Capitolo XX

Come Heath aveva immaginato, il giorno dopo Joyce accusò del malessere, e così dovettero posticipare il rientro a Plaingrass.

Per il primo giorno Heath se ne rimase rintanato nella piccola biblioteca del palazzo, luogo sicuramente preferito di Astrid, a farsi dare notizie di Joyce dalla servitù.

Aveva pensato di andarla a trovare, ma gli era sempre mancato il coraggio. E così era passata una giornata interna, e quando il sole era calato sulla città, si era sentito in colpa per non aver mostrato mai la sua presenza.

Fino a quel momento non gli interessava se Joyce pensasse a lui come ad un insensibile bastardo. Perciò cosa era cambiato?

Faticava anche lui a comprenderlo e quasi non voleva farsi troppe domande scomode e difficili da digerire.

Dopo una cena passata a giocare quasi svogliatamente con ciò che aveva sul piatto, si convinse ad andare a trovarla.

Con la scusa di portarle una zuppa calda, sapientemente posata su un vassoio appoggiato sulle sue gambe, bussò alla porta della sua camera da letto con un po' di ritrosia.

«È permesso?».

«Avanti».

Entrando, Heath si sarebbe aspettato di vederla a letto, e invece Joyce era ancora davanti al fuoco, beandosi forse del calore delle fiamme.

La scrutò con attenzione per notare qualche cambiamento, e vide il suo volto stanco e ancora più pallido del giorno prima.

Era completamente in disordine, con i capelli raccolti in una crocchia scomposta, aveva un po' di occhiaie, e indossava una camicia da notte.

Ma il primo pensiero di Heath fu che era comunque molto bella.

«Vi ho portato della zuppa calda», esordì facendosi avanti, quasi affiancandosi a lei, che parve subito sorpresa nel vederlo.

«Non dovevate, potevate farmela porta da una domestica», lei si strinse ancora di più intorno alle sue calda coperte e, nonostante l'imbarazzo, sorrise ringraziando.

«Volevo accertarmi con i miei occhi del vostro stato di salute».

«Vi ringrazio, posate pure sul tavolo il vassoio», Joyce indicò il piccolo tavolo vicino alla poltrona e Heath fu costretto ad avvicinarsi per assecondarla.

«Come state?», le chiese apprensivo, mentre si liberava del vassoio.

«Non molto bene, ma comunque non credo ci fosse bisogno di rimandare il viaggio... Potevano partite comunque», provò a dire lei, dispiaciuta.

«Non mi sembrava il caso, meglio restare qui e aspettare che vi rimettiate... il viaggio è lungo e turbolento, non certo ideale per una persona malata».

Per qualche istante Joyce lo guardò in modo strano, in silenzio. Lo stava valutando, ma nessuno sarebbe stato in grado di capire se in negativo o in positivo. 

E poi disse: «Vi sentite bene?».

«Prego?», la confusione della domanda che gli era stata posta si percepiva in tutta la sua espressione e nel suo tono.

«Non vi ho mai visto così premuroso... forse vi state ammalando anche voi», lo schernì lei, con un sorriso amabile. E una volta tanta anche Heath si lasciò andare a un po' di divertimento. 

«Prendetemi pure in giro, signorina Joyce, ma la verità è che se accidentalmente doveste morire lungo il tragitto per Plaingrass, poi dovrei spiegare a Byron cosa sia successo... e non voglio litigare con lui».

Ovviamente non era per questo motivo che lo stava facendo, e sarebbe stato un completo stolto se avesse pensato di riuscire a convincerla. Ma Joyce rimase al gioco.

«Ah, ora capisco... lo state facendo solo per il vostro onore, non certo perché siete preoccupato per me».

«Ovvio, non sono il tipo che si agita per un po' di febbre e malori».

Per qualche istante i due rimasero ancora in silenzio, osservandosi a vicenda e scrutandosi con attenzione. Poi Joyce distolse lo sguardo per prima, si allungò per prendere la ciotola con la zuppa e iniziò a sorseggiare in silenzio. 

Heath rimase ad osservarla, ammaliato da una vista così semplice. Una ragazza che mangiava. Niente di più banale ma allo stesso tempo anche meraviglioso.

«La cuoca si è raccomandata di mangiarla tutta, vi farà bene», precisò, improvvisamente incapace di restare in silenzio.

Non aveva mai provato tanto disagio nell'assenza di rumore, anzi, spesso ci si era rifugiato. Nei momenti più stressanti, o quanto doveva riflettere, si sentiva in pace e tranquillo.

Eppure in quel momento non riusciva a smettere di stare zitto. Doveva colmare il vuoto con qualche chiacchiera, sentirsi meno a disagio.

«E comunque siete stata una vera incosciente a restare fuori, al freddo e sotto la pioggia, per così tanto tempo», aggiunse, rendendosi conto solo dopo che le parole apparivano come un'accusa.

Lei lo guardò con la coda dell'occhio ma non disse nulla. E lui, non pago, rincarò la dose: «Dovete avere più cura di voi stessa».

Lo disse senza accorgersi che ancora una volta poteva sembrare premuroso, e preoccupato per le sorti della ragazza. E non gli sfuggì un leggero sorriso storto sul viso di lei.

«Come fate voi, sir Heath?», gli rispose con risolutezza, voltandosi a guardarlo e piegando la testa leggermente verso il fuoco.

La domanda, incalzante, lo prese contro piede. Doveva aspettarsi, perché ormai la conosceva, che avrebbe tentato di metterlo al centro del discorso. Lo faceva sempre, ogni volta che si entrava troppo sul persona, lei rigirava la conversazione.

«Non stiamo parlando di me, adesso», ci tenne a precisare, pronto a continuare con la sua ramanzina che si sarebbe ricordata per sempre.

Solo che Joyce non glielo permise: «E invece è proprio questo il punto», posò la ciotola mezza vuota sul vassoio, si spostò sulla sedia quel tanto che bastava per poterlo guardare senza dover sempre girare la testa.

«Voi mi chiedete di iniziare a prendermi cura di me stessa, ma non siete in grado di fare altrettanto. E' un po' ipocrita, non trovate?».

Heath rifletté qualche secondo, quasi spaventato dal dare una risposta sincera. Perché saeva che aveva ragione, ma non voleva ammetterlo. 

«Non sono mai stato bravo a prendermi cura di me stesso. Le poche volte che ho messo me stesso al primo posto, non è stata una bella esperienza», ammise, stupendosi ancora una volta di quanto fosse facile parlare con lei.

Più voleva restarsene nel suo, non dire nulla e non far trasparire nulla, più Joyce lo spingeva ad aprirsi, a raccontarsi.

E se da una parte poteva quasi sentirsi leggero, liberato di certi pesi che si portava dietro da anni, dall'altra era anche sfiancante e ti esponeva così tanto da renderti fragile anche a livello emotivo.

Considerato che Heath si sentiva debole fisicamente, a causa del suo problema, cercava in tutti i modi di non mostrare punti deboli anche con i sentimenti.

 «Bè, non è facile... su questo concordo con voi», annuì lei, forse pensando alla sua vita e tutte le volte che avrebbe dovuto mettere se stessa al primo posto. 

«Pensare agli altri, concentrarsi sui problemi altrui o sacrificare la propria vita o felicità per qualcun altro, aiuta quelli come me e come voi a non pensare», aggiunse, pensierosa e seria come non lo era mai stata.

«Non pensare a cosa?», chiese Heath, anche se in parte conosceva già la risposta. 

«A quanto sia un disastro la nostra vita. A quanto noi siamo un disastro. E' confortante, finché non ci pensi, finché hai altro da fare. Ma prima o poi ti resta del tempo per te, quando rimani da solo la notte, e ci pensi... pensi e rimugini».

Doveva sentirsi stupito che stesse parlando proprio alla sua anima, come se fosse con lui tutte le notte, prima di andare a dormire, senza che se ne fosse mai reso conto. 

Ma in realtà Joyce era così precisa, sapeva bene cosa lui pensasse, perché erano in fondo anche i suoi pensieri. 

E a quel punto Heath si rese conto del paradosso. Con espressione mista tra il contrariato e l'interdetto, aggiunse: «Anche voi, se ci pensate, siete ipocrita. Chiedete a me di andare avanti, di farmi forza, di prendermi cura di me stesso e di essere migliore... e poi non fare le stesso. Non siete una brava insegnante, perché non date il buono esempio».

Non voleva apparire troppo saccente o sarcastico, ma solo riflettere su una questione che in fondo era stata lei stata a mettere sul piatto.

E lo vide che l'aveva un po' confusa, proprio per questo le concesse qualche istante in più per pensare e riflettere. 

Aveva un'espressione così concentrata che non aveva il coraggio di aggiungere altro, anche se avrebbe voluto farlo anche solo per spiegare maggiormente il suo concetto. Non era neanche sicuro di essersi fatto comprendere fino in fondo.

La paura che lei potesse sentirsi insultata, visto l'intimità della conversazione, era plausibile, eppure la fanciulla sorrise.

«Avete ragione. Siamo due ipocriti», esordì per niente turbata da quella sconvolgente rivelazione. Più conosceva Joyce e più restava sbalordito dalle sue reazione, spesso fuori dalla norma. 

«E quindi, adesso come la risolviamo questa cosa?», chiese lui, più rilassato grazie anche al sorriso di lei. La preoccupazione di averla indispettiva scomparsa del tutto. 

Lei fece una leggera smorfia buffa sul volto, che fece sorridere Heath, prima di rispondere: «Bè, sappiamo entrambi che non è facile cambiare le brutte abitudini. Ma credo che sia un considerevole passo avanti anche solo aver ammesso i propri problemi e i difetti».

Si voltò ancora a guardare il fuoco, come se per lei la conversazione fosse finita lì, anche se sapevano entrambi che non era così. Era strano, ma anche senza esprimersi a parole, Heath era consapevole che lei stesse aggiungere altro.

«Forse potremmo aiutarci a vicenda», propose infatti lei, senza però avere il coraggio di guardarlo. Non poteva quindi vede l'espressione interrogativa del suo interlocutore. 

Non i fu bisogno di chiedere chiarimenti, perché lei aggiunse, quasi avesse intuito la sua domanda: «Io potrei mettere in riga voi e ricordarvi ogni volta che tenterete di tornare sulla strada sbagliata di comportarvi bene...».

«Come già state facendo, se non erro», la interruppe lui, e guadagnandosi così un'espressione indurita da parte di Joyce, che comunque finse di non aver sentito nulla. 

«E voi farete lo stesso con me», aggiunse, tornando a sorridere, soddisfatta dalle sue parole. 

Joyce voltò ancora la testa a guardare Heath, come se lei stessa non credesse a ciò che stava per dire: «Potremmo sostenerci l'un l'altra. Per esperienza so che è più facile riconoscere gli errori degli altri piuttosto che i propri».

«Mi sembra un buon compresso. Io dico a voi dove state sbagliando, e voi potete fare lo stesso con me», convenne Heath prima di aggiungere ancora in tono sarcastico: «Che, ribadisco, è quello che fate già da tempo... più o meno da quando siete entrata nella mia vita».

Questa volta lei non gli lanciò un'occhiata furente, anzi, sorrise perfino. In fondo era la pura verità, ma solo perché era quella una parte fondamentale del suo lavoro.

«Quindi sono convinta che vi divertirete a farlo a me, sir Heath. Sarà una specie di rapporto alla pari, ma solo ad una condizione».

«Quale?», per qualche istante Heath pensò che stesse per fregarlo con qualche clausola, invece lei disse soltanto: «Ogni volta che uno dei due sbaglierà, e gli verrà fatto notare dall'altro, dovrà accettarlo e sforzarsi di cambiare il suo comportamento. Non potrà rifiutarsi di farlo».

Era ovvio che lo stesse spingendo ad impegnarsi ancora di più nel suo percorso di miglioramento. Una parte di lui non avrebbe mai voluto accettare, ma allo stesso tempo era curioso. 

Curioso di scoprire come quel cambiamento nella loro relazione potesse evolversi. 

Annuì: «Mi sembra giusto e corretto».

Poi aggiunse, cambiando discorso: «Ora è meglio se me ne vado e vi lascio da sola, avete bisogno di riposare».

«Grazie».

Girò la sedia a rotelle, in procinto di avvicinarsi all'uscita della camera da letto, ma prima di andarsene, si voltò ancora a guardare Joyce, che era tornata a sorseggiare la zuppa.

«Mi dispiace di avervi disturbata, ma mi ha fatto piacere parlare con voi».

Per l'ultima volta Joyce lo guardò, gli sorrise e aggiunse: «Anche a me ha fatto molto piacere, e non mi avete affatto disturbata. Anzi, gradirei molto la vostra compagnia anche nelle prossime sere, se ci farà piacere».

Heath annuì soltanto, senza avere il coraggio di aprire bocca e rivelare ciò che pensava e voleva davvero. 

Uscì dalla camera, lasciandola da sola, ma, proprio come aveva richiesto lei, quella non fu l'unica sera che passarono insieme, di fronte al fuoco, nell'attesa che la salute di lei migliorasse. 

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