15. Non sono la tua bimba

Pov Sara

Un giorno di metà aprile mi aveva chiamato dicendo che sarebbe partito per un tour di due mesi a Dubai e che si sarebbe fatto sentire lui quando non era impegnato.

Soltanto che le ultime parole che avevo sentito da lui era un ciao, bimba prima di riattaccare il telefono.

I due mesi erano passati e ne mancavano solo tre al matrimonio e non sapevo se fosse vivo o morto.

Che ne so, magari lo avevano rapito gli alieni a Dubai, visto che non si era fatto minimamente sentire.

Ero abituata al fatto che mandasse pochi messaggi e che non telefonasse mai, dopotutto perché avrebbe dovuto farlo... non stavamo insieme. Non sul serio, almeno.
Ma almeno un "Hey, sono vivo, tutto okay, ho solo da fare" poteva anche degnarsi di scrivermelo.

In questi due mesi io avevo fatto una miriade di cose. Avevo completamente finito la mia tesi, il professore aveva apprezzato il lavoro di trascrizione delle oltre duecento pagine di manoscritto e avevo scritto il mio elaborato di quaranta pagine che avrei discusso durante la laurea.
Il pezzo che avevo avuto tra le mani era una fonte inedita scritta dalla figlia di un partigiano.
Il professore mi aveva detto che, se avessi avuto la possibilità economica, e se mi fossi sposata l'avrei avuta, avrei dovuto pubblicare quel commento e quella trascrizione perché si sarebbero rivelati davvero utili per la ricerca storica della seconda guerra mondiale al femminile.

Ero molto fiera del mio lavoro, ci avevo passato intere nottate sveglia ma ne era valsa la pena.

Nel frattempo avevo preparato l'esame di letteratura latina medievale, un malloppo di cinquecento pagine con oltre mille autori e un testo monografico di dieci pagine da tradurre dal latino medievale all'italiano.
Avrei avuto l'ultimo esame i primi di luglio e mancavano poco più di quindici giorni.

Il mio cervello, impegnato per tutto quel periodo, era improvvisamente libero di pensare e mi stavo rendendo conto che non mi aveva scritto nemmeno mezzo messaggio.

E soprattutto, i due mesi erano ampiamente passati.

Ogni tanto l'avevo pensato. Vedermelo comparire dietro senza avvisare era una piacevole scocciatura a cui mi ero, forse, abituata.

Quando avevo preso un bel temporale di fine maggio in pieno mentre tornavo a casa a piedi, avevo un po' sperato, irrazionalmente, che quella dannata Bentley arrivasse come l'altra volta.
Ma era dall'altra parte del mondo.

Mentre studiavo, spesso, mi cadeva l'occhio su quell'orsacchiotto bianco della perugina e mi veniva da sorridere.
E quando prendevo appunti a lezione, o sottolineavo il libro con l'evidenziatore, quel diamante al dito brillava un po' troppo e finivo per ripensare a quando lo avevamo comprato.
Ero palesemente a disagio in gioielleria quel giorno, ero circondata da oggetti che, nella migliore delle ipotesi, costavano quanto la mia macchina usata.
Il modo in cui aveva chiesto alla commessa di lasciarci da soli e come mi aveva sussurrato che potevo scegliere quello che volevo mi aveva fatta sentire al sicuro.
Ed era stata una bella sensazione.

Chissà cosa stava facendo.

È un colpo grosso, bimba.

Quelle parole mi risuonavano in testa.
Comprendevo le sue responsabilità, anche se non mi aveva minimamente detto quale fosse il suo lavoro, ma non credevo che fosse un colpo così tanto grosso da non riuscire neanche a mandare un messaggio in due mesi.

I giorni seguenti fui tentata di scrivere io ma mi aveva detto espressamente che si sarebbe fatto sentire lui quando avrebbe avuto tempo.

Non lo volevo disturbare.
Magari era in riunione.
O stava lavorando e un messaggio sarebbe stato inopportuno.
Magari gli arabi erano molto più fiscali su queste cose e per via di una stupida notifica gli avrei fatto saltare l'affare.

Non me l'ero mai presa così tanto per un po' di silenzio.
Di solito quando non mi scrivevano ringraziavo il cielo.

Ma ormai avevo capito che con lui era diverso.
Con lui scherzavo, parlavo, flirtavo e non ci avevo ancora fatto niente a livello fisico anche se l'eros tra noi due era alle stelle anche dopo una semplice chiamata.

L'avevo percepito in aeroporto che aveva tagliato corto la conversazione perché era su di giri, e io per provocarlo avevo pronunciato il suo nome accarezzandolo con la lingua come se fosse la cosa più sensuale del mondo.

E nel momento in cui l'avevo fatto, mi ero resa conto che mi piacesse da morire come suonava.

Michele.

Aprivo la chat e puntualmente la richiudevo, i due mesi erano finiti o stavano per finire ed ero sicura che mi avesse scritto lui.

O almeno, cercavo di convincermi che lo avrebbe fatto.

La sera mi ritrovavo a pensarci un po' troppo e quel sentimento era decisamente strano per me.

Il ventinove giugno, però, mi resi conto che probabilmente non lo avrebbe fatto.

Mi sentivo una stupida.

Era ovvio che non mi avrebbe scritto. Aveva raggiunto il suo obiettivo, cioè quello di sposarmi.

La consapevolezza mi piombò addosso come un fulmine a ciel sereno.

Era solo stato un opportunista.
E io una cretina.

Gli dovevo riconoscere, però, che era stato un bravo attore.
Ci ero cascata in pieno.

Il matrimonio era organizzato e per quale motivo avrebbe dovuto farsi sentire?

Probabilmente il tour a Dubai era una scusa per non sentirmi ed essere giustificato.

Volevo almeno sapere se fosse vivo e come mi avrebbe risposto.

Giusto per fargli sapere che ero una stupida, ma non così tanto da prendere l'umiliazione e starmene in silenzio.

Indugiai sul telefono tutto il giorno e, alla fine, mi rifugiai tra le braccia delle mie migliore amiche per chiedere conforto.

Avevo un po' accennato di quei pensieri ma alla fine avevo liquidato la cosa, non volevo ammettere neanche a loro di averci pensato così tanto ultimamente.

"Tesoro, credo tu ti stia facendo paranoie, da come ti guarda non credo che sia il tipo da fare una cosa simile" mi consolò Giulia.

Affondai il cucchiaio nella vaschetta di gelato alla crema che stava quasi per finire e mi sentii ancora più stupida. Probabilmente era il preciclo, mi giustificai mentalmente.

"Eppure sono due mesi e mezzo che non si è fatto sentire" dissi, mettendo il broncio.

L'avevo presa proprio male.

Forse era il mio ego ferito.

"Anche tu ti sei divertita con Leonardo in questi mesi.
Il vostro rapporto è così, magari ha avuto da fare sul serio e ti chiamerà a breve" rincarò la dose Francesca.

Ripensai a Leonardo.
Dopo la scenata di gelosia che mi aveva fatto quando lui aveva tentato di metterlo sotto, era diventato ancora più appiccicoso.
La prima settimana mi aveva portato il muso, poi si era sciolto e ogni singola mattina che avevo lezioni in università, finivamo a fare sconcezze nei bagni.

Il sabato sera avevo continuato a uscire per continuare la tradizione con le amiche e il divertimento non era mancato, a nessuna delle tre. Qualche volta ci eravamo lasciate andare un po' troppo, osando anche qualche esperienza di gruppo, che a quei maschietti era piaciuta decisamente... probabilmente andava oltre la loro immaginazione più proibita.

Realizzai che il divertimento non mi era mancato, che avevo quasi raggiunto il mio obiettivo, che il matrimonio mi avrebbe dato abbastanza soldi per volare in alto con le mie capacità... al diavolo se non si era fatto sentire, pensai.

Il vostro rapporto è così.

Io e lui avevamo un rapporto?
Non lo sapevo.

Io mi ero divertita, e anche lui poteva farlo, e presumibilmente l'aveva fatto.
Anche lui aveva una scopamica, Ilaria.
Come io avevo Leonardo.
Ma pensavo che ci fosse, ormai, un tacito accordo in cui ci saremmo sentiti comunque.
Come amici.
Amici che si sarebbero sposati.
Amici che, se si fossero abbandonati alla passione, avrebbero fatto scintille a letto.
Degli amici un po' strani, ma mi ero abituata a quella presenza e quando era scomparsa, me ne ero accorta.

Poi, però, a mezzanotte, da sola, sul mio letto, mi ritrovai a girarmi e rigirarmi pensando a quello che stesse facendo dall'altra parte del mondo.

Aprii il cellulare e scorsi per l'ennesima volta la chat.
Come stai?
Non mi provocare, bimba
Ieri eri una bellissima bimba.
Ci vediamo quando torno giù.
Dove sei?
Non muoverti, piove, ti vengo a prendere.

Cliccai sulla sua immagine profilo, quel completo, la sigaretta e quel sorriso mi piacevano da matti, mi ritrovai a pensare.

Subito dopo mi diedi mentalmente della stupida.

Poi, però, mi passarono davanti tutte le immagini in cui l'eros tra noi due era stato alle stelle.

Io che gli dormivo spiaccicata addosso sul divano nella villa che sarebbe stata nostra;
lui che mi guardava affamato a Halloween;
quando mi aveva dato il suo cappotto, sfiorandomi, a Capodanno;
il bacio sulla guancia e la foto che gli avevo inviato a San Valentino.

Quelle battute mi mancavano, quell'eros palpabile tra noi due mi mancava.

Mi ritrovai a schiacciare l'icona del telefono senza pensarci e selezionai il suo contatto senza rendermi conto dell'orario, decisamente discutibile.

Al quinto squillo ero tentata di riattaccare, magari dormiva e io avevo fatto una figuraccia colossale.

Appena alzai il dito per chiudere la telefonata, sentii la sua voce roca rispondermi abbastanza sorpresa: "Sara" mi apostrofò.

"Volevo solo sapere se fossi vivo o morto" mi uscì, involontario, dalla bocca.

Sentii in sottofondo una voce dolcissima di donna dirgli in inglese:
"Habibi, con chi parli?".

Ah ecco perché non si era fatto sentire.

Allontanò un attimo il telefono e sentii bisbigliare: "Anaan, ti spiego dopo".

Ero tentata di riattaccargli in faccia.

Che razza di maleducato era?

Avrebbe potuto non rispondermi se era in compagnia.

Sentii dei fruscii strani e lui rispondermi affannato:
"Hey, eccomi, ci sono".

"Ti ho disturbato, eri in dolce compagnia" mi uscì tagliente dalla bocca.

"Non ero in..." tentò di rispondermi ma lo stoppai bruscamente.

"Spero solo di non averti interrotto" replicai dura.

"Non mi hai interrotto" sospirò.

"Dalla voce con cui mi hai risposto pensavo di sì, ma non ti preoccupare, volevo solo sapere se fossi vivo o meno, non ti sento da quasi tre mesi" sputai acida.

Andasse all'inferno.

"Bimba, mi dispiace... ho avuto da fare sul serio, e poi nemmeno tu mi hai mandato niente" tentò di giustificarsi.

Patetico.

"Immagino tu abbia avuto da fare" replicai, alludendo alla voce di donna che avevo sentito.

"E poi mi avevi detto che ti saresti fatto sentire tu e ho rispettato il tuo volere" dissi dura.

Lo sentii sospirare al telefono.

Fanculo.

Che pezzo di merda.

"Ah, Michele?" dissi con voce fintamente dolce.

"Sì?" mi rispose lui, speranzoso.

"Non sono la tua bimba" e riattaccai.

Che farabutto.

Non avevo mai subito un'umiliazione del genere.

Mi aveva risposto e dalla voce che aveva doveva aver appena finito di scopare con quella lì.

Mi aveva risposto mentre aveva un'altra in stanza.

E poi ero io a dovermi subire le sue scenate di gelosia?

Io almeno non mi sarei azzardata a rispondere al telefono se trenta secondi prima stavo copulando con Leonardo e lo avevo nella stessa stanza, avrei avuto la decenza di richiamare dopo.

Certo che non si era fatto sentire in quei mesi, aveva trovato un nuovo giocattolino. Giocattolino che, probabilmente, gliel'aveva data subito rispettando esattamente lo stereotipo che lui voleva nelle donne.

Tanto ormai il matrimonio era stato organizzato, che gliene importava di continuare a chiamarmi?

Gliel'avevo data vinta.

Per un secondo fui tentata di scrivergli che annullavo il matrimonio.

Poi pensai che non mi sarei privata dei miei sogni perché lui era un grandissimo pezzo di merda.

Poteva andare all'inferno, non avrei più voluto vederlo, con me aveva chiuso.

Non mi facevo trattare così da un figlio di papà viziato.

Pov Michele

Erano le tre di notte e avevo appena finito di fare una sessione abbastanza infuocata tra le lenzuola della suite.

Era la terza in tutta la serata e mi ero decisamente stancato.

Sentii squillare il mio telefono sul comodino, di solito lo mettevo in silenzioso.

Afferrai l'iPhone abbastanza stizzito e quando lessi il nome Sara sullo schermo mi arrivò una doccia ghiacciata addosso.

Ero ripiombato nella realtà da cui tentavo di fuggire da due mesi o forse tre.

Sperai che Anaan non rientrasse ora, era in bagno a lavarsi, e risposi con voce roca.

In quel dannato momento rientrò anche lei, con un telo da bagno avvolto intorno al corpo e i capelli gocciolanti lungo le spalle.

Mi chiamò con quel nomignolo che mi dava da un po', habibi, che avevo appreso significasse il mio amato.

Pensai di meritarmelo, mi ero ficcato in quella situazione da solo.

Bofonchiai ad Anaan che le avrei spiegato dopo e, infilando velocemente le mutande e afferrando le sigarette, mi diressi in terrazzo.

Che situazione di merda.

Mentre con una mano tenevo il telefono all'orecchio con l'altra accesi la sigaretta.

In questo dannato posto vendevano solo Camel light, mi mancavano le mie Marlboro e realizzai che avrei dovuto farmene fuori due pacchetti per affrontare lo tsunami che mi stava arrivando addosso.

E invece non l'avevo mai sentita così acida e così calma.

Ero pronto a una scarica di rabbia, tipo quelle che mi aveva lanciato contro le prime volte e a Natale, invece era così velenosamente calma che non mi lasciò neanche il fiato di risponderle.

Ma la cosa che mi aveva fatto più male era il modo in cui mi aveva riattaccato in faccia.

Con tono dolce e altrettanto finto mi aveva detto che non era la mia bimba.

Nonostante fosse decisamente piccata mi era venuto spontaneo chiamarla così.

Bimba.
Che cazzo avevo pensato di fare?
Che evitandola per tre mesi me la sarei tolta dalla testa?

Ero un deficiente.
Un cretino.
Un coglione.
E anche decisamente uno stronzo, pensai.

Per tre mesi mi ero beato in quest'oasi e mi ero divertito con Anaan, dimenticando lei.
Almeno apparentemente.
Ignoravo, però, che non me la sarei mai tolta definitivamente dalla testa.

Appena avevo risentito quella voce, anche se era delusa e incazzata, mi erano piombate addosso tutte le emozioni che mi scaturiva e che io avevo tentato di reprimere non sentendola e provando a dimenticarla con Anaan.

Tirai fuori un'altra sigaretta e iniziai a passeggiare come un leone ingabbiato sul terrazzino.

Avevo una frustrazione senza precedenti in corpo.

Che cosa avevo pensato di fare non chiamandola?

Era così terribile non avere il controllo quando ce l'avevo accanto?

Dovevo per forza reprimere quello che provavo in nome di uno stereotipo di donna che mi portavo addosso da quando avevo sei anni?

E se al posto della principessina immacolata mi stesse facendo perdere la testa una bimba tutto pepe?

Era quello il problema?

Non volevo cedere al cambiamento e mi ero rifugiato in Anaan, molto più soft di Sara e un po' più sfacciata di Ilaria.

Avevo avuto paura e ora ne subivo le conseguenze.

Conseguenze che rischiavano di essere disastrose.
Il solo pensiero che mi avesse mandato definitivamente a fanculo mi faceva perdere la testa.

Mi sarei preso a schiaffi da solo per quel discorsetto e quell'idea del cazzo che mi era venuta tre mesi fa.

Non cederle il potere, non la conosci, non ti fidare, ti potrebbe fare male.

Più male di così?
Più male di sentirla incazzata nera?
Il potere glielo avevo già ceduto, solo il fatto che dovessi ricordarmi di non darglielo significava che lo avessi già fatto.
E il mio autocontrollo era già andato a farsi fottere.
Bastava pensare che, nonostante non l'avessi sentita da mesi, mi era venuto spontaneo chiamarla bimba anche se era decisamente incazzata con me.
E le emozioni che avevo provato a sentire quella voce erano le stesse che avevo provato al gate.
Non era cambiato niente, avevo solo messo in pausa la mia vita per tre mesi mettendomi in un bel casino.
Avevo semplicemente messo la testa sotto la sabbia per non pensarci.
Per paura di essere veramente fottuto.
Ma non mi sarei potuto nascondere per sempre.
Dovevo affrontare la cosa.

Come cazzo l'avrei risolta?

"Habibi" sentii dirmi.
Ringhiai sentendo quel nome, ero nella merda fino al collo.

"Era tua moglie?" mi disse, indicando l'anello che non avevo mai tolto.

Ecco, altro segnale palese che non me la sarei mai potuta togliere dalla mente con tre mesi di stop.

Lasciai andare la rabbia, non potevo prendermela con lei se il coglione ero io.

Sospirai sedendomi sulla sedia, tenni la sigaretta in bocca e mi misi le mani tra i capelli, disperato.

"Non ancora, e non so nemmeno se lo sarà mai" sospirai, realizzando che avrebbe anche potuto annullare il matrimonio.

Ma non me ne fregava un cazzo dei soldi, morivo solo al pensiero di sapere che non avrebbe portato più quel diamante al dito.

Al diavolo i trenta milioni.
Doveva essere mia pure se fossi stato un poveraccio.

"Era la tua ragazza, quindi".

"Sì, era probabilmente" sottolineai, sconsolato, quel verbo al passato.

"Non sapevo che i cristiani fossero poligami" notò lei.

"Non lo siamo infatti" sospirai.

"E perché facevi sesso con me?" chiese curiosa.

"Anche lei fa sesso con altri, siamo una coppia strana" provai a spiegare.

"E lei non ti è mancata a letto?".

"Non facciamo sesso io e lei".

Mi resi conto che a parlarne ad alta voce era una gran bella situazione di merda.

"È strano, mi sembrava gelosa" replicò Anaan.

Gelosa?
Era gelosia quell'acidità che avevo sentito?
Iniziai a gongolare.

Allora non ero io l'unico a starci sotto come un ragazzino.

Le raccontai di come ci eravamo conosciuti, di come flirtavamo, di quello che provavo per lei.

Del fatto che quando stavo con lei mi sentivo su un altro pianeta, che aveva una mente talmente brillante da tenermi incollato alla chat quando mi scriveva, che le sue battute erano così sfrontate e acute che mi facevo quattrocento chilometri in macchina solo per sentirle una mezz'oretta.

Per non parlare di quegli occhi, talmente verdi che potevano fare a gara con le pietre preziose.
Quando mi guardava mi sentivo sciogliere.
Quando me li piantava in faccia avrei potuto fare qualsiasi cosa mi avesse chiesto, le avevo persino fatto guidare la mia macchina.
E quei capelli lunghissimi, color miele, che non avevo mai toccato ma che dovevano essere morbidi e profumati.
E le labbra rosse e piene che sognavo in continuazione... avevo sentito la morbidezza solo quando mi aveva dato un leggero bacio sulla guancia e da quel giorno bramavo di averne molto di più.
Il collo lungo e femminile, le mani sottili e curate, la schiena flessuosa, il seno alto e grosso, il punto vita strettissimo e quelle gambe.
Dio, quelle gambe mi avrebbero mandato al manicomio. Erano lunghissime e sensuali da morire.

Era perfetta.

Stavo ammettendo a voce alta di fronte a qualcuno l'effetto che mi faceva.

Di Anaan potevo fidarmi.

E poi le confessai della paura che avevo avuto, del fatto che ero abituato a donne accondiscendenti e meno brillanti, a donne che dicessero sempre di sì e che non volessero l'indipendenza.
A donne che avrebbero fatto di tutto per avere un posto nella mia famiglia, e io avrei potuto controllarle grazie a quel potere economico.
Potere che su di lei non aveva appeal.
Non potevo controllarla.
E mi ero spaventato.
Perché lei controllava me.
Ed ero sparito, come un vigliacco.

"L'ho persa, vero?" le chiesi conferma con l'umore sotto le scarpe.

"Beh, non ti sei comportato benissimo" mi rimproverò lei, "ma ti ha chiamato, dopo tre mesi, per sapere se fossi vivo, alle tre di notte... forse hai ancora una speranza".

Messa sotto questo punto di vista non era così male la situazione.

"Ma ha sentito che c'eri tu" piagnucolai.

"Anche lei, mi hai detto, ha avuto altri, ti perdonerà se ti sai far perdonare".

"Questo sarà un bel problema" sospirai, "non l'ho mai sentita così calma, era proprio delusa" piagnucolai di nuovo.

Ero letteralmente disperato.

Il pensiero di perderla mi uccideva.

"Innanzitutto non risolverai la cosa né stando qui a piangerti addosso né a parlare con me.
Prendi l'aereo e vattela a riprendere".

La guardai scioccato, aveva ragione.

Presi il telefono e prenotai il primo volo, che sarebbe stato fra quattro ore.

"Anaan... grazie" dissi, guardandola sincero.

"Quando vi sposerete?" domandò.

"Il quindici settembre".
Sperai che non saltasse.

"Mancano due mesi e mezzo" costatò lei.

Poi mi chiese come si chiamasse.
"Sara" risposi sospirando, quel nome era stato la mia condanna.

"Pregherò per voi, mashallah".

"Grazie per l'incoraggiamento, Anaan".

"Sei stato un buon amico, Michele".

Preparai la valigia in fretta e con un taxi mi diressi spedito all'aeroporto.

Feci scalo ad Amsterdam, sarei andato da lei in macchina, guidare mi avrebbe schiarito le idee.

E poi, se fosse servito, mi sarei fermato qualche giorno a Perugia.

Non sarei ripartito finché non avrei messo a posto quel casino che avevo combinato.

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