi manca lavorare. Mi sento incompleto" ammise.

Sbuffò una nuvoletta di fumo che mi investì in pieno.
In condizioni normali mi sarei innervosita o mi avrebbe fatto venire la nausea.
In questo momento, invece, percepivo la sua agitazione e lasciai correre.

"Poi, però, quando ti vedo spensierata, felice, sorridente e sei tra le mie braccia mi ricordo del perché l'ho fatto. E poi voglio crescerla qua, nella casa che mi ha lasciato mio nonno. Insegnarle a nuotare tra le onde e farla correre con la bici sul vialetto di ghiaia. Immagino si debba sempre rinunciare a qualcosa per qualcosa di altrettanto bello".

"Avrei dovuto rinunciare io" riuscii a dire, facendomi prendere da sensi di colpa che non erano nella mia natura.

"Sei anche tu la mia bimba, non avrei permesso che fossi tu a sacrificarti. Hai già vissuto un'infanzia difficile e ti sei costruita da sola, non me lo sarei perdonato se il mio orgoglio fosse stato la causa di un'altra fase di cambiamenti stressanti per te".

Lo abbracciai stretto, trasmettendogli la mia gratitudine con il contatto fisico.

Quel bacio sapeva di consapevolezza e amore profondo e mi ritrovai a sentire le lacrime di commozione uscire dai miei occhi.

Per la seconda volta in meno di un anno le stelle, anche se in una porzione di cielo diversa, erano state le testimoni del nostro amore.

Chissà se i nostri nonni brillavano tra quelle.

Pov Michele

Dopo la sua laurea e quel discorso sincero, eravamo ancora più uniti.

Era l'ultimo trimestre di gravidanza ed entrambi ci stavamo abituando a quella pancia ingombrante tra di noi.

Non riusciva nemmeno a infilarsi i sandali o ad allacciarsi le scarpe e ogni volta finivo per sorridere e farlo io al posto suo.

Avevamo deciso di goderci l'estate in completa libertà. Io non lavoravo, lei aveva finito l'università e sarebbero stati gli ultimi mesi che avremmo passati da soli.
Certo, se non fosse stata incinta, sarei partito immediatamente per un coast to coast in America ma la cosa non era fattibile quindi ci eravamo accontenti di partire in macchina alla scoperta dei paesini del Lazio.

Facevamo viaggi corti, che ci permettevano di partire in tarda mattinata dopo le sue nausee, mangiavamo fuori e poi ritornavamo a casa al tramonto.
Spesso, invece, passavamo i pomeriggi al mare o in piscina, sorseggiando succo d'arancia sui calici di cristallo e ridendo di come queste vacanze fossero decisamente all'insegna del relax.

Dopotutto un po' di distacco dal mondo frenetico mi ci voleva e questo ritmo di vita rallentato mi stava donando una pace senza uguali. Mi sentivo connesso con la natura intorno a me e appagato per star vivendo quelle sensazioni.

Nonostante la noia che mi aveva assalito nei primi momenti e la paura di aver fatto una scelta sbagliata, quell'estate si stava trasformando nella migliore della mia vita.

★······★······★

Settembre era arrivato e Sara aveva spento le candeline rosa con il numero ventitré, rifiutandosi di festeggiare con le consuete amiche di mia madre perché, testuali parole sue, stava per esplodere e non riusciva a fare altro.

Non gliel'avevo detto per non farla piangere, ma sembrava davvero che stesse per esplodere: Emilia doveva essere decisamente grande.
Anche per questo motivo, con il ginecologo, avevano optato per un cesareo programmato. Così anche Sara sarebbe stata più tranquilla.
Sarebbe nata il quindici settembre, il giorno del nostro anniversario. Ci sembrava una data perfetta per celebrare il nostro amore.

Due giorni dopo il compleanno ci trasferimmo nell'appartamento di Roma per stare più vicini all'ospedale.

Una sera, in preda a un attacco di panico, aveva chiamato il dottore perché aveva le contrazioni.
"Stai tranquilla, sono normali, il quindici ti operiamo senza nessun problema. Rilassati".
Si era lamentata per il dolore tutta la notte.

★······★······★

"Sara, tutto okay?" le chiesi, notando che si era fermata in mezzo alla stanza con una smorfia di dolore sul volto.

"Che cazzo di domanda è? Ho, ogni tanto, le contrazioni da due giorni. Posso stare bene?" mi urlò addosso.

Sbuffai, ricacciando indietro la risposta a tono.
Stava solo per partorire, era normale che fosse sclerata.

"Sì, questo lo so. Intendevo, posso fare qualcosa per te?"

"No, non sai un cazzo di quanto possa fare male. E no, a meno che tu non ti prenda questa fottutissima pancia che mi pesa da nove mesi e partorisci al posto mio, non puoi fare proprio niente" sibilò.

"Va beh" sbottai, piccato per quel comportamento.

Mi allungai sul divano, decisamente offeso.
Capivo gli ormoni, capivo l'ansia e tutto il resto ma non meritavo un simile trattamento.

Sentii come uno scroscio d'acqua cadere a terra e mi girai di scatto.

Sulle piastrelle una chiazza d'acqua sotto di lei e lei che era diventata dello stesso colore bianco candido del muro, nonostante gli strati di abbronzatura.

"Che cazzo sta succedendo?" mi alzai dal divano come se avessi avuto una molla.

"Sto partorendo" riuscì a biascicare con le mani che le tremavano.

"Che cazzo significa?" sbottai, non riuscendo a stare fermo.

"Mi si sono rotte le acque, che cazzo significa secondo te?" spiegò, scoppiando a piangere.

"Non... ma noi... il quindici" riuscii a dire con le uniche parole sconnesse che mi uscirono dalle labbra. Ero paralizzato.

"Al quindici non ci arrivo, Cristo. Dobbiamo andare in ospedale, ora" disse lei, tra le lacrime.

"Ospedale" ripetei, prendendo le chiavi della macchina.

"Cristo, non mi rifare il verso dietro. La borsa del parto" sbottò, frustrata.

Il mio cervello girava a vuoto, entrai nella stanza come se non fosse stata casa mia. Improvvisamente mi ero scordato dove fosse la valigia, come mi chiamassi e come diavolo si arrivava in ospedale.

Tornai di là con la valigia, trovandola nella stessa posizione di quando l'avevo lasciata. Sembrava una bambola di pezza.

Fissava quella macchietta sul pavimento come se dentro avesse potuto trovarci le risposte a ogni suo interrogativo.

Mi avvicinai anche io, in trance, non riuscidendo davvero a realizzare che quel liquido era ciò che aveva tenuto mia figlia in vita per nove mesi e che ora giaceva sulle piastrelle.

"Dici che bastava solo questo a tenerla in vita?" mugolai, fissando la pancia e poi il pavimento.

"Io sto per partorire e tu pensi ai quesiti esistenziali e filosofici?" sbottò, mettendosi a piangere di nuovo.

Le sue gambe cedettero come se fosse un burattino a cui avevano tagliato improvvisamente i fili.

La ripresi per un braccio prima di farla cadere a terra.

"Non voglio partorire" continuava a ripetere, come un disco rotto.

"Andiamo" riuscii solo a dire, trascinandomela dietro.

In macchina, a ogni contrazione, sembrava che sprigionasse fuori un'ondata di ansia che si andava a depositare proprio sul mio petto, impedendomi di respirare.

A casa non avevo compreso del tutto l'entità del fenomeno.
Di lì a poche ore sarei diventato padre.

Improvvisamente la strada di fronte a me mi sembrava un ammasso di luci e colori e dovetti sforzarmi per mettere a fuoco le macchine e gli incroci.

Respirai a fondo, imprecando mentalmente per non aver chiamato una fottuta ambulanza o un taxi.

Come diavolo avevo pensato di poter guidare in quello stato?

"Cristo, muoviti" ringhiò lei, attaccandosi al bracciolo della macchina, piegata in due da una contrazione più forte delle altre.

Deglutii, sentendo tutta la pressione scivolarmi addosso.

"Guarda che se la partorisco qui, la devi tirare fuori tu tra il sangue. Schiaccia quel cazzo di gas" sbottò, tra le lacrime

L'idea mi mozzò il respiro in gola e strabuzzai gli occhi solo a immaginarmi la scena.
Sarei andato in panico e le avrei ammazzate entrambe.

Abbassai il pedale a tavoletta per scaricare su un medico competente l'incombenza di far nascere la mia prima figlia.

Al reparto la visitarono velocemente, portandola via sul lettino per farla entrare in sala parto. A quanto pare Emilia aveva fretta.

"Dove cazzo state andando?" riuscii a dire dopo essermi ripreso dallo shock iniziale, appena notai che la stavano portando via da me e lei aveva gli occhi spalancati con la paura incastonata dentro.

"In sala parto" bofonchiò l'ostetrica, chiudendomi la porta in faccia.

"No! Michele! Ti prego, ho paura" mi gridò lei, quando chiusero le porte.

Quella richiesta di aiuto mi risvegliò dal senso di torpore, facendomi arrivare nel petto un senso di protezione smisurato verso le mie due donne.

"Fatemi entrare!" urlai a mia volta, sentendomi come una specie di leone che protegge la sua famiglia.

"C'è mia moglie là dentro e sta partorendo" continuai a sbraitare, non arrendendomi a quella condizione di impotenza che mi avevano imposto.

Sbattei la mano sulla porta, incurante del buon senso e del fatto che fossimo in ospedale.

Potevo sentire i suoi gemiti di dolore e quel suono mi stava distruggendo. Io dovevo essere lì a tenerle la mano.

"Stia calmo, non la stanno seviziando" mi schernì un dottore.

"Se ne vada a fanculo, è un mio diritto essere lì dentro" lo apostrofai, lasciando da parte la buona educazione.

"I compagni sono sempre solo d'intralcio, meglio che si sieda. Lasci perdere" continuò a dirmi con quel sorrisetto che avrei volentieri cancellato con un pugno.

"Se non mi fa entrare entro due secondi le faccio saltare il posto e ho abbastanza soldi per accettarmi che lei non trovi più uno straccio di lavoro" minacciai.

"Dottore, entri" lo chiamò un'ostetrica aprendo la porta.

"Michele" pianse lei, vedendomi di sfuggita.

Con il piede impedii alla porta di chiudersi di nuovo, isolandomi dal mondo. Quegli occhi mi stavano reclamando come se fossi la sua unica certezza.
Mi intrufolai dentro la sala parto, poi sentii la mano del dottore scuotermi la spalla. "Vada fuori" mi intimò.

"Ma levati dal cazzo" sbraitai, assicurandomi di aver strattonato la sua mano per fargli capire che non scherzavo.

Con due falcate raggiunsi il lettino, prendendole subito la mano che mi stava porgendo.

"Ti prego, ho paura. Aiutami" confessò lei.

"Sono qui, sarò sempre vicino a te quando ne hai bisogno".

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top