Capitolo XXVI
Nei giorni successivi al primo tentativo di camminare con la protesi, Heath si fese assistere solo dal signor Thibott e dal medico del paese.
All'inizio Joyce ci rimase un po' male, come se la sua scelte fosse una cosa personale.
Ma alla fine si convinse che era meglio così. Il suo paziente doveva sentirsi a suo agio durante le prove, e la sua presenza lo rendeva nervoso, era meglio per lei stare lontana.
Le dispiaceva non fare parte dei suoi progressi, non vederlo migliorare - oppure no - ed era troppo curiosa.
Spesso se ne stava seduta vicino al camino, mentre il medico era chiuso in camera da letto con Heath, a chiedersi cosa stessero facendo.
E ogni volta che chiedeva spiegazioni, la sera prima di andare a dormire, Heath non rispondeva mai.
Anzi, sembrava sempre nervoso e scontroso. Non gli si poteva chiedere "va tutto bene con la protesi?", perché lui avrebbe dato una risposta a mezza bocca.
Capiva la sua ritrosia, eppure voleva sapere. Con tutta se stessa.
Era giusto però rispettare il volere del suo paziente, al costo di morire dalla curiosità.
Così Heath aveva ottenuto quello che voleva, e si sentiva meno in imbarazzo di fronte ai due uomini.
Non avrebbe voluto escludere del tutto Joyce, e gli dispiaceva vederla così contrariata.
Ma preferiva fallire lontano dai suoi occhi.
Perché il vero motivo che lo spingeva ad essere così tanto misterioso era che in quella stanza non avvenivano i miglioramenti che tanto sperava.
Sicuramente un altro paziente si sarebbe sentita eccitato e contento anche solo per essere riuscito a stare in piedi qualche minuto.
O per essere riuscito a fare qualche passo traballante con l'aiuto del bastone.
Ma non lui. Heath voleva camminare davvero, come una volta.
Con un portamento fiero, senza inciampi o cedimenti. E invece allo specchio vedeva un uomo che non era neanche in grado di stare dritto.
Patetico, ecco come si sentiva ogni volta che faceva un passo avanti. E ancora di più quel sentimento veniva a galla quando osservava i sorrisi soddisfatti dei due uomini.
Il fatto che per loro tutto ciò fosse un miglioramento degno di nota, lo destabilizzava ancora di più.
Si diede dello stolto, perché si era illuso di poter avere un aspetto più signorile una volta tornato in piedi, e invece non era così.
Per questo un giorno chiese al suo amico Byron di assistere, perché voleva un suo parere.
Lui, ovviamente, non si tirò indietro e si presentò quella mattina in perfetto orario.
Era contento che Heath gli avesse chiesto di partecipare, anche se non sapeva cosa aspettarsi.
Si appoggiò al muro, distante da tutti per non disturbare, ma in un punto buono per poter osservare tutto.
Non era convinto di poter dire o fare qualcosa, e infatti rimase in silenzio per tutto il tempo.
Osservò il medico mettere la protesi di legno al suo amico, con molta professionalità.
Vide l'espressione decisa dell'amico, ma anche una strana ruga sulla fronte. Era preoccupato e anche frustrato.
Si accorse che stava esitando, seduto sulla sua sedia a rotelle, e comprese che stava prendendo coraggio.
E poi continuò a rimanere in silenzio mentre osservava l'amico alzarsi in piedi, con un po' di fatica ma tutto sommato con decisione.
Era una cosa che faceva da molti giorni e si capiva. Si era allenato, sapeva cosa era meglio fare, quali erano i movimenti più idonei.
E in pochi secondi si alzò in piedi, subito il signor Thibott gli porse io bastone che Heath prese con una smorfia esasperata.
Non amava il bastone, proprio non gli piaceva, ma sapeva che era inevitabile usarlo.
Heath arrancò un po' traballando, facendo due passi proprio in direzione di Byron che lo osservava cercando di non mostrare la sua gioia.
Non voleva indispettire il suo amico in nessun modo ma la verità era che provava felicità nel vederlo camminare.
Heath poi cambiò direzione, andando verso lo specchio e rimase lì per qualche istante, immobile.
Aveva il fiato corto, segno che si era affaticato, anche se aveva fatto a malapena dieci passi.
Byron non poteva neanche capire le sensazioni che Heath provava, ma stando alla sua espressione, al sudore sulla fronte e la difficoltà, poteva un po' percepire il suo disagio.
Il medico lo aiutò a rimettersi seduto sulla sedia a rotelle e lui disse soltanto: «Lasciatemi solo con lord Byron».
Il tono monocorde e l'espressione decisa lasciavano intendere che per lui la seduta di allenamento era finita.
I due uomini non se lo fecero ripetere due volte. Lanciarono uno sguardo comprensivo in direzione di Byron e accontentarono il loro cliente.
Heath non riuscì ad attendere un secondo di più e non appena la porta si chiuse si voltò a fissare l'amico.
«Che ne pensi?».
A quel punto Byron si trovò in evidente difficoltà. Non perché la sua risposta sarebbe stata negativa, anzi, l'esatto contrario.
Era contento di vedere l'amico impegnarsi per migliorare. Era emozionato per averlo rivisto in piedi, e sperava che le cose potessero andare ancora meglio.
Ma esitava a dirlo ad Heath, perché non era convinto che fosse ciò che l'amico voleva sentire.
Non voleva innervosirlo, già sentiva nell'aria la tensione, ma si era ripromesso di essere sincero.
Così fece un lungo sospiro e, continuando a guardarlo senza alcuna vergogna, sorrise e lo incoraggiò.
«Penso che sia lodevole l'impegno che stai mettendo in questa cosa e che è molto bello vederti di nuovo in piedi sulle tue gambe».
Poi tentò di tirarlo su di morale - perché percepiva che aveva bisogno di un po' di leggerezza - scherzando: «Non mi verrà più il torcicollo a parlare con te».
In una situazione normale Heath stesso avrebbe riso di gusto. Ma era troppo turbato da tutta la situazione per trovare divertenti le sue parole.
«Non pensi che io sia patetico?», chiese con tono lamentoso.
«Patetico?».
«Mi hai visto no?», continuò Heath, scaldandosi un po' e iniziando a gesticolare.
«Non riesco a stare dritto in piedi, ho bisogno di quel maledetto bastone», con un gesto frenetico indicò il pezzo di legno che era stato lasciando sul letto, con odio.
«E al momento faccio a malapena qualche passo prima di crollare dalla stanchezza. Sono ridicolo».
Ancora una volta si poteva percepire bene la sua frustrazione e Byron poteva solo immaginare quando fosse difficile per lui.
Se fosse stato al suo posto probabilmente si sarebbe sentito ridicolo anche lui.
Ma cercò d'incoraggiamento: «Non sei affatto patetico Heath», ma non riuscì neanche a finire la frase che lo sentì sbuffare.
Non avrebbe creduto neanche ad una sola delle sue parole.
Eppure Byron era testardo e continuò: «Sai cosa ho visto in questa stanza oggi?».
I due amici si guardarono per qualche istante negli occhi e solo quando Heath scosse la testa Byron aggiunse, con tono sempre più deciso.
«Ho visto in uomo coraggioso, che vuole rimettere in riga la sua vita e che si sta impegnando con tutto se stesso per riuscirci. Un uomo che non si lascia abbattere dalle difficoltà e che è pronto a tutto per ottenere ciò che vuole».
A quel punto Heath gli sorrise per la prima volta: «Non è che per caso hai visto un uomo che potrebbe conquistare un dolce ma cocciuta infermiera?».
Finalmente Byron comprese cosa lo turbava veramente. E non si sorprese nel scoprire che ci andava di mezzo una fanciulla.
Era sempre così, e lui lo sapeva meglio di qualsiasi altra persona.
«Si tratta di questo quindi», asserì, più tranquillo. Se era a conoscenza del problema, poteva fare qualcosa per aiutare il suo amico.
Così si avvicinò a lui e si mise seduto sul bordo del letto, in modo da poterlo guardare in volto mentre gli parlava.
«Ti spaventa farti vedere da lei in queste condizioni, e lo capisco. Ma tu credi davvero che a Joyce importi delle tue condizioni fisiche? Sei sicuro che faccia la differenza camminare a dritto, senza inciampare o senza l'aiuto di alcun supporto?».
«Vorrei essere un vero uomo, degno di stare con lei», furono le uniche parole che riuscì a pronunciare, lasciando intendere cosa per lui significasse "essere uomo".
Byron scosse la testa: «E credi di non esserlo?», solo quando Heath abbassò lo sguardo imbarazzato, in quella che doveva essere un'ammissione di colpe, Byron alzò leggermente la voce.
«Guardati, santo cielo! Tu sei un soldato... sei andato in guerra, a morire, per la nazione. E ne sei tornato con tutti gli onori del caso, con delle cicatrici ma vivo. E ora stai affrontando tutto questo, solo per poter stare in piedi».
Byron si fece ancora più vicino all'amico e gli mise una mano sulla gamba buona, per attirare la sua attenzione e costringerlo a guardarlo di nuovo negli occhi.
«Anche solo il fatto che tu voglia apparire al meglio per lei, ti rende degno del suo amore», annuì con convinzione, aspettando che anche Heath se ne convincesse.
«E credimi, amico mio, nessuno più di me sa quanto sono vero queste parole. Io ho fatico con tutto me stesso per essere degno di mia moglie, ho sbagliato più e più volte, e ancora oggi so di dover fare molta strada... eppure sono riuscito a guadagnarmi il suo amore e ora ne sono degno. Perché per te dovrebbe essere diverso?».
Con la mano libera prese il bastone di legno che avevano lasciato sul letto e glielo mise sulle ginocchia, in un chiaro invito.
«Se continuerai a nasconderti, vivrai nell'incertezza di non sapere quanto sei degno del suo amore. Perciò perché non vai da lei e non le fai vedere i progressi che hai fatto?».
Si era aspettato un po' di ritrosia da parte di Heath, che aveva ormai la tendenza a dire di no a tutto e tutti. Perciò rimase alquanto sorpreso quando in effetti lo vide annuire, convinto.
«Andrò da lei, adesso».
Anche Byron annuì: «Bene, la trovi alla tenuta... credo che stia ricevendo un ospite», o almeno era quello che aveva detto la domestica.
Heath prese il bastone e si trascinò fuori con furia e una certa urgenza. Sentiva l'impellente bisogno di raggiungere il prima possibile.
Perché la paura poteva sopraggiungere da un momento all'altro e spingerlo a cambiare idea. E lui voleva evitare ogni atto di codardia.
Mentre attraversava il giardino dei Devenport, spingendo la carrozzina con molta forza, nella sua mente iniziò subito a pensare alle parole da dirle.
Una parte di lui voleva tornare indietro e far finta di non avere avuto quella conversazione con Byron. Mentre l'altra non riusciva a smettere di pensare al bacio la sera del ballo.
Aveva evitato di parlare di quella sera con Joyce, perché i sentimenti che provava per lei erano così profondi da pensare di non essere abbastanza per lei.
Ed Heath voleva essere alla sua altezza, con tutto se stesso. Per questo aveva chiesto di provare la protesi.
Per questo si stava impegnando per tentare di rimettersi in piedi.
Tutto questo solo per lei. Per essere alla sua altezza. Per essere migliore degli altri uomini.
Con questa convinzione entrò nella tenuta dei Devenport e chiese immediata ad una domestica dove fosse Joyce.
«La potrete trovare nella sala degli ospiti», non c'era bisogno che qualcuno indicasse lui la strada, all'interno di quella dimora che aveva sempre considerato come una seconda casa.
Ed in effetti trovò subito il luogo e, preso dalla foga, si dimenticò di bussare.
Entrò senza pensarci, interrompendo qualsiasi cosa stesse succedendo all'interno.
E rimase di sasso di fronte a quella scena.
La prima persona che vide fu Astrid, seduta su un divano in disparte che stava lavorando a maglia.
Ma con la coda dell'occhio teneva d'occhio Joyce, in piedi accanto al suo pianoforte.
La teneva d'occhio perché in realtà non era da sola, ma in compagnia di un gentiluomo.
Heath lo riconobbe subito. Era uno dei tanti giovani che avevano ballato con lei la sera del ballo.
Bello, alto, biondo, dall'aria sicura e il portamento impeccabile. Indossava il suo abito migliore e stava porgendo un mazzo di fiori a Joyce.
Non notò l'espressione imbarazzata di lei, che stava prendendo i fiori con un po' di titubanza.
Fece solo caso al contesto e comprese subito che quello era un corteggiamento.
Non riuscì a non mettersi a paragone con il ragazzo affascinante, e ovviamente ne usciva sconfitto.
Così, come era entrata, se ne tornò sui suoi passi, ignorando la voce di Joyce che lo chiamava.
Aveva fatto un errore. Non sarebbe mai stato degno di lei. E doveva farsene una ragione.
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