30. A poker col destino

Pov Michele

"Beh, non è proprio quello che cercavo" dissi, appoggiandole sul tavolinetto basso. "Ma ce le faremo andare bene".

Scese dal divano e si accomodò sul tappeto incrociando le gambe e prendendo in mano le carte.

"Ci sai giocare?" chiesi.

"Qualche volta ci ho giocato ma è passata una vita" ammise lei.

"Anche io non ci gioco da una vita" risposi.
E in effetti era vero.
Mi balzarono in mente i ricordi di me bambino e di mio nonno e le nostre interminabili partite a scacchi e a carte.

"Prima mano a carte scoperte? Poi giochiamo qualche spiccio" proposi.

"Giochiamo a soldi?" disse, spalancando gli occhi.

"Il poker è una cosa seria" ammiccai.

La prima mano la giocammo a carte scoperte e la feci vincere di proposito.
Il sorrisino che aveva fatto quando mi aveva battuto era stato impagabile.

La seconda partita vinse lei e scoppiò a ridere per come mi aveva stracciato.

"La fortuna del principiante" bofonchiai, tirandole i due euro che avevo scommesso.

Mi alzai per prendere la bottiglia di rum e versarmene ancora un po' e accesi la TV per avere un po' di musica in sottofondo.

Giocammo per un'ora e mezza di seguito, avevo scordato quanto fossero piacevoli le serate a giocare a carte davanti al camino. Con nonno lo facevo sempre da piccolo solo che nel mio bicchiere c'era la coca cola, avevo dieci anni all'epoca.

Pensai che sarebbe stato orgoglioso di me, sia perché stavo giocando con lei sia perché la stavo decisamente battendo, aveva vinto quattro partite contro le sette mie.

"Comunque secondo me bari" disse lei, guardando il mio mucchietto di spicci.

"Giuro di no, ero bravo a poker da piccolo" dissi, bevendo un sorso di rum e accendendo una sigaretta.

"Le do io le carte, allora" disse, mettendo il broncio.

"Se ti fa stare più tranquilla" risposi, passandogliele.

Subito dopo fece un sorriso esagerato guardandole.
Non sapeva bleffare.

Tirò fuori venti euro dal portafoglio.

"Sei sicura di vincere, bimba?" ghignai con la sigaretta in bocca.

Annuì, bevendo un sorso di rum.

"Poker" disse fiera, mettendo le carte sul tavolo e mi guardò soddisfatta.

Tirai l'ultima boccata alla sigaretta e la spensi sul posacenere.

"Scala reale" dissi, sorridendo e presi la banconota.

In un secondo il sorrisetto che aveva scomparse dalle labbra e iniziò ad accusarmi:
"No, non è possibile, hai barato" urlò, scandalizzata.

"Ma ti pare" le risposi, pacato.

"Ma certo, hai contato le carte" disse, ovvia.

"Che diamine dici? Le hai date tu, neanche volendo potrei averlo fatto" mi difesi.

"Hai nascosto le carte" disse, puntandomi il dito contro.

"Non farei mai una cosa simile.
Non sai accettare le sconfitte" scoppiai a ridere.

"Ma che ridi?" disse, guardandomi male mentre le scappava un sorriso.

Poi passò dall'altra parte del tavolo e iniziò a frugarmi nelle maniche del maglione.

Risi di gusto di nuovo tirandomi indietro.

"Ah, vedi che sei disonesto" rise lei, salendomi addosso per cercare le carte che secondo lei avevo nel taschino.

"Non così però" gemetti, sentendola spalmata addosso.

Mi era letteralmente salita a cavalcioni sopra.

Non sapevo se avessi retto una cosa simile.

"Ah no?" disse lei, mettendomi le mani sotto il maglione e ridendo innocente.

"Ogni volta ti devo ricordare che non sono un pupazzo?".

Avevo il respiro corto, non ero pronto ad avercela di nuovo addosso, mi mandava fuori di testa.

Mi imposi di tenere le mani apposto, l'istinto era quello di prenderla per i fianchi e non lasciarla più.

Spalancò gli occhi, forse, rendendosi conto della posizione in cui si era messa.

Era così presa dalla sua perquisizione che non se ne era accorta.

"Oddio" sussurrò lei.

"Sono un uomo, non un santo" le feci notare con voce roca.

"E ti faccio ancora effetto?" mi rispose, con voce birichina.

Mi avrebbe mandato al manicomio.

Mi era salita addosso senza essersene resa conto, mi aveva messo le mani sotto al maglione per giocare e, ora che aveva realizzato, mi stava pure provocando.

"Dannatamente sì, bimba", non la riconoscevo nemmeno io la mia voce, era bassa e profonda.

Mi mancava davvero poco per perdere definitivamente il controllo e non rispondere delle mie azioni.

"E lo vorresti?" mi provocò ancora, muovendosi piano sopra di me.

Cristo, se lo volevo, dovevo sedarmi per non sognarla la notte e non svegliarmi con i boxer bagnati come un bambino.

Afferrai con decisione i fianchi e la tirai verso di me, avventandomi sulle sue labbra.

Così era decisamente troppo, lo aveva voluto lei, io mi ero impegnato a non toccarla.

Appena entrai in contatto con la sua lingua mi sentii andare a fuoco, mi faceva lo stesso effetto della benzina su un incendio.

Quelle labbra erano un paradiso e non avevano niente a che vedere con quei baci scarichi che davo occasionalmente a Ilaria per non sembrare un maniaco.

Le nostre lingue si rincorrevano senza sosta e, dopo averle lasciato una carezza sul viso, toccai di nuovo i capelli liscissimi e morbidi, la schiena sinuosa, i fianchi, le gambe, quel culetto sodo.
Non riuscivo a stare fermo, mi sembrava di essere tornato a respirare dopo mesi in apnea e non mi sarei fermato tanto in fretta.
La sentii infilare le mani tra i miei capelli e me li tirò, facendomi uscire un suono gutturale dalla gola, mi piaceva troppo quando lo faceva.
Eravamo passione allo stato puro.

Si staccò da me, facendomi ringhiare, non avevo finito ancora.

"Non respiro" disse lei, con il fiatone e le labbra arrossate.

"Io respiro solo se ti bacio" e mi avventai di nuovo su di lei.

La sentii fare pressione e inclinai la schiena per sdraiarmi ma trovai dietro il divano, ci appoggiai la testa mentre la circondavo con le braccia.

Stavolta non sarebbe scappata.

Mi lasciò un morsetto non troppo delicato sulle labbra e mi sussurrò: "E come hai fatto?".

"A fare che?" chiesi mentre cercavo di riprendere le sue labbra.
Non volevo parlare, la volevo sentire.

Mi lasciò un piccolo bacio.
"A respirare".

"Non lo so, forse ho vissuto in apnea" dissi mentre approfondivo il bacio.

"Ti sono mancata?" chiese tra un bacio e l'altro.

"Da morire, bimba".

E a pensare che mi ero privato di questo per mesi, mi stavo davvero chiedendo come avessi fatto a sopravvivere.

"Anche tu" la sentii sussurrare prima di lanciarci in un bacio senza freni.

Quello che aveva detto mi aveva fatto perdere un battito.

La presi di peso e, girandomi senza staccarmi dalle sue labbra, la feci sdraiare sul tappeto e le andai sopra.

La volevo.

La volevo adesso.

Non ne potevo più di aspettare.

Diamine, era mia moglie.

"Michele" mi chiamò lei, staccandosi.

"Sì?" ringhiai.

Non avrei accettato un andiamoci piano.

"Ti squilla il telefono".

Imprecai.
"Non me ne frega un cazzo, bimba, adesso sto con te".

Non mi sarei staccato da lì neanche se fuori fosse scoppiata la terza guerra mondiale.

Sentii le sue gambe circondarmi il bacino e le mani tra i miei capelli.

Non avrei retto così e avevo intenzione di fare le cose con calma.

Tenendomi con un braccio solo, portai la mia mano sulla sua gamba con l'intenzione di staccarla dal mio bacino ma mi ritrovai a palparla e ad accarezzarla.
Ero perso.

Sentii squillare di nuovo, facendomi perdere la concentrazione.

"Mi sa che è urgente" ansimò sotto di me.

"Sei più urgente tu" le risposi, scendendo a baciarle il collo.

La sentii gemere e inarcare la schiena.

Era il suo punto debole.
Con la mano libera vagavo su tutto il suo corpo e infine la infilai sotto il maglioncino accarezzandole i fianchi e giocando con il piercing sull'ombelico. Poi mentre scendevo dal collo alla clavicola, afferrai il seno da sopra il reggiseno e lo strinsi piano, era perfetta.

L'unica cosa disturbante erano quegli squilli insistenti.

"Michele, ti prego, rispondi, così è una tortura, giuro che non scappo" mi disse lei tra un gemito e l'altro.

"Non scappi?" chiesi, dubbioso, mentre continuavo a baciarle il collo.

"Se fai così, no" mi rispose, ansimando.

Mi alzai decisamente incazzato con l'intenzione di urlare contro qualsiasi persona fosse al telefono.
Afferrai quel maledetto iPhone maledicendomi per non averlo messo in silenzioso.

Una doccia ghiacciata mi avrebbe gelato di meno quando lessi il nome: Ilaria.

Era un déjà vu terribile, non ci credevo.

Fui tentato di lanciare il telefono dentro il camino e vederlo scoppiare.

"Chi è?" mi chiese lei, tirandosi su e aggiustando il maglioncino che le era salito sulla pancia.

Così era una visione, la guardai e poi guardai il telefono che non smetteva di squillare.

Ero tentato di mettere il silenzioso e spegnerlo per poi dire che era mia madre che sicuramente si chiedeva dove fossi.

Poi, però, pensai che se solo le avessi detto una bugia e lei lo avesse scoperto, l'avrei persa definitivamente confermando la sua idea che fossi un bugiardo manipolatore.

Mi sedetti sul divano, prendendomi la testa fra le mani. Avrei dovuto dire la verità e sperare che non mi facesse una scenata come al lago.

"È grave?" mi domandò, preoccupata.

"È Ilaria" e il mio tono di voce era così scuro che sembrava avessi ammesso di aver fatto un delitto.

Alzò le sopracciglia: "La senti ancora?".

"In questi mesi ci siamo visti" mi giustificai. "Però giuro che se sei d'accordo glielo dico ora che non ho più intenzione di vederla".

Mi guardò negli occhi.

"Intanto rispondi, ti chiama insistentemente da dieci minuti".

"Sara, prima dimmi che cosa abbiamo intenzione di fare", la stavo supplicando.

"Non sai stare senza di me o senza di lei? Se non ci sono io deve esserci per forza lei come seconda opzione?" sputò acida.

"Ti scongiuro, non penso che tu sia stata una monaca di clausura in questi mesi, non fare così.
Voglio te, non so come dirtelo, ma se tu non mi vuoi dovrò pur stare con qualcun'altra". Sperai mentalmente di averla convinta.

"Okay, hai ragione" sospirò.
"Proviamoci, visto che tanto quando stiamo insieme facciamo scintille" ammise lei.

La baciai catturando di nuovo quelle labbra che erano il mio ossigeno.

"Rispondi, però" mi rimproverò con il sorriso, staccandosi.

"Ilaria!" la apostrofai.
"Spero per te che sia urge... SEI INCINTA?" urlai dallo sgomento, balzando dal divano.

"Che cazzo significa che sei incinta?" chiesi, incredulo, con voce strozzata.

"Significa che ho un bambino in pancia. E che è tuo, ho fatto il test praticamente ora".

"No, non può essere mio" dissi con le mano in faccia "Ho sempre usato il preservativo. E poi tu non prendevi la pillola?" urlai.

"Il preservativo?" mi chiese lei, cadendo dalle nuvole, dopo qualche secondo di silenzio.

"Certo, non te l'ho mai detto perché ti saresti offesa ma non mi fidavo della tua cazzo di pillola e ho fatto bene" imprecai.

"Questo mese l'ho dovuta smettere" si giustificò lei.

"E se io non avessi messo il preservativo?
Quando cazzo me lo avresti detto che non eri coperta, eh?" sbraitai.

"Beh, si sarà bucato, perché sono incinta".

"Controllo sempre che non è bucato" ribattei, deciso.

"Se non credi al mio test, prenoto le analisi e una visita, vieni anche tu così lo vedi che ho il tuo bambino" e buttò giù il telefono.

Preso dai nervi lo scagliai per terra.

"Michele?" sentii dirmi, debolmente.

Porca troia.
Mi girai e la vidi realmente scossa.

"Non so se voglio condividerti con la futura madre di tuo figlio" mi disse, flebilmente.

"No, Sara, no. Giuro c'è un errore, non può essere.
Ho sempre controllato che non fosse bucato" dissi tutto d'un fiato.

"Era così sicura da prenotare una visita con te".

In effetti era strano.

Ripensai che due volte fa avevo lasciato il preservativo nel cestino del bagno perché avevo fretta di prendere l'aereo e mi ero lasciato andare in una sveltina.

Per una cazzo di volta che avevo lasciato andare il controllo ero rimasto fregato.

Glielo raccontai.

"E quindi potrebbe averlo preso e si è messa incinta da sola" conclusi.

Mi guardò schifata:
"Ma sarebbe capace di fare una cosa simile?".

"Eccome se ne sarebbe capace.
Tu non sai quanto è arrampicatrice sociale" imprecai.

"Beh, anche tu non sei meglio, usavi il preservativo senza dirglielo" mi accusò.

"Smetti di difenderla, porca puttana!
Lei ha smesso di prendere la pillola senza avvertirmi, se fossi stato un pollo ci sarei cascato in pieno.
E poi secondo me non l'ha mai veramente presa, se non mi fossi tutelato a quest'ora sarei padre di quattro figli" urlai.

"Ci sei cascato uguale" sottolineò.

"Abortirà" dissi fermo.

"No!
Il corpo è suo e decide lei!
Se lo vuole tenere tu non glielo puoi impedire" ribatté lei, fulminandomi.

Cristo, mi faceva perdere il senno.

"Ma perché diamine la difendi sempre? Che cazzo te ne importa di lei?
Si è ingravidata da sola, probabilmente, perché ha capito che ti sto sotto e che ha finito di spennarmi" gridai.

"Perché sono femminista e non posso permettere che un uomo sottometta qualcuna.
Lei potrà anche odiarmi, e probabilmente sta sui coglioni anche a me per come si comporta, ma che sorellanza è quella che difende i diritti solo delle donne che ci stanno simpatiche?" mi spiegò.

Rimasi in silenzio.
Non avevo mai pensato a un ideale così puro, non sarei mai riuscito a battermi così per una persona che non sopportavo.

"E quindi che cosa dovrei fare secondo te?" chiesi, sconfitto.

"Innanzitutto vai da lei e parlatene, prenotate un'ecografia".

"E io e te?" sospirai.

"Io e te mi sa che non siamo destinati a stare insieme, Michele".

Sentii qualcosa incrinarsi dentro di me.

"Come fa a non essere destino una cosa del genere?".

Probabilmente stavo quasi piangendo.

"Non lo so, ma ora hai un figlio, e io non me la sento di mettermi in mezzo".

Chiusi gli occhi.

Io non me lo meritavo di innamorarmi così, di una che era mia moglie ma che non sarebbe mai stata mia.

Uscii di casa, il gelo che c'era fuori era niente rispetto a quello che provavo ora.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top