Capitolo XXVIII
Dopo la bella notizia che aveva portato Sebastian, il rapporto tra Heath e Joyce era mutato di nuovo.
Lei non riusciva a capirne davvero il motivo, ma era felice di poter tornare a parlare con lui, a giocare a carte e a scambiarsi qualche frecciatina sarcastica.
Credeva che l'ennesimo cambiamento fosse dovuto proprio alla notizia del capitano, e un po' ne era lusingata.
Heath appariva felice quando lei era felice. O forse era solo la sua impressione.
Comunque si godeva le belle giornate, che preannunciavano una calda estate, e la serenità che permeava all'interno di quelle quattro mura.
«Ho vinto, di nuovo», affermò con un espressione soddisfatta, posando le carte sul tavolo, in attesa di una reazione del suo avversario.
Heath fissò prima lei e poi le sue carte, con il volto completamente di ghiaccio.
«O state barando, oppure sto iniziando ad invecchiare», lo disse con una tale serietà che nessuno avrebbe pensato ad uno scherno.
Ma Joyce sorrise, sapendo che lo avrebbe innervosito ancora di più.
«Volete la rivincita?», e ancor prima che lui potesse annuire - era certa che voleva giocare ancora - aggiunse: «O siete stanco di perdere?».
«Date le carte, donna», con un gesto della mano la invitò a mischiare io mazzo per iniziare un'altra partita e Joyce non si fece pregare.
«Prima o poi la vostra fortunata finirà», stava borbottando lui, impensierito ma anche molto dolce con quel suo tono seccato.
Joyce di ritrovò ancora una volta ad avere pensieri molto poco professionali riguardo il suo paziente.
E dovette concentrarsi su qualcosa di molto più serio, per impedire al suo cuore di battere forte.
Così, mentre dava le carte, annunciò, sperando di renderlo felice: «Ho ascoltato vostro consiglio, riguardo mia figlia».
Entrambi si bloccarono, consapevoli che la conversazione stava davvero diventanto seria.
Heath avrebbe voluto incitarla a continuare in fretta, perché era curioso e voleva saperne di più.
Ma le parole gli morirono in bocca e fu costretto ad attendere.
«Ho riflettuto e alla fine ho chiesto al capitano Sebastian di aiutarmi a riavere mia figlia».
L'espressione di Heath mutò subito in vera gioia, anche se cercò di trattenersi per non sembrare un bambino di fronte alle caramelle.
Voleva mostrarle quanto era felice per lei, ma disse soltanto: «Sono sicuro che avete fatto la scelta giusta».
Anche se si stava trattenendo, Joyce vide nei suoi occhi in bagliore di contentezza.
E non poté non farsi trasportare da quel bel momento.
Annuì, più sicura di sé: «Sì, lo credo anche io».
Tornò a dare le carte, così le era impossibile guardarlo negli occhi e poteva concentrarsi di più.
Perché anche lei rischiava di farsi trasportare troppo da quel bei sentimenti.
«Non sto più nella pelle e sono in ansia per quando lei arriverà», ammise, ormai del tutto a suo agio con il suo paziente.
Lui conosce molte cose sul suo conto, molte di più della maggior parte delle persone.
E solo in quel momento Joyce se ne rese conto.
Alzò leggermente la testa per poterlo osservare, giusto per cercare di capire cosa stesse pensando.
Non era facile. Mascherava bene le sue emozioni.
Ed infatti sembrava immobile, glaciale, seduto sulla sua sedia rotelle.
Per niente diverso da tutte le volte che avevano giocato a carte.
Non diverso dalla prima volta che si era visti.
Eppure qualcosa di nuovo c'era. Forse era il modo in cui si protendeva verso di lei, invece di restare distante come faceva di solito.
O forse il fatto che, pensando di non essere visto, anche lui le la lanciava strane occhiate da buon osservatore.
Era evidente anche ad un occhio esterno che c'era una certa tensione tra di loro.
Avevano iniziato perfino a scambiarsi sorrisi all'unisono, come se si leggessero nella mente.
E proprio in quel momento entrambi sorrisero all'altro, nello stesso istante.
«Credo che l'ansia sia più che lecita, ma sono sicuro di quello che vi ho detto... Sarete una brava mamma».
Ancora una volta Joyce annuì, sempre più sicura di quelle parole. Non perché ci cedesse veramente, ma perché era quello che voleva con tutto il suo cuore.
Si era ripromessa che avrebbe fatto di tutto per rendere sua figlia felice e per darle tutto l'amore che una madre ha da offrire.
«Sapete già quando arriverà?», chiese lui mentre prendeva tra le mani le carte che gli erano state date.
L'espressione nell'osservare la sua mano era impassibile. Una vera faccia da poker.
Ma anche Joyce riuscì a mantenere la sua espressione fredda mentre guardare le sue di carte.
«Non lo so di preciso, ma credo non ci vorrà molto...forse qualche settimana».
«La dimora sarà completamente invasa da bambini ormai».
Joyce di aveva già pensato e non poteva non essere felice al pensiero che sua figlia avrebbe trovato facilmente nuovi amici.
«Ho chiesto ai Devenport se per loro potrebbe essere un problema...».
«E scommetto che Astrid e Byron sono stati molto felici di poter accogliere tua figlia», concluse lui, che già immaginava la loro conversazione.
Joyce annuì di nuovo: «Sì, sono stati molto gentili. Ma li ho anche rassicurati sul fatto che non beneficeremo della loro gentile ospitalità per molto tempo. So che per loro non è un problema, ma non voglio proprio creare ulteriore disturbo».
Heath scacciò il suo pensiero con un gesto della mano, sbuffando: «Questa tenuta è talmente grande che avere una persona in più non cambia molto. Non sono il padrone di casa, ma so che posso parlare a nome loro quando vi dico che potrete restare qui tutto il tempo che vorrete».
Uno strano tono, molto profondo, accompagnò le sue parole, e riuscì a scaldare il cuore ormai impazzito di Joyce.
«Ne sono consapevole, davvero, ma comunque credo che sia opportuno per me e per mia figlia trovarci un posto tutto nostro».
Calò il silenzio tra di loro e quando Joyce alzò di nuovo lo sguardo per osservarlo, e capire il motivo della sua titubanza, lo trovò ancora impassibile.
Annuì solo in modo quasi impercettibile, lasciandole credere che fosse in accordo con lei. Ma la verità era che un po' gli dispiace di sapere che presto Joyce se ne sarebbe andata.
Ingenuamente aveva pensato di poter accogliere anche la figlia di Joyce in quella casa, e di vivere tutti insieme. Già s'immaginava di svegliarsi la mattina con la dolce risata di una bambina.
E per quanto volesse apparire glaciale e indifferente a tutto, la cosa gli piaceva. Eppure sapeva che il discorso di Joyce era sensato, e non gli rimase altro che darle ragione.
Il giorno era arrivato. Dopo una lunga attesa, alla tenuta Devenport avevano ricevuto una missiva con una data ben precisa.
E così, quella mattina, dopo settimane di ansia e tensione, si era preparati tutti. Come se quell'arrivo fosse importante per ogni membro della famiglia.
Joyce aveva passato un po' di tempo con ognuno di loro, eppure mentre le stavano accanto, in piedi davanti all'entrata principale della casa, non poté non osservarli con occhi diversi.
Era grata ad ognuno di loro per aver scelto di essere presenti, solo e unicamente per darle più coraggio e anche per accogliere la piccola Emily nel modo migliore.
Era a lei che pensava, mentre allungava il collo per osservarle i cancelli della tenuta, in attesa di veder sbucare la carrozza da dietro la collina.
Sperava di aver fatto la scelta migliore, di fare una buona prima impressione. E proprio per questo aveva indossato il suo abito migliore, candito e pulito, e si era perfino fatta pettinare i capelli dalla parrucchiera privata di Astrid.
Per qualche istante le era parso tutto fin troppo vanesio, ma quando si era vista allo specchio era stata costretta ad ammettere che si sentiva più sicura di sé. O forse era convinta che sua figlia l'avrebbe vista con occhi diversi grazie anche al suo aspetto.
Scendendo dalla carrozza, infatti, Emily avrebbe fatto la conoscenza non solo di sua madre, che voleva dare subito una buona prima impressione, ma anche tutta la famiglia Devenport, al completo e nel suo splendore completo.
Avrebbero senz'altro ispirato fiducia, agli occhi di quella piccola bambina, e in fondo Joyce desiderava solo quello.
Perciò non era stata in grado di affrontare la giornata da sola e aveva accettato ben volentieri la compagnia degli altri.
E mentre aspettavano, sotto il sole mattutine, non poté non sorridere divertita di fronte ai due gemelli che giocava a terra con le pietre. Lady Astrid aveva tentato una sola volta di allontanarli dalla polvere, per non sporcare i loro abiti, ma ci aveva rinunciato presto.
Con sorriso arreso aveva guardato Joyce e aveva fatto spallucce, lasciando andare i figli che si era precipitati a rotolarsi tra la polvere, felici come non mai.
Al suo fianco Heath era in piedi, indossata la sua protesi di legno per la prima volta davanti a così tante persone, e si aiutava con una stampella per restare dritto.
Quando lo aveva visto uscire dalla sua stanza, accompagnato dall'amico Byron e da Trevor, che lo avevano aiutato a indossarla, ne era rimasta sorpresa. Fino a quel momento aveva tenuto per se ogni progresso, ma quel giorno sembrava che anche Heath volesse apparire al meglio.
E non riuscì a non nascondere la sua gioia nel vederlo fiero e soddisfatto, in piedi, mentre con molto coraggio si faceva avanti e camminava sulle sue gambe. Più o meno.
Non gli ricordò che era stato un vero ottuso nel rimandare quel momento, quando avrebbe potuto provare la protesi mesi e mesi prima, ma si godettero entrambi quel momento di rivincita. Per entrambi.
Quello, infatti, era il giorno perfetto per rivendicare i loro diritti, per mostrare al mondo che potevano fare tutto ciò che desiderava.
Quando iniziò ad intravedere la carrozza, lungo il viale che conduceva alla tenuta, il suo cuore perse un battito. Sussultò e d'istinto cercò il contatto con Heath, che gli stava accanto.
Non ci pensò troppo, non si curò di essere poco professionale, gli mise la mano sul braccio e lo strinse leggermente, solo per accertarsi che lui era veramente lì.
Troppo attenta a fissare un punto davanti a lei, non si rese conto che Heath aveva abbassato lo sguardo solo osservare la mano sul suo braccio, per sorridere con un certo calore.
I brevi momenti che passarono nell'osservare la vettura avanzare, a moderata velocità, furono per Joyce una vera tortura, perché le sembrarono eterni. E più si avvicinava, più il timore la invadeva.
Si chiese quale sarebbe stata la prima cosa avrebbe fatto, e soprattutto detto, una volta che sua figlia fosse scesa dalla carrozza. E per quanto si fosse preparata vari discorsi prima, allo specchio, all'improvviso nessuna parola le sembrava adatta.
Nel panico, iniziò a guardarsi intorno, come in cerca di una via di fuga che però purtroppo non possedeva, mentre la vettura entrava nel cancello principale della tenuta e attraversava il cortile principale.
Solo quando incontrò gli occhi profondi, e sicuri, di Heath, si calmò, strinse un po' più forte la presa sul suo braccio e si rassicurò quando lo vide sorridere.
Se lui aveva preso coraggio ed era in grado di stare in piedi, dopo tutto quello che aveva passato, anche lei poteva farcela.
La carrozza si fermò proprio davanti a loro e se fino a quel momento avrebbe voluto ritardare l'incontro il più possibile, ora che sua figlia era letteralmente ad un passo da lei, non riusciva proprio ad attendere.
Forse anche per questo lasciò la presa sul braccio di Heath e corse ad aprirle la portiera ancor prima che un servo della tenuta di avvicinasse. Doveva vederla.
E finalmente, un volta incrociati i suoi occhi, tutto sarebbe tornato al proprio posto.
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