Capitolo XXIX

«Più forte, sir Heath, più forte».

Le grida di divertite di una piccola bambina riecheggiavano in quella casa ormai da tempo silenziosa.

Dal canto suo, Joyce non aveva mai sentito il suono dolce della risata di una bambina. La sua bambina.

E vedere Heath giocare con lei, portandola a spasso per tutta la casa con la sua sedia a rotelle, le riempiva ancora di più il cuore di gioia.

Era la prima volta che vedeva il suo paziente veramente a suo agio nella sua condizione.

Per quanto passasse sempre più tempo con la protesi in legno, non sembrava neanche più troppo dispiaciuto di sedere su quella sedia.

E il merito era di Emily. Lei, così piccola ingenua, non aveva trattato Heath in modo diverso dagli altri, come invece avevano fatto tutti gli adulti.

Agli occhi di una bambina non c'era alcuna differenza, tra un uomo in piedi sulle sue gambe e uno di una carrozzina.

Anzi, aveva accolto con curiosità e gioia quella nuova prospettiva, perché per i bambini tutto è motivo di gioia.

E aveva iniziato, con una sfacciataggine che ben presto scoprirono essere insita in lei, a chiedere ad Heath si portarla in giro.

Per lei era quasi come salire su un cavallo, solo che lo trovava molto più divertente.

Se la prima volta Joyce si era scusata, in imbarazzo per la richiesta della figlia, con il tempo aveva capito che al suo paziente non dispiaceva affatto.

Insieme di divertivo. Heath era tornato quasi bambino, dimenticandosi di tutti i suoi problemi.

E Joyce passava le sue giornata ad osservarli giocare insieme, mentre ogni tanto li redarguiva e imponeva loro qualche regola.

Come quel giorno. Heath stava correndo nel giardino sul retro, spingendo la sua sedia a rotelle per andare sempre più veloce mentre la piccola Emily gli sedeva sulle ginocchia.

«State attenti, potreste cadere e farvi male», li sgridò lei, seduta sulla veranda a godersi la scena.

Anche se una parte di lei era veramente preoccupata che potessero farsi del male, era anche contenta di vederli così felici.

Sua figlia si era ambientata in poco tempo il che per lei era davvero una bella notizia. Considerato anche che il primo giorno non era andato tanto bene.

Infatti, il giorno in cui Emily era giunta alla tenuta dei Devenport, era talmente timida e chiusa che non aveva proferito una parola.

Joyce aveva cercato di interagire subito da lei, dal primo istante in cui aveva incontrato i suoi grandi occhi.

Ma allo stesso tempo non voleva soffocarla e quindi non l'aveva costretta a parlare o a sorridere.

Erano stati tutti molto gentili e comprensivi con la nuova arrivata in casa.

Lady Astrid aveva perfino dato la sua disponibilità per fare giocare Emily nella stanza dei gemelli.

E per qualche istante Joyce era stata sul serio preoccupata per la figlia.

La paura più grande era proprio quella di aver sbagliato nel portarla via da quella che lei aveva considerato fino a quel momento la sua vita.

Poi però tutto si era svolto nella più totale tranquillità.

Una mattina si erano alzati, Joyce e Heath aveva stabilito che era meglio comportarsi come se nulla fosse anche davanti alla piccola Emily. E così avevano fatto.

E lei aveva parlato. Aveva interagito con loro, con sua madre in particolare, e tutto era andato al suo posto.

Da quel momento Emily non aveva fatto altro che parlare, giocare, divertirsi e ridere.

Aveva fatto amicizia con tutti alla tenuta, dalla famiglia Devenport a tutti i servitori.

E non c'era una persona dentro a quelle quattro mura che non trovasse Emily adorabile.

Forse perché era sempre molto curiosa e gentile. Forse perché trattava tutti allo stesso modo e voleva sempre giocare con chiunque.

Crescere nell'orfanotrofio le aveva insegnato un gran senso dell'educazione e del rispetto nei confronti degli altri.

Ma restava pur sempre una bambina.

E Joyce era contenta di vedere che sua figlia di fosse ambientata così in fretta.

«Ora basta, è il momento di prepararsi per il pranzo», li chiamò, dopo aver visto che non avevano alcuna intenzione di rallentare.

Emily si lamentò subito: «Ancora un po'».

«Sì, ancora un po'», aggiunse Heath, ridendo come una matto. Sembrava una persona completamente diversa da quella che aveva conosciuto qualche mese prima.

«Non mi ero resa conto di avere due bambini».

Ma invece di offendersi, Heath continuò a ridere, senza aver alcuna intenzione di darle ascolto.

«Non fatemi ripetere... È quasi il momento di pranzare ed Emily devi rinfrescarsi, prima di andare a tavola».

Di alzò dalla sua poltrona, si mise in piedi con le braccia incrociate e un espressione solenne

«Dico sul serio, non fatemi arrabbiare», le veniva quasi da ridere per la scena ma fu costretta a mantenere la sua parte di genitore severo, se voleva essere ascoltata.

Heath si fermò e guardò prima Joyce e poi Emily, prima di arrendersi: «Ha ragione tua madre, è meglio rientrare».

Alle parole di Heath Emily non si lamentò, il che non stupì per niente sua madre.

Tra i due si era creata in poco tempo una complicità che quasi invidiava.

Ma in quel momento fu grata a tale rapporto perché Emily scese di corsa dalle ginocchia di Heath e si riavvicinò all'entrata della casa.

«Vai in camera nostra, Emily, e aspettami lì... Io ti raggiungo non appena ho finito di parlare con sir Heath».

La bambina annuì appena mentre correva dentro, obbedendo alla madre.

Le passo davanti e gran velocità e per l'ennesima volta di stupì che al mondo di fosse un altro essere che le assomigliasse così tanto.

A parte gli occhi, infatti, - tratto che purtroppo aveva ereditato dalla parte paterna - la piccola Emily erano una copia carbone di Joyce.

Vederla le faceva sempre uno strano effetto, perché era come avere una piccola se stessa sempre in giro.

«Devo preoccuparmi?», la voce di Heath, che di era avvicinato a lei, la ridestò dai suoi pensieri.

Quando si voltò a guardarlo, rimasti ormai soli, si era quasi dimenticata dove erano rimasti.

La sua espressione interrogativa, infatti, costrinse Heath ad aggiungere: «Avete detto che volete parlare con me... Devo preoccuparmi?».

Joyce sorrise, più leggera, e si rimise seduta lì dove era fino a qualche istante prima.

Lo vedeva bene in voltò, senza essere costretta ad abbassare lo sguardo.

«Nulla di cui temere. Anzi, ho una buona notizia per voi».

Heath di mosse nervosamente sulla sua sedia. Da una parte era curioso di sapere di cosa si trattasse, dall'altra invece il suo sesto senso gli diceva di dover preoccuparci eccome.

«Avevamo già parlato, prima dell'arrivo di Emily, dell'opportunità di un trasferimento. Ricordate?».

A quel punto Heath era teso, in evidente ansia, mentre annuì già sapendo dove stava andando il discorso.

«Ecco, ho ricevuto un'offerta di lavoro come assistente di un medico, in città. È un ottima opportunità per me e non voglio pensare ulteriormente sulle spalle dei Devenport. Voi, d'altronde, non avete più bisogno di me, ve la cavate bene anche da solo e non voglio essere inutile».

Anche lei era nervosa, mentre annunciava la notizia. Perché non era del tutto convinta.

Eppure non poteva fare altro. Non voleva restare in casa Devenport, beneficiare della loro gentilezza senza più essere utile alla loro causa.

Lì non c'era più nulla che la teneva legata, ed era giunto il momento di andarsene.

«Hai Devenport non importa se restare ancora», fu la prima cosa che riuscì a dire Heath, pentendosene immediatamente.

Joyce sorrise: «Lo so, ma non sopporto di essere di peso ulteriormente. È giusto così, per tutti quanti».

Non ci credeva neanche lei, ma si costrinse ad essere il più credibile possibile. Non voleva dare l'impressione che le dispiacesse più del necessario.

«Ed Emily? Credete che sia saggio farla partire di nuovo? Adesso che si è ambientata?».

«Emily è una bambina, si abituerà in fretta proprio come ha fatto qui... E tal proposito, devo garantire un futuro anche a lei e nella Capitale ci sono tanti insegnati validi».

«Anche i Devenport potrebbero garantire una buona istruzione a vostra figlia», le fece notare lui, con tono sempre più freddo.

«Ma voglio occuparmene io, sono sua madre ed è giusto così».

«Quindi avete già deciso. Ve ne andrete e non vi vedremo più... E non c'è nulla che possa dire per farvi cambiare idea».

Dal suo tono di voce si comprendeva che era infastidito da qualcosa. Eppure non disse da cosa.

«Bè, è la scelta migliore... Sarete contento, no? Non avete più bisogno di me e posso andare avanti».

Ancora una volta fece un'immensa fatica a parlare senza sembrare troppo coinvolta.

La verità era che anche Joyce non voleva andarsene via, ma non aveva altra scelta.

Ben presto il suo aiuto sarebbe stato completamente inutile e quindi i Devenport avrebbero smesso di pagarla per i suoi servizi.

Non poteva restare in quel luogo, se il suo lavoro era concluso.

Avrebbe voluto le cose andassero in modo diverso, ma non dipendeva da lei.

In quel momento, seduti l'una di fronte all'altro, Joyce aspettava solo che Heath pronunciasse delle semplici parole.

Le bastavano poche semplici ma precise parole, per convincerla a restare.

Eppure Heath si chiuse ancora in se stesso, orgoglioso come non mai.

«Ma certo, andate pure! Non ho più bisogno di voi, come avete detto. Sono migliorato molto e voi siete praticamente inutile adesso... I Devenport stanno solo sprecando i loro soldi in questo momento».

In fondo era proprio il discorso che stava facendo lei, eppure pronunciato da Heath le sembrava ancora più sbagliato.

Forse perché lo aveva detto con un espressione glaciale, volta solo a ferirla. E ci era riuscito.

«Avrete quello che volevate dall'inizio, no?», continuò lei, con il suo stesso tono presuntuoso.

Volevano entrambi sembrare più forti di quanto in realtà erano e nessuno dei due avrebbe fatto un passo in direzione dell'altro.

«Vi siete lamentato fin dall'inizio della mia insopportabile presenza, e ora me ne andrò. Sono sicura che non vi dispiacerà».

Heath era più furioso perché le sue parole sembrava davvero sincere. E odiava l'idea che lei pensasse quelle cose di lui.

Ma non lo disse. Incrociò le braccia, nascondendo ancora di più i suoi sentimenti all'interno di un guscio duro e infrangibile.

«Esatto, finalmente mi lascerete in pace».

Detto ciò tornò all'interno della casa, con un broncio che quasi toccava terra e una furia repressa che avrebbe tanto voluto sfogare in qualche modo.

Per qualche minuto Joyce rimase lì da sola, in completo silenzio.

La turbava la conversazione appena avuta da Heath, ne comprendeva il perché ma allo stesso tempo non poteva fare nulla per cambiare le cose.

Doveva dimenticarsi di Heath e di quel periodo passato alla tenuta Devenport.

Doveva lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare una nuova vita con sua figlia, nella capitale.

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