2. Mamma×2
Pov Michele
"Ma sei matta?" sbraitai.
"Che cazzo ridi? Ti rendi conto di quello che hai fatto?" continuai a urlare, sentendo la risata cristallina dall'altro capo del telefono.
"Calmati, Mik! Non è successo niente! Siamo tutte intere" mi sentii rispondere da lei, che dal tono doveva avere uno di quei sorrisetti birichini che la contraddistinguevano quando faceva le cazzate.
"Calmati un cazzo! Ti rendi conto? Ti sei fatta sei ore di macchina da sola! Con questo cazzo di tempo! Cazzo, pioveva pure!" sbottai, passandomi una mano tra i capelli.
"C'era la nebbia" rincarò lei. "E nel mentre si era fatto pure buio" sghignazzò lei.
Urlai frustrato. "Tu mi farai morire d'infarto, lo sai?"
"La paura ringiovanisce, non vorrei mai che ti invecchiassi troppo" rise lei.
"Vaffanculo, ho trent'anni, cretina" sibilai.
"Che poi, mi potevi pure aspettare, ti avrei accompagnata e ci saremmo andati insieme" mi ammorbidii.
"Lo so, amore, ma lo dovevo fare da sola" sospirò lei.
"Mi manchi, quando ci vediamo?" continuò lei, facendomi finalmente sorridere.
"Venerdì pomeriggio, manca poco" sospirai, pregustando il momento in cui l'avrei presa tra le braccia.
Anzi, le avrei prese tra le braccia, perché erano due.
Dopo il primo momento di shock, avevo capito che non vedevo l'ora di avere un bambino con lei. L'idea di diventare papà, al suo fianco, iniziava a piacermi molto. Dopotutto, se amavo lei così tanto, come avrei fatto a non amare alla follia anche ciò che stava crescendo dentro la sua pancia?
★······★······★
Venerdì salii sull'aereo, dopo aver imprecato contro l'ennesimo tassista incompetente e dopo aver malamente insultato la scienza per non essere stata in grado di inventare il teletrasporto o gli aerei che volavano alla velocità della luce.
Stavo letteralmente facendo il conto alla rovescia, le videochiamate non bastavano più nemmeno a me ora che sapevo che fosse incinta.
All'aeroporto la presi tra le braccia appena in tempo, visto che mi era letteralmente saltata addosso.
"Hey, piano" bofonchiai, con il viso affondato tra i suoi capelli.
"Scusa" ridacchiò lei, staccandosi per baciarmi subito.
Mi lasciai andare in un bacio tenero. Il primo, all'aeroporto, aveva sempre un sapore diverso rispetto agli altri che ci scambiavamo a casa. Forse perché l'ultimo risaliva alla settimana precedente e la felicità che provavamo nel riunirci non aveva paragoni.
"Che mi hai comprato?" chiese lei, curiosa, tentando di sbirciare le buste che avevo in mano mentre uscivamo.
"Vi ho comprato, semmai" sottolineai.
"A chi?" domandò, confusa per un attimo.
"A te e a lei" dissi, accarezzando la pancia.
Sorrise. "Che ne sai che è una femmina?"
"Se non lo è, farò come il padre di Lady Oscar" spiegai, con un sorrisetto.
"Ma quello voleva un maschio perché era un fottuto maschilista" rise lei.
"Oddio, tu sei capace di affibbiare il maschilismo anche a un cartone animato ambientato nel '700" scoppiai a ridere.
In macchina aprì la busta più grande, trovando dentro la prima edizione a stampa dei Canti di Leopardi. L'avevo adocchiata in una libreria d'antiquariato in centro e non me l'ero fatta scappare. Come ci fosse finito Leopardi ad Amsterdam era stato un mistero anche per il venditore, che non era riuscito a darmi una risposta. Mi ero sentito un po' come un buon samaritano che riportava in patria un esule.
La guardai osservare estasiata quel libricino che ai miei occhi risultava un po' consunto e con le pagine ingiallite. Lei lo stava toccando come se fosse una reliquia da non sciupare.
Quell'espressione sognante, con un sorriso genuino e con lo stupore negli occhi, era talmente pura che avrei sempre fatto di tutto per vederla così. L'avevo pensato la prima volta al Vittoriale, quando girava per le stanze con il naso all'insù come una bambina di fronte a Disneyland. Adoravo sorprenderla, viziarla e vedere quanto fosse felice. Nonostante i soldi e i miei continui regali, non si era ancora abituata all'idea di poter avere tutto ciò che voleva e questa era la testimonianza di quanto fosse genuina e sincera.
Poi scartò anche l'altro pacchetto. "Posso dire che tecnicamente è mio anche questo, no? La sto ospitando io, per il momento" disse lei, con un sorriso divertito.
Risi. "Certo, direi che ancora non è in grado di scartare i miei regali".
Tirò fuori un body rosa, con l'inconfondibile orsetto di Moschino che spiccava al centro e, dietro, la scritta "Thanks, dad" in bianco, piccolina.
"La scritta l'ho fatta aggiungere io" dissi, gonfiando il petto, fiero per quell'acquisto.
"La tua arroganza e la tua megalomania non si smentiscono mai, noto con piacere" rise lei, rigirandosi il capo tra le mani.
"Ripeto: se è un maschio? Hai speso chissà quanti soldi inutilmente".
"Se è un maschio se lo metterà uguale, da quando il rosa è un colore da femmine?" la presi in contropiede, ripagandola con la sua stessa moneta femminista.
Mi guardò alzando un sopracciglio, sbalordita dalla mia risposta. "Giusto" riuscì solo a controbattere. Gongolai per averla zittita.
"Dovremmo dirlo ai tuoi, Mik" mi sentii dire a un passo da casa.
Alzai gli occhi al cielo, sbuffando, con un espressione eloquente in volto. Nonostante il discorso di mio padre che avevo apprezzato, non ero riuscito a perdonare mia mamma e l'idea di poterle fare un dispetto mi faceva sentire meglio.
"Sì, glielo dobbiamo dire per forza" mi anticipò lei, leggendo probabilmente fra le righe la domanda che mi sarebbe sorta spontanea.
"Allora glielo diciamo a modo mio, vuoi vedere come la metto in crisi?" sorrisi appena mi si prospettò alla mente un'idea diabolica.
"Cioè?" mi chiese lei.
"Tu vestiti per bene, al resto ci penso io".
"Vestiti per bene è un parolone, tre quarti del mio armadio non mi entra già più" bofonchiò lei.
La osservai infilarsi un paio di pantaloni argentati, imprecando contro il bottone che si chiudeva male e lamentandosi del fatto che fossero talmente osceni da non sapere perché li avesse comprati.
Le chiesi come mai se li stesse infilando se li riteneva così brutti, ma come risposta ottenni un grugnito incazzato che doveva stare a significare che erano gli unici pantaloni similmente eleganti che le entravano e che non poteva venire a cena con i leggins. Scoppiai a ridere, guadagnandomi un'occhiataccia. Alla fine infilò un maglioncino nero, attillato e i tacchi alti, per completare il look con un cappotto nero.
"Sono impresentabile? Dimmi la verità" disse lei.
"Sei magnifica" dissi, guardandola adorante.
"Mi prendi per il culo" bofonchiò lei, guardandosi allo specchio.
"Giuro, questi pantaloni starebbero di merda a chiunque e non nego che da soli erano abbastanza appariscenti, ma abbinati così ti stanno benissimo, sei spettacolare" dissi, prendendola per i fianchi e accarezzando la pancia che iniziava a vedersi. Se possibile, quella leggera protuberanza la rendeva ancora più bella e femminile.
Comprammo un body anonimo con una generica scritta su quanto i nonni lo amassero e ci dirigemmo verso la villa dei miei genitori.
"Ma quando li hai avvertiti?" mi chiese lei, a un certo punto.
Feci un sorriso malefico, ghignando.
"Michele, sei veramente un fottuto stronzo!" mi insultò, facendomi ridere fino alle lacrime.
"Non rovinarmi il divertimento, vuoi mettere piombargli a casa e suonare il campanello senza che ci aspettino? Sicuro va in iperventilazione" le illustrai io.
"Appunto! Non è come i genitori normali che basta suonare per essere accolti, lei si aspetta il preavviso e tu stai veramente facendo il bambino viziato! Cristo, è tua madre".
"No, è una rompicoglioni" sottolineai.
"Michele! E dai, chiamala adesso, almeno" mi disse, guardandomi di traverso.
Ma sì, dopotutto eravamo a cinque minuti da casa, l'idea di farla andare in escandescenza, cercando di architettare qualcosa di perfetto in cinque minuti per salvare le apparenze, mi piaceva.
"Mamma! Ciao, come stai?" esordii al telefono, con il Bluetooth in macchina.
"Tesoro! Tutto bene, sono contentissima di sentirti" mi disse lei con voce squillante, ignorando la bomba che le avrei sganciato.
"Senti, siamo praticamente dietro casa vostra e abbiamo fame, possiamo fermarci a cena da voi? Così stiamo un po' insieme" le proposi, con una voce talmente mielosa che mi beccai la tipica gomitata sul fianco che mi rifilava quando facevo lo stronzo, secondo lei.
Dall'altro capo del telefono sentii un silenzio improvviso. Potevo quasi percepire le rotelle del suo cervello girare alla ricerca di qualcosa da dire per ritardare il nostro arrivo e non farsi trovare impreparata. La conoscevo fin troppo bene, quando aveva ospiti a cena ci metteva giorni a preparare la casa, stando con il fiato sul collo alle donne di servizio. Fossi stato da solo non si sarebbe preoccupata così tanto, ma ero in dolce compagnia e l'idea di non avere tutto perfettamente sotto controllo la stava sicuramente mandando fuori di testa.
"Quindi disturbiamo?" la pungolai.
"Ma no, assolutamente, tesoro. Fra quanto siete qui?" mi chiese, frenetica.
"Cinque minuti, siamo praticamente sul vialetto di casa" sogghignai.
"Prima o poi mi metterà il veleno nel piatto, per colpa tua" la sentii lamentarsi.
Cinque minuti dopo parcheggiai la macchina e uscimmo.
Mia mamma, visibilmente agitata, ci stava aspettando sull'ingresso, mentre papà aveva un sorrisetto sornione che tentava di mascherare ma che io prontamente ricambiai. Aveva capito lo scherzo, probabilmente.
"Quanto ha urlato?" gli chiesi sottovoce, mentre lei aveva preso a braccetto Sara.
"Oh, non immagini... sono stati i cinque minuti peggiori della mia vita e di quella del cuoco. Per fortuna che io ho sviluppato il superpotere di non ascoltarla".
Ci accomodammo in salone, davanti al camino acceso.
"Questo lo aprite dopo cena" esclamai, posizionando il pacchettino sul mobile bar.
Chiacchierammo del più e del meno, finché non ci accomodammo al tavolo.
Notavo gli sguardi di mia madre ai calici insolitamente vuoti di Sara. Di solito, anche solo per buona educazione, il vino si assaggiava. Chissà cosa stava pensando.
Arrivò il secondo, un petto d'anatra con una salsa fin troppo elaborata. Notai Sara giocherellare con il cibo sul piatto, dopo averne assaggiato un solo boccone probabilmente per cortesia.
Mi allungai verso di lei, chinandomi per non farmi sentire: "Ti dà la nausea?".
Annuì semplicemente, arrossendo un po'. Sapevo quanto la mettesse in soggezione la presenza di mia madre, quindi le tenni la mano tutto il tempo. Il mio senso di protezione era accresciuto smisuratamente, perché ora erano due le persone che amavo con tutto il mio cuore... e poi lei era diventata più fragile, e questo mi faceva sentire in dovere di essere ancora più attento. Sapevo quanto ancora ci tenesse alla sua indipendenza, ma ora era diverso.
"Non ti piace?" le chiese mia madre.
"Sono veramente piena; ti ringrazio, Agnese" rispose lei, con un sorriso di circostanza.
Solo che poi mangiò con gusto il dolce, beccandosi un'occhiataccia da mamma. Probabilmente era scandaloso che una donna mangiasse così, senza troppe paranoie, una porzione di torta al cioccolato alla sera.
"Potete aprire il regalo" esordii, portandomi Sara a sedere sulle mie gambe. Con una mano circondai la sua pancia, in un gesto che mi veniva sempre di più istintivo.
I miei genitori aprirono il sacchetto. Papà aveva la fronte corrucciata.
"Oh cielo!" esordì lei con voce strozzata, lasciando che l'involucro cadesse rovinosamente a terra.
Tra le sue mani una tutina bianco-panna, talmente minuscola da farmi sentire l'uomo più felice dell'universo.
"Michele?" balbettò mio padre, afferrando da terra la foto dell'ecografia.
"Siete diventati ufficialmente nonni" riuscì a dire io.
Mia madre era collassata con la schiena appoggiata sul divano, abbandonando la sua consueta posa rigida. Aveva gli occhi spalancati dallo stupore e stringeva tra le mani tremanti il tessuto della tutina, guardandolo intensamente.
"Agnese, stai bene?" si premurò mio padre.
Vidi un sorriso sincero comparire sulle sue labbra, un sorriso che non avevo mai visto, un sorriso che le illuminava il volto, scaldando il suo portamento algido e rendendola una bella donna, solare e materna.
Poi i suoi occhi leggermente truccati si velarono di lacrime, che scivolarono via sulla guancia ma che lei portò via rapidamente con il dito mentre continuava a stringere quel vestitino da neonato.
"Mamma? Sei sicura che sia tutto okay?" chiesi io, sorridendo sincero.
"Ragazzi... non me lo aspettavo" sussurrò, alzandosi di scatto, sempre con quell'indumento che non accennava a lasciare. Come se, lasciandolo, la magia potesse scomparire.
Si precipitò verso Sara, che allungò la mano con fare cordiale. Agnese, però, ignorò il gesto e la strinse a sé, in un abbraccio talmente forte e scomposto da lasciare me, mio padre e Sara senza fiato.
"Congratulazioni, tesoro! Davvero, tantissimi auguri! Oh, sono così felice" sussurrò, stringendola tra le braccia. Era un abbraccio sincero, privo di ogni forma di apparenza.
Poi abbracciò pure me, donandomi il primo abbraccio sincero che avessi mai ricevuto da lei da quando ne avevo memoria. Mi lasciai andare tra le sue braccia, lasciando che il rancore venisse spazzato via da quel sentimento sincero che era stato in grado di scaldare persino Agnese. Era un abbraccio materno, caldo, sicuro, felice. "Mamma" sussurrai, senza parole.
"Tesoro! Congratulazioni anche a te" disse.
Poi strinse di nuovo Sara, tirandola ancora in un abbraccio che assomigliava a una morsa.
"Quando sarà il termine?" ci chiese, poi.
"I primi di settembre" rispose Sara.
"Adesso capisco come mai non hai bevuto e perché non hai mangiato l'anatra! Oh, tesoro... se solo lo avessi saputo" continuò lei, in un discorso talmente mieloso da non sembrare nemmeno appartenere a mia mamma.
"Davvero, se in questi giorni hai bisogno di qualcosa ci puoi chiamare, vero, Riccardo? Quando Michele non c'è non farti problemi! Puoi venire quando vuoi, mi raccomando" esordì, dandole in mano un bigliettino che aveva recuperato in fretta da un cassetto.
"Grazie, Agnese, è molto gentile da parte tu..."
"Ci mancherebbe, tesoro! Basta uno squillo, sei la benvenuta, lo sai!" sottolineò con voce squillante, tenendole le mani con fare cordiale.
Io e mio padre ci guardavamo interdetti. Era mia madre quella?
Dopo una serata passata tra grida di giubilo di mia mamma, interessata a ogni dettaglio, ce ne andammo con in mano l'intera teglia di torta al cioccolato.
"Mi ha abbracciato" esordì Sara, in macchina, ancora sotto shock per quella manifestazione d'affetto.
"Non me lo dire, sono più esterrefatto di te" bofonchiai.
"Mi ha chiamato tesoro" sottolineò lei. "E ha detto che posso chiamarla e che sono la benvenuta" mi guardò con occhi spalancati.
"E ce ne stiamo andando con un'intera teglia di torta al cioccolato. Cosa che mia madre non ha mai fatto in trent'anni" aggiunsi, aggrottando le sopracciglia.
"Me lo potevi dire che bastava farmi ingravidare per entrare nelle grazie di tua madre, mi sarei fatta mettere incinta il giorno del matrimonio" disse, ridendo.
Scoppiai a ridere pure io. "Con la sfiga che mi porto dietro, appena mi lascio andare mi incastrano con un figlio, quindi sì, avrei dovuto scoparti al Vittoriale, così ci saremmo portati avanti".
Rise pure lei, dandomi un colpetto sulla spalla.
"Io non ti ho incastrato" mise il broncio, trattenendosi dal ridere.
"No, ma la prima volta che ho finito dentro sei rimasta incinta" sottolineai.
"Stai contento, sei l'uomo più fertile del paese" rise lei.
"Se non troverò nessun altro lavoro, farò il donatore di sperma" scherzai.
"Sei matto? Te li immagini una popolazione di miniMichele? Non credo si possa fare".
"Sarebbe il paese geneticamente perfetto" ribattei, facendole l'occhiolino.
"Per poi nonnificare tutte le madri stronze d'Italia?" continuò lei.
"Per quello basta la mia, un solo miracolo è sufficiente. Se ne sapessi fare di più, dovrei chiedere l'avanzamento di grado in paradiso" scherzai.
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