Capitolo XVI

Non era stato facile liberarsi di Joyce nei giorni successivi al loro arrivo alla capitale. Aveva annunciato il suo desiderio di essere lasciato in pace, fino al momento dell'incontro con Paulina, ma era difficile uscire da casa senza che la sua infermiera personale se ne accorgesse.

D'altronde tra i suoi tanti compiti c'era anche quello di rendergli la vita migliore accompagnandolo e aiutando dove non poteva fare da solo. 

Perciò non fu così strano che si offrì di uscire insieme a lui, quando finalmente Heath palesò il desiderio di non restare chiuso dentro quelle quattro mura cittadine.

«Non avete di meglio da fare?», fu la risposta secca di lui che, per vari motivi, non voleva uscire con lei. 

Come poteva indagare sul passato delle donna con lei presente? Era escluso, doveva trovare un modo per convincerla a non andare e allo stesso tempo non insospettirla.

Quest'ultima cosa non certo molto facile, considerato il tono che aveva usato e la velocità con la quale aveva risposto alla sua gentile offerta di aiuto. 

Lo vide dei grandi occhi di lei che si era già insospettita mentre affermava: «Io sto lavorando, signor Heath, e parte del mio lavoro è anche quello di offrirvi assistenza ventiquattro ore su ventiquattro».

Aveva usato un tono volutamente canzonatorio con un filo di presunzione, e un sorriso divertito sulle labbra, convinta che tutto ciò lo avrebbe indispettito. Ed infatti era proprio così, solo che Heath era troppo occupato a trovare un scusa per far notare quanto fosse offeso. 

«Bè», riprese, quasi timidamente: «Se così stanno le cose, posso dirvi che siete esentata da ogni compito da infermiera quest'oggi... farò a meno di voi».

«E come farete?», chiese lei, ancora più insospettita. Intuiva che c'era un motivo ben preciso se Heath voleva uscire di casa da solo, ma allo stesso tempo era anche felice di vederlo pronto a fare qualcosa di diverso dal restare chiuso nella sua camera. 

«Ci sono sempre i due valletti messi a mia disposizione. Loro mi aiuteranno».

E così fu costretto a portare anche quei due ragazzi che comunque, dovette ammettere almeno a se stesso, furono piuttosto utili considerato che non senza l'aiuto di qualcuno non era neanche in grado di salire sulla carrozza. 

Erano giovani e baldanzosi, con lo stessa espressione che poteva avere un ragazzo pieno di aspettative e volenteroso di fare bella figura con il proprio datore di lavoro. Fin troppo esuberanti per i gusti di Heath, ma fu costretto a portarli con se. 

Non ricordava neanche i loro nomi, e poco gli interessava, ma ci tenne subito a mettere le cose in chiaro con loro e a fargli promettere che non avrebbero mai detto a nessuno dove stavano andando. Stessa promessa a cui obbligo anche il cocchiere. 

Non poteva fare a meno di ridere soddisfatto, mentre osservava dal finestrino l'enorme monastero, imponente e anche un po' spaventoso, davanti al quale si erano fermati. 

Aveva avuto paura che non sarebbe stato in grado di liberarsi di Joyce per una giornata, e invece era riuscito a raggiungere quel posto da solo, senza essere scoperto. E finalmente stava per entrare nel luogo dove la ragazza era cresciuta. 

Ebbe qualche istante di titubanza, ora che era giunto fino a lì e che bastava poco per ottenere tutte le risposte ai suoi dubbi e alle sue curiosità.

Una parte di lui, quella che sopiva nascosta in un angolo del suo cuore, sapeva che stava facendo una cosa sbagliata. 

Intromettersi nella vita privata, e passata, della sua infermiera, non era molto corretto, ma poi si ricordò che non aveva più voglia di essere una persona che cerca sempre di fare la cosa giusta. 

Voleva osare, e proprio per questo si fece aiutare dai due ragazzi per scendere dalla carrozza e poi intimò loro di restare lì fuori ad attenderlo. Non sapeva quanto tempo avrebbe perso dentro il monastero, ma sapeva di aver bisogno di intimità. 

La novizia che gli aprì le grandi porte di legno del monastero era giovane e lo accolse con gentilezza ma quando chiese di poter vedere la madre superiora, risposte sinceramente dispiaciuta: «Al momento non c'è e non so di preciso quando tornerà. Posso esservi io di aiuto?».

«In realtà non saprei» finse di avere un atteggiamento il più possibile innocuo, come se fosse davvero lì di passaggio e non per un motivo preciso: «Sono un paziente di lady Joyce e so che è stata lei a consigliarla ai miei amici».

Non sapeva bene cosa avrebbe dovuto aspettarsi, e una parte di lui era già convinto che avrebbe fatto un buco nell'acqua, perciò fu sorpreso quando gli occhi della novizia si illuminarono e lo accolse senza batter ciglio all'interno del monastero.

A quanto diceva lei, conosceva bene Joyce, ed era ben felice di parlare con Heath anche solo per sapere come stesse la sua amica. 

Ma prima di tutto gli fece fare un inutile giro turistico del posto, che durò così tanto che Heath iniziò a pensare che il monastero fosse infinito.

Non aveva visto tanti luoghi di culto, ma ad un certo punto, al suo occhi poco cristiano, sembravano tutti uguali.

Molto silenzioso, nonostante il continuo andirivieni delle suore, con ambienti un po' freddi e atmosfera scura e lugubre. D'altronde era una monastero, non certo un locale notturno. 

Si sentiva a disagio di fronte a quello stile di vita così morigerato e devoto, ed evitò scrupolosamente d'incrociare con gli occhi tutti i crocifissi appesi alle pareti. 

Quando finalmente la novizia ebbe finito di vantarsi con orgoglio di tutti i loro bellissimi affreschi e offrì al suo ospite del tè caldo, era passato così tanto tempo che l'unica gamba buona di Heath si era irrigidita a causa del freddo.

Forse anche per questo accettò l'invito e si ritrovò in una stanzetta molto più piccola degli altri ambienti, e dall'atmosfera molto più confortevole rispetto ai luoghi di culto e di preghiera che aveva visitato fino a quel momento. 

C'era anche un piccolo camino accesso, che riscaldava la stanza completamente in pietra. Fu lì che Heath si piazzò, gioendo quasi del calore eccessivo sul viso, mentre la donna preparava il tè. 

Quello era il momento per cercare di aprire il discorso e indagare sul passato di Joyce ma non sapeva come farlo senza sembrare troppo invadente o inopportuno. Non voleva insospettirla con domande strane, ma non aveva ancora molto tempo.

«Così voi siete cresciuta insieme a lady Joyce?», chiese lui, con tono il più indifferente possibile, cercando di dare l'impressione di essere più interessato a lei che a Joyce.

E fu la ragazza a donargli tutte le informazioni che voleva senza bisogno neanche di chiuderle nulla. Perché pochi minuti dopo Heath comprese che la giovane novizia era una gran pettegola. Quasi al pari di lady Albany. 

«Oh, non proprio. Io sono cresciuta qui, avevo poco più di otto anni... ma Joyce è venuta qui molto più tardi, sapete, lei veniva da una buona famiglia caduta in disgrazia. Avevano molti soldi, davvero molti...».

La ragazza era molto precisa nel raccontare, quasi come se avesse sentito quelle storie dalla fonte stessa. Eppure, per qualche strana ragione, Heath era convinto che invece avesse sentito quelle storie da altre persone, e non dalla stessa Joyce.

«Poi però il padre ha perso tutti i soldi ed è stato abbandonato da tutti i suoi amici. Così la giovane Joyce è andata a vivere dalla zia, unica parente ancora di un certo valore nella società».

Il suo tono di voce era talmente coinvolto e appassionato che si comprendeva bene che la ragazza fosse davvero interessata alla vita degli altri, quasi in modo morboso. 

Heath non sapeva neanche perché sentisse il bisogno di raccontare a lui, uno sconosciuto, tutta la storia di un'altra ragazza, come se ne avesse il diritto.

La parte di lui nascosta fu quasi sul punto di gridare addosso alla suora e intimarle di stare zitta, perché sparlare dei fatti privati di un'altra persona era sbagliato.

E gli dispiaceva perfino per Joyce, perché a quanto sembrava non aveva avuto una buona amica, considerato che quella che si era presentata come tale la stava tradendo così alle spalle.

Ma la parte di lui più subdola invece ebbe la meglio e resto in silenzio, in piena attenzione.

«La zia è una donna molto severa, all'antica, che non ammette errori. E purtroppo Joyce ne ha fatti di errori, e anche molto gravi...», la suora iniziò ad abbassare il suo tono, mentre si sedeva accanto ad Heath, su una poltrona all'apparenza molto comoda, e gli serviva il tè. 

«Ho sentito certe voci, ma non credo alle chiacchiere», mentì lui, con l'unico intento di spingerla ad andare avanti.

Lei annuì, quasi contenta: «Potete credere a quanto vi dirò, visto che ho le prove. Joyce si è fatta illudere da un uomo, o lei ha illuso lui... questa cosa è e credo che resterà sempre un mistero. Comunque ha macchiato la sua dignità e il suo onore ed è rimasta incinta. Per questo la zia l'ha cacciata di casa».

«Quindi è vero quello che dicono?».

«Certo! Come è vero che la madre superiora ha deciso di prendere sotto la sua ala protettrice Joyce, portandola al convento. Lei dice sempre qui sono tutti benvenuti, soprattutto i pentiti e coloro che vogliono redimersi. Anche per questo Joyce ha deciso di mettere la sua vita al servizio del prossimo, per i suoi errori passati».

Per lei sembrava una cosa bella, di cui vantarsi, ma d'altronde era una suora e basava tutta la sua vita sul cercare di aiutare il prossimo. Ma ad Heath non importavano quei dettagli, lui era interessato ad altro.

«E chi è l'uomo di cui parlate?».

Lei fece spallucce, prima di sorseggiare un po' del suo tè aromatizzato e poi specificare: «Purtroppo non lo so, nessuno a cui l'ho chiesto lo sa... e Joyce ovviamente non ha mai fatto il suo nome. C'è chi dice che è un uomo di alto lignaggio, probabilmente imparentato con l'Imperatore, o chissà. Comunque la zia non le ha perdonato l'errore e la diseredata, perciò a Joyce non rimaneva molta scelta, considerato che l'uomo ha scelto di non riconoscere la bambina».

«Bambina?», chiese lui, momentaneamente confuso. Ma doveva aver fatto la domanda giusta perché gli occhi della suora si spalancarono, preoccupata di aver detto troppo, e nascose il viso davanti alla tazza, fingendo di non aver sentito.

Cambiò perfino discorso, per distrarlo: «Comunque, cosa vi porta qui, nella Capitale? La vita di Plaingrass è così noiosa?».

Lui comprese subito che aveva toccato un nervo scoperto, e che era molto vicino a ad arrivare alla verità, ma era anche consapevole che non poteva insistere troppo senza sembrare invadente, per questo a rispose con educazione.

«No, non è male vivere in un piccolo paese, a volte ci si annoia un po', ma sono un pover uomo costretto sulla sedia a rotelle, quindi per me un po' tutto sembra diverso e poco allettante».

Non voleva farsi compatire, ne tanto meno trasferire l'attenzione su stesso, non quando stava per scoprire sempre più cose su Joyce, ma non aveva molta scelta.

La donna gli sorrise e gli mise una mano sul braccio, con fare materno: «Pensate questo solo perché forse non riuscite a vedere con i vostri stessi occhi quante opportunità potete ottenere anche voi».

«In questo Joyce mi sta dando un grande aiuto», non lo avrebbe mai ammesso di fronte alla ragazza, ma doveva almeno constatare che si stava impegnando molto per cercare quanto meno di riportarlo alla vita.

E la suora non mancò di tessere le lodi della sua amica: «Oh, non ne dubito, Joyce è una delle infermiere migliori che sono state istruite dalla madre superiora, la sua alunna prediletta».

«Che strano, però, non ho mai visto lady Joyce ricevere una lettera», voleva tornare al discorso di partenza, e magari con un po' di fortuna farsi raccontare tutto, e cercò di farlo con estrema indifferenza. 

«La madre superiora non è molto incline a dimostrazioni di affetto, preferisce che le proprie adepte percorrano il resto della strada della vita da sole, con le proprie forze, e non vuole alcun tipo di riconoscimento».

«Capisco», azzardò lui, pensieroso: «Ma possibile che non ci sia nessuno in vita che abbia piacere a scambiarsi missive con questa ragazza?», non gli fu neanche troppo difficile assumere un tono dispiaciuto.

Poteva in parte capire che cosa significava essere completamente soli, anche se lui lo aveva scelto, mentre a Joyce era capitato.

La giovane suora ci pensò qualche istante, prima di alzare le spalle: «Non saprei. La sua famiglia è sparita da quando sono caduti in disgrazia, forse sono morti, sua zia non vuole più avere contatti con lei e l'alta società si è completamente dimenticata di Joyce. Non ha nessuno, a parte...».

Ancora una volta la giovane si pentì di essersi spinta un po' troppo oltre e tacque, non prima di arrossire e abbassare lo sguardo.

«Ora scusatemi», si alzò si scatto, prelevando dalle mani di Heath la tazza vuota: «Ma ho del lavoro da fare e si sta avvicinando l'ora della preghiera, quindi se non vi dispiace, vi accompagnerei fuori».

Capì che non avrebbe ottenuto altro da lei, perciò non insistette, ma prima ancora che i due potessero uscire dalla stanza insieme, la precedette: «Non importa, sorella, so ritrovare la strada da solo, non voglio farle fare tardi».

Non dovette insistere troppo, forse la ragazza aveva paura a restare ulteriormente con lui e quindi rivelargli qualcosa in più, ma per Heath fu un bene. Era proprio quello che voleva, girare libero per il monastero.

C'era un luogo, in particolare, che ricordava dal giro turistico che gli aveva fatto fare la novizia e che gli era tornato in mente dopo la conversazione. Un tarlo nella testa non voleva abbandonarlo e così si trascinò con la sedia a rotelle fino ad un piccolo cortile.

L'ampio colonnato dava al luogo un aspetto quasi antico, di altri tempi, ma non era certo per la bellezza che si era incamminato fino a lì.

Dall'altra parte del cortile rispetto a dove stava lui, una vetrata permetteva di vedere all'interno di una aula scolastica. Le bambine, che aveva scorto per caso anche all'inizio, erano ancora lì, chine sui libri mentre una suora anziana spiegava loro qualcosa alla cattedra.

Era una decisa, almeno, ma non poteva vederle bene, essendo troppo lontano, eppure non poté togliersi dalla testa la sensazione che doveva cercare una bambina in particolare. Non sapeva quale, ma la sua voce interiore gli diceva che era sulla strada giusta. 

«Se state cercando la figlia di Joyce, non è qui...», una voce tuonante e austera lo fece spaventare al punto da farlo saltare sulla sedia. Da tempo non provava il terrore nelle ossa solo a sentire parlare qualcuno.

Il nonno di Byron aveva quel talento, ma lui era molto da tempo, nonostante la sua voce a volte ancora riecheggiava nei suoi incubi. 

Quando si voltò, si ritrovò di fronte ad una vecchia suora che riconobbe subito- anche se non l'aveva mai vista - come la madre superiora.

«Sorella Nelly mi ha parlato di voi e credo di aver capito perché siete qui. Ma non troverete la figlia di Joyce».

«Quindi Joyce ha avuto una bambina fuori dal matrimonio? E voi sapete dove si trova?», provava una strana sensazione di fronte a quella donna dal viso rigido, pieno di rughe e dall'espressione impenetrabile.

Gli dava l'impressione di essere una donna con la quale sarebbe stato impossibile discutere. 

«Joyce sa che sua figlia sta meglio senza di lei, che verrà cresciuta secondo i dettami religiosi e che avrà l'educazione migliore. E Joyce sa che può fare ciò che fa, aiutare il prossimo e crearsi un futuro migliore, solo se rinuncia a sua figlia. Entrambe non necessitano dell'esistenza dell'altra».

Ogni singola parola pronunciata dalla donna gli sembrava così sbagliato che un brivido gli percorse la schiena. Eppure non erano affari suoi.

Proprio per questo se ne andò senza chiedere ulteriori spiegazioni o informazioni sulla bambina. 

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