28. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore

Pov Agnese

Il matrimonio era stato un disastro. Ne avrebbero parlato per mesi e io mi sarei dovuta vergognare a morte per quello scempio. Che cosa avrei detto alle mie amiche? Come avrei giustificato una simile barzelletta? Avevo tentato di parlargliene per mesi al telefono e di persona ma continuava a dirmi che fosse tutto sotto controllo, che era perfettamente in grado di organizzare un matrimonio da solo, che si era fatto aiutare da una wedding planner e io alla fine l'avevo lasciato libero. Anche se mi ero offesa, non tolleravo che il matrimonio del mio unico figlio fosse organizzato da una sconosciuta pagata e non dalla madre, ma quando parlavo dell'argomento era sempre sfuggente e tergiversava. Gli avevo chiesto persino di invitare quella ragazza, almeno per mettersi d'accordo su eventuali invitati e sul vestito ma mi aveva risposto che preferiva farcela conoscere al matrimonio. 

Avevo avuto un brutto presentimento, appena la nominavo lui sfuggiva al mio controllo e sembrava quasi volerla proteggere da chissà cosa. Ma mi aveva rassicurato dicendo che il matrimonio sarebbe stato un sogno. 

E invece era stato un incubo.

Guardai mio figlio correre per le scale dopo avermi risposto male. Scossi la testa. Non si era mai permesso di fare una cosa del genere e quel rimprovero se lo era meritato. Mi aveva assicurato che sarebbe stato perfetto e invece era stato un ricevimento al limite del grottesco. Era palese che lei avesse il coltello dalla parte del manico con lui e se ne erano accorti tutti, bisbigliando che non vedevano un uomo sottomesso da anni. Era una vergogna il fatto che le avesse dato la libertà di vestirsi come voleva, di guidare il giorno del suo matrimonio e di salire da sola all'altare.

Lo guardai correre dietro alla gonnellina svolazzante di quella sgualdrina, ripudiando tutti i miei consigli e insegnamenti.

Non lo riconoscevo più.

Non era quello il mio bambino.

Quella lì doveva avergli fatto il lavaggio del cervello, non riuscivo a spiegarmi in nessuna maniera quel suo comportamento.

Io gliel'avevo detto tante volte che le donne lo avrebbero cercato solo per soldi e che non doveva farsi imbambolare da un bel faccino e, invece, ci era cascato in pieno, rendendosi ridicolo davanti a tutti e mettendo in imbarazzo anche noi.

All'immagine del suo viso contratto, mentre affermava che i miei discorsi fossero cazzate, urlando che quella ragazzetta fosse libera di fare ciò che voleva, si sovrappose il suo visetto di quando era bambino.

Era stato uno di quei bambini che tutte le madri avrebbero voluto. Pendeva dalle mie labbra ed era sempre perfetto in ogni occasione. Essere la sua mamma mi rendeva la donna più felice del mondo. Riccardo ogni tanto mi rimproverava perché lo esibivo come un trofeo nei ricevimenti ma mi veniva spontaneo visto che conosceva a memoria ogni singola regola dell'etichetta. Per me quel bambino biondo era perfetto, e l'avevo creato io. Era impossibile non metterlo in mostra e non vantarlo. Per questo mi ero fidata delle sue rassicurazioni, sapevo che conosceva alla perfezione il modo in cui certi eventi andavano organizzati, ero consapevole del suo buon senso, non mi aveva mai deluso o tradito le mie aspettative. 

Quando era piccolo diceva che ero io la donna della sua vita e io l'avevo coccolato in maniera quasi morbosa. Era tutto il mio mondo.

Poi con il tempo era cresciuto e aveva messo in pratica tutti i miei insegnamenti, rendendomi fiera di lui.

Aveva studiato in maniera eccellente, aveva un lavoro brillante e non si era portato a casa nessuna ragazza sconveniente nel periodo dell'adolescenza. Quando le altre donne mormoravano delle scappatelle dei figli, di come si ritrovassero qualche ragazzina sfacciata a colazione dopo averli sentiti in atteggiamenti intimi la sera prima, io gongolavo soddisfatta. Michele non mi aveva dato quei problemi, sapeva benissimo come e quali donne scegliere.

Poi era cresciuto ancora di più e sapevo che uscisse con Ilaria. L'avevamo conosciuta di sfuggita durante la laurea e a primo impatto mi era sembrata una ragazza perfetta per lui. Lo guardava con adorazione ed era proprio quello lo sguardo che una donna avrebbe dovuto rivolgere a un uomo.

Invece, in questo matrimonio fuori da ogni schema, era il mio bambino a guardare con adorazione quella lì e lei nemmeno lo calcolava.

Non mi era piaciuta dal primo istante. Si era presentata da noi da sola, guidando, poi se ne era andata insultando Riccardo con una maleducazione senza precedenti. Era troppo arrogante e sicura di sé.

Se solo quel vecchio non ci avesse giocato questo tiro mancino anche dopo la morte, ero sicura che lui avrebbe sposato Ilaria.

Una volta gliel'avevo chiesto, visto che non ne parlava mai in famiglia e mi aveva risposto che prima o poi l'avrebbe sposata ma che ancora non era il momento. Io l'avevo capito, voleva ancora godersi un po' la vita e non diventare subito un marito e poi un padre ingabbiato. Ero certa, però, che prima o poi l'avrei visto all'altare con la donna giusta.

Poi, un anno fa, era precipitato tutto. Quella lettera doveva essere arrivata direttamente dall'inferno da dove sperai che bruciasse Fausto per aver rovinato mio figlio. 

Ogni volta che Riccardo mi costringeva a lasciargli Michele, tornava a casa con strane idee in testa. Gli diceva tutto il contrario di quanto gli dicessi io.

"Mamma, nonno mi ha detto che da grande posso fare quello che voglio, è vero?"

"Mamma, nonno mi ha detto che se Matilde è carina con me io posso essere il suo fidanzato anche se lei non è ricca"

"Mamma, nonno mi ha detto che non devo trattare male gli altri bambini, devo farci amicizia"

E io puntualmente dovevo fare tutto il lavoro da capo per evitare che quel tarlo lo traviasse.

Non poteva stare con tutti o fidanzarsi, per gioco, con la figlia di un meccanico, anche se avevano otto anni. Era troppo importante per circondarsi di quella gentaglia di poco conto.

Alla fine ci era riuscito, dopo morto, a portarlo sulla cattiva strada, constatai.

Quando ci aveva raccontato che si sarebbe sposato a settembre, avevo sussultato.

"E Ilaria, tesoro?"

Nonostante senza quel matrimonio sapevo che non avrebbe ereditato i soldi,  non volevo dare in pasto il mio bambino a quella sgualdrinella.

"Di Ilaria non mi è mai interessato. Io e Sara siamo usciti insieme in questi mesi, penso che possa funzionare" aveva asserito e io avevo tremato.

Non volevo che me lo portasse via, non volevo dividerlo con una donna che andava contro tutti i miei ideali.

Ilaria mi sarebbe andata bene perché sapevo che lo trattava come un principe, esattamente come facevo io, quindi l'avrei accettato.

Da come aveva parlato di quella ragazza, invece, avevo capito che ci fosse di mezzo qualcosa di molto più grosso e non potevo permettere che lei lo raggirasse in quel modo.

E oggi ne avevo avuto la prova.

Era stato tutta la mattina giù di morale, sfuggente e incazzato. Neanche lo riconoscevo più, non veniva nemmeno a trovarci ultimamente.

Ma oggi era stata una tortura.

Il modo in cui Michele la guardava, adorante, nonostante fosse racchiusa in abito discutibile e con un trucco fuori luogo, era stato una tortura.

Si erano ribaltate le posizioni, lei che girava lo sguardo dall'altra parte, altezzosa, e lui che cercava di tenerle la mano, sognante.

Non l'avrei mai accettato.

E avevo riversato su di lei il mio veleno, per aver cambiato mio figlio, per avermelo portato via, per aver vanificato tutti gli sforzi che io avevo fatto per crescerlo.

Solo che avevo l'impressione che lui non sarebbe più tornato da me. Il modo in cui mi aveva risposto a tono non aveva precedenti... di solito prendeva come oro colato le parole che mi uscivano dalla bocca.

Ora invece non era più così.

C'era qualcun'altra nel suo cuore. Qualcun'altra che non lo meritava, qualcun'altra che non lo rispettava, qualcun'altra che non gli riservava un trattamento consono a lui.

"Agnese?" sentii dirmi da mio marito.

"Dimmi, Riccardo", cercai di essere accondiscendente.

"Dovremmo dire qualcosa agli ospiti, ci stanno guardando tutti e stanno mormorando".

Mi alzai, riscuotendomi da quel flusso di coscienza. Avrei dovuto fronteggiare io le malelingue, Riccardo era pressoché inutile... sapeva solo essere prepotente quando era arrabbiato.

Non l'avevo mai amato, non me ne era mai importato di lui ma era ricco e poteva darmi una vita agiata e io l'avevo ripagato stando un passo indietro, anche se di fatto riuscivo a manipolarlo abbastanza bene per ottenere ciò che volevo.

Era un inetto, e a Fausto io non ero mai piaciuta perché aveva capito che mi sarei approfittata di quella condizione.

Probabilmente l'avevo fatto, ma non avevo colpe se l'educazione che gli avevano impartito non era all'altezza di una donna come me.

Io con Michele avevo fatto un buon lavoro, l'avevo messo in guardia dalla pericolosità del genere femminile, e l'avevo fatto talmente bene che per ventinove anni di vita mi aveva dato ascolto. Lui era diverso dal padre, era diverso da Riccardo. Ci avevo tenuto a crescere un figlio maschio come un uomo con le palle che non si sarebbe fatto sottomettere da una donna. L'unica che poteva avere un qualche ascendente ero io, la madre.

E invece i miei sforzi erano stati vani.

Anche lui si era ridotto a scodinzolare dietro a una donna che, però, a differenza mia non avrebbe fatto finta di stare un passo indietro. 

Pov Michele

"Quello che mi hai detto tu è una cazzata!" quasi urlai. "Avere il controllo di tutto è una merda, e no, non la controllerò come ho fatto con tutte, è una persona libera di fare ciò che le piace.
E anche se non l'ho scelta all'inizio, dopo averla conosciuta l'ho scelta consapevolmente" ribattei, sprezzante.

"Modera i toni quando parli con tua madre" mi rimproverò papà.

Ma vattene a fanculo.

"Lei dovrebbe moderare i toni quando parla con me, sono stufo di essere ingabbiato in una mentalità che non voglio più avere e che non ho scelto" dissi, a denti stretti.

Nel frattempo mi accorsi che se ne era andata senza ribattere, e la cosa mi preoccupava, doveva essere parecchio grave per non aver risposto.
Di solito era abbastanza peperina quando la gente provava a scavalcarla.

Mentre mi allontanavo sentii dire: "E ora cosa diciamo agli invitati?".

Salii le scale di casa a quattro gradini alla volta, dovevo parlarci, cazzo.
Avevo rimandato tutto il giorno, ci avevo girato intorno perché ero spaventato solo al pensiero di vedere di nuovo quegli occhioni delusi ma come al solito avevo fatto una cazzata.
Di solito ero sicurissimo di me e andavo al sodo, con lei invece vacillavo, mi sentivo fragile e indugiavo.

Andai dritto in quella stanza in cui c'erano le foto dei nostri nonni pensando che fosse lì ma non c'era.

Cercai di aprire la camera patronale ed era chiusa a chiave, era là dentro.

Bussai debolmente.
Non mi rispose.
"Sara, aprimi".
Bussai ancora.
Niente.
Bussai più forte.
"Aprimi, per favore".
"Dobbiamo parlare, cazzo" imprecai, sbattendo la mano su quel legno massello che non sarebbe venuto giù nemmeno a spallate.

Sarebbe mai passato il periodo in cui lei mi lasciava fuori e io sbraitavo per farmi aprire o essere minimamente ascoltato o calcolato?
In un anno mi aveva dato una miriade di due di picche ledendo la mia autostima.
Prima di lei nessuna mi aveva rifiutato, dannazione.

Accesi una sigaretta incurante del fatto che ero in casa.
L'avrei aspettata qui, prima o poi sarebbe uscita.
A costo di dormire sulle scale.

Dopo mezz'ora sentii gli ultimi invitati andarsene.

Probabilmente avrebbero parlato di questo matrimonio per mesi, era stato un bello scandalo per loro.

Decisi che mi sarei cambiato almeno, se dovevo aspettare non avevo intenzione di farlo impinguinato così.

Entrai nella camera a fianco e tolsi lo smoking infilando una maglietta bianca e dei pantaloni della tuta grigi, tanto valeva mettersi comodi.

Mi sdraiai sul letto fumando una sigaretta dietro l'altra in attesa di sentirla uscire.

Alle undici e mezza la sentii scendere, piano, le scale.
Aspettai qualche minuto prima di scendere, non la volevo spaventare.

Poco dopo scesi in cucina e non la trovai. Cazzo.
Due ore prima mi ero detto di non tentennare più, invece l'avevo fatto di nuovo e non sapevo dove cazzo fosse andata adesso.

Solo che continuava a darmi dello stalker quando la seguivo e non volevo sembrare un cagnolino che invadeva la sua privacy in continuazione.

Ispezionai tutto il piano di sotto, persino la biblioteca, ma non c'era.

Uscii fuori, guardai in giardino e mi diressi verso la spiaggetta privata come richiamato da una sorta di sesto senso.

Mi fermai su quei gradini di legno, era seduta sulla sabbia a guardare la luna riflettersi sul mare.

I capelli lunghi svolazzavano al vento e si abbracciava le ginocchia da sola.

Appena mi mossi per andare da lei, la sentii parlare rivolta al cielo.

Mi fermai.

"Sai, nonna, me lo sono chiesta tante volte del perché tu abbia deciso una cosa così strana per me.
E il giorno della mia laurea, e i giorni dopo, pensavo di aver trovato una risposta. Mi sentivo bene e mi sono ritrovata a pensare che io avevo bisogno di lui come lui aveva bisogno di me.
Poi però, il mio presentimento si è avverato, era tutto una bugia.
Io l'avevo capito subito, sai?
Eppure ho deciso di darti ascolto.
Non avrei mai deluso la tua ultima volontà, nonna.
Ho messo da parte la mia autodeterminazione, e forse ho sbagliato, forse non lo avresti voluto nemmeno tu.
Forse se tu fossi in vita, a vedermi così, a vedermi come sono stata in questi giorni, mi avresti suggerito di annullare tutto, di farcela da sola come ho sempre fatto.
Ci ho pensato anche io, ho riflettuto tante volte su come sarebbe stato recidere i ponti, di come mi sarei sentita più libera e coerente.
Poi però ho dato ascolto alla mia parte veniale, parte che non sapevo di avere, ho pensato che i suoi soldi mi avrebbero aiutato a studiare, che ero stanca di far quadrare i conti, di fare i doppi turni, di studiare di notte e di risvegliarmi la mattina dopo con il torcicollo per aver dormito sulla scrivania, prendere un caffè, andare a lezione e subito dopo di nuovo al lavoro.
Ti prometto che non sarà così per sempre, però, è solo un piccolo prestito. Quando avrò preso una laurea, quando avrò trovato il lavoro, chiederò il divorzio e rimetterò ogni singolo centesimo di ciò che ho usufruito.
Sì, insomma, sarò una piccola arrampicatrice sociale solo per due o tre anni al massimo, metterò da parte la mia coerenza per un po' e probabilmente non mi dovrò guardare allo specchio ma ti prometto che ce la farò, che volerò in alto come tu hai sempre sognato, anche se oggi mi sembra di non saper neanche stare in piedi.
Sicuramente non sognavi un matrimonio così per me, e ti chiedo scusa se per caso mi hai visto da lassù, ti chiedo scusa per aver messo da parte la coerenza, però forse dovresti chiedermi scusa anche tu, perché le tue previsioni non si sono avverate".

Quelle parole mi colpirono come un colpo di pistola.
Mi avevano fatto malissimo.

Mi girai e tornai in camera.

Mi odiava, non ne voleva sapere di me e si era sposata solo per avere i soldi per studiare.

Me lo ero meritato, questo era il karma che mi puniva per come mi ero comportato con le altre, ma diamine se faceva male.

L'unica donna che volessi davvero, l'unica che non aveva mai voluto i miei soldi, l'unica con cui mi sentivo me stesso, aveva appena ammesso che non aveva annullato il matrimonio perché voleva l'eredità.

Avrei potuto andare da lei, dirle che avevo sentito tutto, che non era una bugia quello che avevo provato ma la rispettavo e non l'avrei forzata a volermi.

Avrei sofferto come un cane ma me ne sarei fatto una ragione, lei era libera, e la sua scelta era stata quella di non volermi e io mi sarei comportato di conseguenza con il tacito accordo a me stesso di non aprirmi mai più in quel modo con nessuno.

Avrei potuto divorziare io, ma il solo pensiero di metterla in mezzo a una strada e rovinarle il sogno di farla studiare a Roma senza dover morire di lavoro, mi faceva ancora più male.

Se il mio destino era quello di essere un mero strumento per farla stare bene, lo sarei stato, ma non avrei retto vederla un secondo più.

Scrissi un biglietto sul tavolo della cucina in cui le dicevo che sarei tornato ad Amsterdam, che le chiavi lì sopra erano sue e che sarebbe potuta tornare alla villa quando voleva.

Nonostante sentissi qualcosa sgretolarsi ogni secondo di più dentro il petto, non riuscivo a non preoccuparmi per lei.

Scappai da quel posto prima di andare fuori di testa e sperai che il detto "lontano dagli occhi, lontano dal cuore" funzionasse davvero.

Il giorno seguente sollecitai l'avvocato per farle arrivare il prima possibile la sua parte di eredità.

Passai tutto il mese successivo a eludere le chiamate di mia mamma e a rispondere vago ai miei colleghi che mi chiedevano come mai fossi sempre in ufficio se ero sposato.

Tornavo a casa la sera distrutto, mangiavo qualche cosa d'asporto e avevo persino comprato delle caramelle omeopatiche per dormire.
La notte mi rigiravo sul letto per ore pensando a quel sorriso, quelle labbra, quelle gambe, quel profumo.
Avevo persino comprato una sorta di scatoletta in cui riponevo le sigarette appena dopo cena.
Se non ce le mettevo iniziava a urlare come un allarme e, una volta chiuso il coperchio, si impostava un timer che mi avrebbe permesso di prenderle sotto la mattina dopo.
Avevo decisamente esagerato e se non volevo veramente rovinarmi la salute ero dovuto ricorrere a quello stratagemma.

Mi stavo trasformando nell'ombra di me stesso e avevo bisogno di prendere di nuovo in mano la mia vita.

Chiamai Ilaria, sarei tornato da lei.

"Tesoro?" mi rispose, esterrefatta, al terzo squillo.

"Come stai?" esordii, per non rimanere zitto come un pesce lesso.

"Io tutto bene, tu come mai mi chiami? Non eri sposato?".

Stava iniziando a farmi domande anche lei.

"Lo sono" tagliai corto.

"Che cosa volevi dirmi?" chiese, curiosa.

"Quando sei libera?" buttai là senza pensarci troppo.

"Michele, ma se sei sposato..." iniziò a obiettare.

"Dimmi solo quando sei libera, se ti va" borbottai.

Mi sentivo una merda a fare una cosa simile, ma solo così mi sarebbe sembrato di rimettere tutto a posto. Ilaria rappresentava per me la mia vita precedente, la donna che avrei scelto se non avessi incontrato Sara, l'incarnazione del mio ideale di ragazza se non avessi sperimentato la bellezza di una relazione con una donna indipendente e forte. Tornare da lei era come salire su una macchina del tempo per buttarsi tra le braccia confortevoli di un passato che si conosce bene. 

"Anche il prossimo week end" mi rispose con voce di nuovo dolce.

Mi accontentava sempre.
Mi diceva sempre di sì.
Ogni mio desiderio era un ordine per lei.
La cosa mi faceva sentire al sicuro.

Ogni quindici giorni tornavo giù, vedere Ilaria mi faceva paradossalmente bene, mi sembrava di riprendere il controllo della mia vita dopo qualche mese in cui mi ero sentito allo sbando.

L'unica cosa che continuava a sfuggirmi dal controllo era lei, ma se non ci pensavo era okay. Stavo riprovando a mettere di nuovo insieme i pezzi della mia vita.

Ritornare a essere freddo, controllato, cinico mi faceva sentire invulnerabile e ne avevo decisamente bisogno.

L'avrei ricordata come una parentesi straordinaria della mia vita.
E probabilmente la più piacevole.


Pov Sara

Alla fine avevo pianto fino all'alba in spiaggia.
Mi sembrava di aver sentito il rumore della sua macchina andarsene ma non avevo intenzione di alzarmi per controllare, in quel preciso momento non avevo le forze nemmeno di respirare.

Ero sprofondata in una voragine cupa che sperai non mi inghiottisse.

All'alba rientrai e vidi quel bigliettino.

Rientrai nell'appartamento di Roma e poco dopo mi chiamò l'avvocato Ranieri, avevo un appuntamento la settimana prossima per ritirare le mie carte di credito e per farmi accreditare quindici milioni sul mio conto corrente.

Per fortuna c'erano le mie amiche, senza di loro sarei affondata nel buio.

Giulia si era iscritta a studi italianistici e Francesca a filologia.
Non averle a lezione con me mi avrebbe fatto strano, ma ero davvero fiera di loro.

Le due settimane seguenti al matrimonio, facevo almeno una decina di chilometri al giorno a piedi per non pensare, così poi la sera tornavo a casa stanca morta e mi mettevo a letto sperando di non sognarlo.

In compenso mi stava venendo un culo da paura con tutte quelle camminate. Francesca, scherzosamente, mi aveva detto che avevo la faccia della tristezza ma un culo che parlava. Mi aveva fatto ridere e gliene fui grata, avevo bisogno di leggerezza.

Entrare in Sapienza, sedermi in quell'aula, mi aveva fatto provare un brivido nonostante fossi apatica da un po' di giorni. Era un sogno che si avverava.
Per anni lo avevo tenuto sigillato nel cassetto visto che era un sogno proibito. Nemmeno mia nonna lo sapeva e ora era realtà; anche se tutto ciò mi aveva comportato una bella scottatura e il mettere da parte la mia autodeterminazione.

Io e le mie amiche riprendemmo la tradizione del sabato sera, girando per i quartieri e in tutte le discoteche più gettonate.
Avevo bisogno di una bella dose di divertimento.

Non lavorare mi sembrava un privilegio enorme, l'avevo fatto da quando avevo quattordici anni ed ero abituata a quella sensazione di stanchezza estrema la sera.
Adesso avevo molto più tempo per studiare, la sera potevo leggere un sacco di libri e guardare la TV senza sentire gli occhi pesanti, mi ci sarei potuta abituare.

C'era un ragazzo, anche molto carino, che mi faceva il filo dall'inizio delle lezioni in aula ma ero rimasta scottata abbastanza con Leonardo e Michele e non avevo la minima intenzione di legarmi, nemmeno per scopare, a qualcuno.
Il sabato sera, in discoteca, non volevo nemmeno sapere i nomi.
Al diavolo gli uomini, erano tutte persone di merda.

Dovevo tornare come ero sempre stata. Non avevo tempo per le relazioni, né avevo la testa per starci dietro.
Tutti quei problemi, prima di cascare in quella specie di trappola, non li avevo.

Anche se una botta e via in discoteca, per quanto potevano essere bravi, non era paragonabile a quello che avevamo fatto al lago, mi ritrovai ad ammettere a malincuore.

Ma, per quanto fosse stato bello, appagante, magico... non ne valeva la pena soffrire così.

A novembre decisi di portare le mie due amiche alla villa per fargliela vedere e scoprii, con disappunto, che avevo lasciato la finestra aperta e che l'acqua di questi mesi aveva decisamente rovinato l'intonaco sotto la finestra e il lato dell'armadio.

Sarei tornata lì per Natale e avrei messo a posto, mi sentivo decisamente in colpa. Non avrei permesso che una mia negligenza avesse rovinato una villa che sulla carta era mia ma che fra qualche anno sapevo che avrei restituito.

"Credo proprio di essermi messa in un bel casino" disse Francesca, tornando a casa un mercoledì sera.

"Che hai fatto?" le chiesi, allarmata.

Poteva davvero aver fatto di tutto, qualche volta era proprio matta.

"Mi sa che forse mi sono fidanzata".

"COSA?" urlammo io e Giulia, esterrefatte.

"Eh, me l'ha chiesto oggi e potrei aver detto di sì" disse lei, arrossendo.

"Ma chi è?" chiesi io, curiosa.

"Mattia" sospirò lei.

"E dove vi siete conosciuti tu e questo Mattia?" continuai.

"Fa il ricercatore nel mio dipartimento, lo incrociavo sempre alle macchinette a prendere il caffè" spiegò, un po' sbrigativa.

"E quindi è un topo da biblioteca" la punzecchiò Giulia.

"Un BEL topo da biblioteca" sottolineò, offesa, Francesca.

"E ce lo puoi far vedere? O è una cosa privata?" la presi in giro io.

Girò il telefono e ci fece vedere la foto di un bel ragazzo, moro e con un po' di barba, con gli occhiali e la camicia blu. Non era per niente male.

"E come vi siete avvicinati?" chiesi, curiosa.

"E niente, era sempre a prendere il caffè alle macchinette ogni volta che c'ero anche io, e bho, forse dopo un po' che mi guardava e stava sempre lì ho pensato che magari ci faceva apposta, e niente ho fatto finta di non avere spicci e mi sono fatta offrire un caffè" disse, ridendo.

"Sei impossibile" rise Giulia a sua volta.

"E poi abbiamo parlato, ha detto che mi aveva già vista prendere appunti a lezione e a studiare in biblioteca e abbiamo passato le pause pranzo insieme sempre" confessò, evitando il nostro sguardo.

"Ma da quando è che va avanti?" le domandai, un po' sorpresa che ce lo avesse nascosto, parlavamo di qualsiasi cosa.

"Bho, da ottobre" sospirò.

"E ce lo dici ora?" urlò Giulia.

"Ma non volevo creare falsi allarmi" disse, arrossendo per giustificarsi.

"E ora vi siete fidanzati" costatai.

"Sì, ci vedevamo anche dopo le mie lezioni per prendere un caffè e nell'ultima settimana potrebbe esserci scappato qualche bacio, oggi mi ha invitato a cena e me l'ha chiesto. Non so, mi piace e ci vorrei provare".

Era così carina innamorata.

L'abbracciammo commosse, non me l'aspettavo che fosse lei la prima a fidanzarsi, era decisamente la più festaiola.

"E quindi addio tradizione del sabato sera?" domandò Giulia

"Ma assolutamente no!
A ballare ci vengo ugualmente! Solo che magari vi guarderò dal divanetto mentre rimorchiate" disse, fintamente scioccata.

"Solo che... lo so che ti avevo detto di rimanere il giorno di Natale, ma mi sa che andiamo da qualche parte io e Mattia. Mi dispiace tanto Sara".

Anche Giulia sarebbe andata dai suoi.

Era il primo Natale che passavo da sola.

"Non ti preoccupare Francy! Sono contentissima per te! Divertitevi".

Ero davvero al settimo cielo per la mia amica, anche se mi sarei sentita un po' sola.

Decisi che sarei andata alla villa anche se vederla sotto Natale, forse, mi avrebbe fatto male. Mi avrebbe ricordato il momento in cui avevo deciso di sposarlo.

I giorni passavano, Francesca era sempre più cotta di Mattia e ce lo aveva persino fatto conoscere.
Era un cultore della filologia mediolatina, sapeva veramente un sacco di cose e lei lo guardava estasiata.

I primi esami si stavano avvicinando, sarebbero stati a gennaio e lo studio si stava facendo decisamente intenso. Mentre ero alla scrivania guardai verso la libreria che avevo vicino al letto, quell'orsacchiotto della perugina sembrava mi guardasse storto.
Me lo ero portato via da Perugia, poi avevo avuto il moto di buttarlo ma non ci ero riuscita, quel giorno in cui gli avevo lanciato l'acqua dal balcone era stato, probabilmente, il giorno in cui tutto aveva avuto inizio.

Che faccia tosta che aveva avuto.

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