Capitolo XXIII

La festa andò avanti per ore e sembrava che tutti i presenti si stessero divertendo. Compresa Joyce che ballò con così tanti ammiratori improvvisati da perderne il conto.

O meglio, lei ne aveva perso il conto, mentre Heath non staccava mai gli occhi da lei e dal suo accompagnatore di turno, con sguardo cinico e inviperito. 

Se ne stava solo in angolo, dopo essere riuscito a liberarsi di Byron, a fissare la scena come se avesse voluto mettere a ferro e fuoco l'intera stanza. Senza però fare nulla.

«Potresti andare da lei».

Heath alzò lo sguardo per posare i suoi occhi freddi su quelli molto più gioiosi di Astrid, che gli stava perfino sorridendo.

«Come?», ovviamente finse di non capire a chi si stesse riferendo, sperando in cuor suo che la padrona di casa lo lasciasse in pace. La conosceva abbastanza da non illudersi, ma una piccola speranza c'era sempre.

«Sai perfettamente a chi mi sto riferendo e non capisco proprio perché te ne stai lì, imperterrito e arrabbiato, a fissare gli altri mentre si divertono».

Lei gli si affiancò e si voltò a fissare la stessa scena che stava guardando lui da minuti interi.

Joyce rideva, scherzava e si faceva condurre da chiunque in mezzo alla pista, mentre tutti gli altri presenti non accompagnati aspettavano il loro turno. All'improvviso sembravano tutti interessati a lei.

Forse grazie a quella spensieratezza che aleggiava intorno a lei, contaminando tutti i presenti, e che contribuiva a nascondere l'imbarazzo per tutti i pettegolezzi che giravano su di lei. 

Una parte di Heath era dispiaciuto nel vederla così felice e apprezzata dal resto della società, ma trovò subito un po' meschini i suoi pensieri. E se ne stupì. 

«Sono l'invitato scorbutico che non ha voglia di divertirsi, non ti hanno avvisato?», scherzò lui, mentre allo stesso tempo pensava che sarebbe stato davvero bello poter ballare con Joyce. 

Astrid non si lasciò convincere dal suo tono sarcastico, e rincarò la dose: «Che fatica, dover essere sempre una persona che non sei... mi chiedo perché mai tutto questo impegno».

Scrollò le spalle, sorrise di nuovo al suo amico e ammiccò nella sua direzione, come se si aspettasse una reale reazione da parte di Heath. In fondo li aveva abituati a dibattiti taglienti e pieni di rancore.

Invece Heath lasciò cadere per qualche istante la sua maschera d'indifferenza, quel tanto che bastava per aprirsi solo e unicamente con Astrid.

«Meglio così, non sono un bravo ballerino... non in queste condizioni», indicò la sua sedia a rotelle, digrignando i denti con rabbia.

Non era certo la prima volta che provava rancore nei confronti della sua situazione e di quella stupida sedia sulla quale era bloccato per sempre.

Ma quella sera più di tutte avrebbe tanto voluto poter camminare come tutti gli altri gentiluomini, raggiungere sulle sue gambe Joyce e danzare con lei. 

Astrid non si scompose: «Forse dovresti comunque provarci... in fondo, che cosa hai da perdere?».

«La mia dignità?», azzardò Heath, comunque poco convinto di quello che stava dicendo. E lo notò anche Astrid, a causa del suo tono di voce.

Lo fissò infatti con un'espressione severa, anche se non riusciva a nascondere un mezzo sorriso: «E credi di non averne già persa abbastanza? Restandotene qui in disparte e fissarla con desiderio senza però far nulla? Credimi, ti hanno già notato tutti e hanno già sparlato di te. Non passerai mai inosservato, fattene una ragione».

Le parole, quasi dure, lo fecero paralizzare sul posto. Sapeva che aveva ragione, ma era anche furioso: «E tu da che pulpito parli? Dall'alto della tua vita perfetta?».

A quel punto Astrid si fece davvero seria, e anche un po' triste, mentre rispondeva con tono secco: «Vita perfetta, dici? Hai idea di quanto abbiano spettegolato su mio padre e su i miei fratelli? Per mesi non potevo andare neanche al mercato del paese senza avere qualcuno a parlarmi alle spalle. Non potevo fidarmi neanche delle mie amiche e sono stata costretta a sentire in silenzio dicerie, spesso non veritiere, su di me e sulla mia famiglia».

Heath aveva saputo cosa era successo ai Crowell tramite le lettere che Byron gli inviava regolarmente, ma non avevano mai affrontato veramente il discorso.

E in quel momento si sentì un vero stupido: «Astrid, io...».

«Se ti fai condizionare troppo da quello che pensano gli altri, non ti riprenderai mai la tua vita. Le persone proveranno pietà per te, anche se ti darà fastidio? Bè, adeguati, perché sarà sempre così. Ad occhi estranei sarai sempre il ragazzo menomato e costretto su una sedia a rotelle, degno di pietosa compassione. Ma ciò che importa è quello che pensano la tua famiglia e i tuoi amici di te. E soprattutto, importa la considerazione che hai tu di te stesso».

Astrid si mise di fronte a lui e concluse: «Perché se sei il primo a provare pietà per te stesso, non potrai mai chiedere più rispetto dagli altri».

Detto ciò se ne andò, lasciandolo solo con i suoi mille pensieri che gli frullavano nella testa. Lo sapeva che aveva ragione, con tutto se stesso, ma non era facile riuscire a mettere in pratica i suggerimenti.

Cosa lo bloccava? Ancora non era del tutto sicuro. Di certo la paura di fallire era tanta, come quella di essere rifiutato. 

Ma la sua codardia lo faceva infuriare ancora di più. Non era mai stato un tipo che tira indietro al primo ostacolo, e odiava essere così. Ormai c'erano troppe cose che odiava si sé. 

Invece di fare ciò che andava fatto, ovvero raggiungere Joyce in mezzo alla pista e chiederle un ballo, al costo di passare davanti a tutti gli altri, si voltò e se ne andò. 

Trascinò a scatti rabbiosi la sua sedia a rotelle fino al grande balcone e gioì quasi nel assaporare l'aria fresca della notte. La musica là fuori si sentiva appena, come una sinfonia lontana ma piacevole, e le uniche luci ad illuminare l'atmosfera erano quelle della luna e delle stelle.

Doveva ammetterlo, almeno a se stesso, da solo si sentiva sempre molto meglio. Come se fosse tutto il resto del mondo ad avere dei problemi, e non lui. Ma sapeva che era solo una sua illusione.

«Ah, vi ho trovato», la voce di Joyce lo destò dai suoi pensieri ma invece di voltarsi a fissarla, rimase a guardare il giardino sottostante. 

«Vi stavo cercando», continuò lei, dal tono allegro, ma ancora una volta lui la ignorò.

«Mi chiedevo quanto ancora sareste rimasto a guardarmi senza chiedermi di ballare... ma quando poi mi sono voltata di nuovo eravate sparito».

«Joyce, tornate in sala a divertirvi», annunciò per la prima volta, dopo aver capito che non l'avrebbe lasciato lì da solo, usando un tono glaciale e secco. Non ammetteva repliche.

«No», asserì lei con altrettanta decisione: «Mi dovete un ballo».

Solo a quel punto Heath si voltò a guardarla, con un sorriso arcigno sul volto indignato: «Sono sicuro che riuscirete a trovare un ballerino anche senza il mio aiuto. D'altronde, vi girano tutti attorno come api con il miele, e sembra che vi faccia piacere».

A Joyce non sfuggì il tono provocatorio di Heath e anche se ci rimase offesa, non gli diede l'occasione di provare soddisfazione.

Incrociò le braccia al petto e sorrise altrettanto: «Bè, me le ricordavo più noiose le feste... e invece mi sto divertendo proprio. Al contrario di voi, a quanto pare, che non mancate di mostrare la vostra gelosia e cattivo umore».

«Geloso io?», l'unica parola che aveva davvero destato la sua completa attenzione, accendendo una miccia in lui. 

«Certo. Geloso perché gli altri possono ballare con entrambe le proprie gambe, o forse perché hanno deciso di ballare con me. Magari è per entrambi i motivi, chi lo sa? Potreste darmela voi la risposta giusta».

Heath non riusciva a capire se era più infastidito dal fatto che lei avesse ragione o che lo stesse palesemente provocando per avere una reazione da parte sua.

«Voi siete pazza... non m'importa nulla di poter ballare con voi, o con nessun'altra donna. E non sono affatto invidioso degli altri uomini».

«Siete piuttosto bravo a mentire, avete imparato bene... ma io ho imparato a conoscervi e non potete prendermi in giro. Voi siete geloso».

Joyce fece due passi verso di lui, ancora con le braccia conserte e un sorriso soddisfatto in volto: «Voi siete geloso perché vorreste ballare con me come fanno gli altri uomini».

Altri due passi: «Voi siete geloso perché qualcuno è interessato a me e perché credete di non essere alla mia altezza».

«Smettetela!», Heath le urlò contro, con tutta la rabbia e la forza che aveva, pronto perfino a cercare una via di fuga pur di non stare ad ascoltare. Ma lei era proprio in mezzo tra lui e la porta finestra che conduceva alla sala.

Di contro, Joyce continuò a sorridere, per niente turbata: «Smettere di fare cosa? Di dirvi la verità? Di farvi notare quanto siete stolto?».

«Stolto?».

«Certo, perché volete tanto ballare con me ma non avete il coraggio di chiedermelo», concluse lei, tronfia. Sembrava calma, almeno all'apparenza, ma la verità era che si sentiva in procinto di esplodere.

Esplodere proprio come stava facendo Heath, senza freni: «Io non ho paura di nulla, neanche di un rifiuto».

«Benissimo, allora chiedetemi di ballare», lo incalzò lei, ormai decisa a non mollare la presa. La sua insistenza era uno dei suoi tratti caratteristici. 

Heath si lasciò andare ad una risata nervosa, per niente convinta, che voleva essere derisoria. 

«Vedete? E' come dico io, avete paura... siete un codardo geloso».

A quel punto Heath non riuscì più a resistere e si arrese, senza neanche rendersi veramente conto di ciò che stava per dire: «Va bene, come volete. Signorina Joyce, mi concedete un ballo?».

Lo disse con finto tono elegante, facendo perfino un inchino un po' rigido.

Joyce rispose con un altro inchino: «E' un onore per me».

E prima ancora che entrambi si rendessero conto di ciò che stavano per fare, Joyce gli si avvicinò, proprio come avrebbe fatto con qualsiasi altro accompagnatore.

Si presentò però subito il problema della sedia a rotelle, che imbarazzò un po' entrambi e costrinse i due ad assumere una posizione ridicola, mentre cercavano di muoversi.

Heath era quasi sul punto di riderle addosso con tutto il suo disprezzo, facendole notare che aveva torto e che sarebbe stato meglio non istigarlo.

Ma lei prese l'iniziativa, rinunciò a ballare con lui come avrebbe fatto con qualsiasi altra persona e, senza il minimo ritegno e senza neanche avvisare, si accomodò tra le sue ginocchia.

«Che cosa state facendo?».

Lei gli circondò il collo con le braccia: «Mi faccio condurre da voi, è così che si balla».

«E' del tutto fuori luogo, qualcuno potrebbe vederci», non poteva neanche credere di averlo detto, eppure si ritrovò ad essere il più cauto tra i due.

«Ci siamo solo noi due qui», rispose lei: «E comunque che ci vedano pure... tanto hanno già sparlato molto di me, un pettegolezzo in più non farà molta differenza».

Heath non riuscì a trovare un obbiezione degna di nota e alla fine non poté che accontentarla: «Va bene, come si fa?».

Non aveva mai ballato in quel modo, e anche se era convinto che perfino Joyce fosse inesperta in quel campo, si affidò comunque a lei.

«Portatemi a ritmo di musica», fu la sua unica indicazione, e per quanto Heath non lo avesse mai fatto, accontentò la richiesta della ragazza.

Così si ritrovò a muovere avanti e indietro, in piccolo cerchi, la sua sedia a rotelle, sentendosi felice e stolto allo stesso tempo.

Lei però non smise mai di sorridere, il volto vicino al suo. Riusciva a sentire il suo profumo, dalle note floreali, e non riusciva a smettere di guardarla nei suoi grandi occhi. 

Proprio in quel momento, abbracciati l'uno all'altra mentre danzavano in quel modo così bizzarro, sorridendosi a vicenda, Heath provò il desiderio di baciarla.

Sentire e assaporare le sue labbra, con l'unico scopo di scoprire cosa si provava a perdersi in lei. E prima ancora che il cervello potesse dirgli quale pessima idea fosse, Heath la baciò.

Si pentì nell'istante esatto in cui le labbra sfiorarono le sue, non perché non fosse bello, anzi. Era proprio come aveva sognato e immaginato in quelle settimane.

Ma si chiese subito se lei stesse provando le sue sensazioni. Se anche lei lo volesse. E la paura di essere rifiutato prese per qualche istante il sopravvento.

Solo che Joyce non si ritrasse, anzi, si fece ancora più vicina e lanciò chiari segnali che non era affatto indignata dalla sua spavalderia. 

E anche la paranoia di Heath venne assopita, lasciando spazio a nuovi e positivi sentimenti che lo inondarono con così tanta forza da venirne sopraffatto.

Mentre i due si baciarono si rese conto, con bruciante consapevolezza, che non aveva mai provato nulla di simile. Lui, uno stolto che credeva di aver già amato abbastanza, in realtà non sapeva proprio che cosa fosse l'amore.

Era troppo per lui, troppo coinvolgente. Troppo travolgente, e non era sicuro di essere in grado di gestire quella valanga di sentimenti nuovi e potenti.

Non ne era in grado e non se lo meritava, questa era la dura realtà.

Proprio per questo fu costretto ad interrompere il contatto, così all'improvviso. Si stupì perfino di quanto fosse difficile, per lui, distaccarsi dalla ragazza proprio in quel momento. 

Usò tutta la sua volontà per allontanarla e spingerla via, riuscendo a respirare di nuovo solo quando lei si rimise in piedi, guardandolo confusa. 

«Va tutto bene?», gli chiese premurosa, e per niente turbata dall'intimità che aveva appena provato. 

«Tornate dentro, Joyce, vi raggiungo presto», disse, con tono monocorde. 

Joyce avrebbe voluto ribattere, chiedergli ancora che cosa fosse successo, ma qualcosa negli occhi di lui le fece cambiare idea.

Non riusciva neanche lei a comprenderne bene il motivo, ma sapeva che Heath aveva bisogno di un po' di spazio. E in fondo anche lei ne sentiva l'esigenza.

Forse proprio per questo acconsentì alla sua richiesta, si voltò e tornò alla festa, senza preoccuparsi di avere l'aria un po' confusa, con i capelli leggermente spettinati e le gonne del vestito stropicciate. 

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