Capitolo XIV

Joyce si era spinta già troppo oltre i suoi doveri d'infermiera quando aveva chiesto al capitano Moore di investigare sulla corrispondenza del suo paziente. 

Eppure ciò non la fermò nel fare un ulteriore passo avanti, infrangendo ancora di più l'intimità e la riservatezza di Heath.

Non che una parte di lei non si sentisse in colpa, anzi. In testa le risuonava la voce perentoria della madre superiora che le diceva: Disciplina, Joyce, disciplina. 

E mentre si avvicinava alla stanza vuota del suo paziente, riusciva perfino a vederla la faccia della suora, che la osservava dall'alto della sua superiorità morale, scuotendo la testa e giudicandola anche senza affermare nulla.

Ma un'altra parte di lei non riusciva a dimenticarsi l'ultima conversazione avuta con il signor Heath, la sera prima. 

In una situazione normale si sarebbe sentita offesa, oltraggiata dai suo modi e dalle sue insinuazioni. E invece era solo molto decisa e pronta ad arrivare al nocciolo della questione.

O almeno a risolvere l'enigma che si celava dietro al suo paziente prima che fosse stato lui a scoprire il suo segreto. 

Così aveva approfittato dell'assenza dell'uomo, uscito con il suo caro amico d'infanzia, per fare una cosa che mai e poi mai avrebbe dovuto fare. Entrare nella sua camera da letto e leggere le lettere. 

Non ebbe alcuna titubanza nel chiudersi la porta alle spalle, accostandola così da poter vedere sempre con la coda dell'occhio il corridoio, ma si fermò in mezzo alla stanza incerta sul da farsi.

Con tutta se stessa si stava maledicendo per il gesto, ma mentre la sua mente le diceva di fermarsi, il suo cuore le intimava di andare avanti. E alla fine il suo corpo assecondò i desiderio del secondo. 

Si mise a cercare ovunque quelle lettere, tra i cassetti del grande comò, sulla scrivania posta vicino alla finestra, si mise perfino a controllare se nel camino ci fosse qualche fessura nascosta. 

Ad un certo punto ebbe quasi la paura che le avesse bruciate, o che comunque si fosse liberato di quei pezzi di carta che lo facevano soffrire. 

Ma non aveva senso. Heath aveva conservato mesi e mesi di lettere, anche se mai le aveva aperte. Quindi era impossibile che avesse deciso di liberarsene proprio in quel momento. 

Ricontrollò così tutto quanto per due volte, credendo forse che le fosse sfuggito qualcosa. Come una pazza iniziò a disperare, mentre il tempo passava e la preoccupazione che Heath potesse tornare si faceva sempre più spazio in lei.

Quando ad un certo punto, proprio nel momento in cui stava per desistere ed uscire a mani vuote, ebbe l'idea di controllare sotto il letto.

Lei da piccola, quando non voleva farsi scoprire dalla zia, ci nascondeva i bigliettini d'amore che riceveva, e aveva continuato con quell'abitudine anche negli anni in cui era stata in convento.

Così s'inginocchiò sul pavimento freddo e infilò il bracciò sotto al morbido materasso del letto, trovando a tastoni quello che cercava. 

Tirò fuori dal nascondiglio improvvisato una manciata di lettere, non tutte quelle che aveva visto, ma a sufficienza per farsi un'idea. Si mise seduta sul letto e iniziò a leggere. 

La paura e la fretta le avevano fatto dimenticare completamente ogni senso di colpa, e mentre scorreva le righe scritte, non si rese conto di quello che in realtà stava facendo. Era entrata a grandi passi della vita privata di una persona, senza chiedere il suo permesso. 

«Che cosa state facendo?», la voce, alquanto furiosa, di Heath, la ridestò dalla sua lettura intensa e la fece balzare in piedi, cosa che causò la caduta di tutte le lettere che aveva in grembo, mentre quella che stava leggendo rimase ancorata alle sue mani. 

Non fece in tempo a dire nulla, rimase a fissare il suo paziente, colta in fallo, rossa in viso per l'imbarazzo che quella situazione le causava.

Lui lanciò un occhiata alla lettera che teneva in mano, e poi a quelle cadute a terra, prima di sentenziare con rabbia: «Non avevate il diritto...».

Joyce sapeva che era sul punto di cacciarla via a malo modo, così lo precedette ed iniziò a dire: «Lo so, non avrei dovuto farlo, ma voi dovreste leggere queste le...», non riuscì però a finire di parlare perché lui la zittì con un solo sguardo pieno di odio.

«Andatevene», le sussurrò, con un tale rancore che Joyce lo sentì nella pelle e la fece rabbrividire. Una parte di lei avrebbe senz'altro voluto fuggire, e invece rimase a combattere.

«No, adesso voi mi ascoltate», continuò con fermezza, puntando i piedi e imponendosi di non abbassare lo sguardo: «Queste lettere non contengono ciò che credete, Heath, e penso che vi farebbe bene leggerne qualcuna».

Come se avesse ricevuto un consenso silenzioso, Joyce iniziò a leggere ad alta voce, l'ultima lettera che Heath aveva ricevuto in ordine cronologico: «Caro signor Allroy, inizio a credere che non abbiate intenzione di rispondere a nessuna delle mie missive».

«Smettetela!», l'avvertì lui, sempre senza alzare il tono di voce, ma comunque minaccioso.

Joyce lo ignorò: «Confido che voi stiate bene e che prima o poi decidiate di rispondermi. Ho parlato con i medici che vi hanno avuto in cura e loro...»

«Ho detto basta», urlò questa volta il suo paziente, avvicinandosi di qualche centimetro, ma lei non si lasciò impressionare: «... mi hanno assicurato che il vostro fisico si stava riprendendo, con le dovute precauzioni e gli ovvi cambiamenti. A quanto mi hanno rivelato, con una certa reticenza devo ammettere, è il vostro animo che fatica a riprendersi, e che quindi ...».

A quel punto, non ottenendo risposta da lei, Heath si era avvicinato a tal punto da alzare una mano e tentare di strapparle la lettera, solo che non fu abbastanza veloce. Approfittando della differenza di altezza, Joyce aveva portato il foglio lontano dalla sua traiettoria e con una certa difficoltà aveva continuato a leggere.

«...e che quindi non devo pensare che la vostra indifferenza nei miei confronti sia a causa mia, ma piuttosto a causa di un vostro problema».

«Ridatemi la lettera, è mia», iniziò a gridare sempre più forte Heath, cercando di allungarsi quanto più poteva ma sempre senza riuscire a raggiungerla.

«Prendetela, se ci riuscirete», gli risposte con tono di sfida, senza vergognarsi della situazione, prima di riprendere la lettura: « Mi auguro che presto possiate stare meglio, anche emotivamente, e vi rinnovo il mio invito a venirmi a trovare, nella dimora del mio caro defunto marito. Inoltre, qualora non avesse letto le precedenti lettere, vorrei ancora una volta ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per lui. Con riguardo, Pauilina».

Quando ebbe finito di leggere non riuscì a non trattenere un sorriso: «Sono tutte così, Heath. Lei vi è grata e non vi accusa della morte del marito...».

«Non avevate il diritto di leggerle, ridatemela!», Heath si sporse troppo, aiutandosi e appoggiandosi ai braccioli della sedia, cercando di alzarsi il necessario per raggiungere il foglio ma il risultato fu che si sbilanciò in avanti.

Non riuscendo a tenersi in piedi, cadde sopra a Joyce che, impreparata, a sua volta perse l'equilibrio e così si ritrovarono, l'uno sopra l'altra, sdraiati sul letto.

I loro volti, a poca distanza, si fissarono per attimi interminabili, con estremo imbarazzo. Nessuno dei due per molto tempo riuscì anche solo a parlare, figurarsi ad agire. 

Joyce sentiva il peso del corpo di lui sopra al suo, ma non era spiacevole, anzi, era una sensazione fin troppo accogliente considerata la sua posizione di infermiera.

E poi il modo in cui la guardava, come se nulla avesse più importanza di loro due, così vicini, le fece mancare l'aria per qualche istante.

Quando però si ricordò perché era lì, a Plaingrass, e che tutto ciò che stava succedendo in quel momento era sbagliato, tornò in sé e si liberò dal suo peso con delicatezza ma altrettanta fermezza, lasciandola sdraiato sulla schiena mentre si rialzava.

«Bè, come dicevo», riprese, consapevole di essere rossa in viso come non mai, mentre cercava di darsi un contegno: «La signora Simons non è affatto arrabbiata con voi, anzi, vuole conoscervi... e io penso che sia tremendamente maleducato rifiutare il suo invito».

Heath si era puntellato sui gomiti per potersi alzare quel tanto che bastava a guardarla in volto. Era anche lui visibilmente scosso da quello che era appena successo, eppure si concesse un sorriso sornione.

«Voi dite?», il tono che usò fu perfino sarcastico, segno che neanche lui aveva intenzione di parlare del piccolo incidente.

«Sì, ed è per questo che andremo a trovarla», aveva parlato ignorando i modi canzonatori di Heath, consapevole che avrebbe trovato un po' di resistenza, ma era pronta a far valere le sue ragioni. 

«So che lord Byron ha una casa nella capitale e sono sicura che sarebbe molto felice di prestarcela per qualche settimana. Andrò subito a scrivere per vostro conto alla signora Simons, così potremmo prendere appuntamento con lei».

Era sul punto di voltarsi e andarsene, ma Heath scosse la testa: «Non crederete certo di riuscire a costringermi, spero? Io non vado da nessuna parte».

Joyce se lo aspettava ma comunque le diede fastidio vederlo gongolare, come se fosse veramente consapevole di avere il pugnale dalla parte del manico.

E fu ancora più piacevole per lei quando, con le mani sui fianchi, asserì: «Oh, signor Heath, ma voi accetterete di buon grado la mia offerta».

Si prese perfino del tempo, gustandosi la risata diabolica del suo paziente, che ovviamente non sapeva che tipo di asso nella manica aveva lei.

«E come farete a convincermi?», chiese lui dopo essersi ripreso da una risata incontrollata, con le lacrime agli occhi.

«Con una scommessa».

Joyce lo vide chiaramente il momento in cui Heath cambiò espressione e divenne più interessato. Rimase perfino in silenzio, sicuro che presto sarebbe stata lei a spiegarsi meglio senza ulteriori domande.

«Se accettate di venire con me nella Capitale e d'incontrare la signora Simons, allora potrete liberarvi per sempre di me... sempre se è ancora questo il vostro desiderio».

«State dicendo che vi licenzierete?», incuriosito ancora di più, Heath si era sforzato per poter mettere quasi seduto e osservarla bene. La studiava per scorgere nella sua espressione, o nei suoi movimenti, un segnale di menzonia.

Ma Joyce sorrise serafica: «Se non mi vorrete più fra i piedi, io me ne andrò. Ma dovrete dirmelo apertamente. Affare fatto?».

Joyce allungò la mano verso di lui, anche se lo fece un po' timorosa. La sua paura era che il contatto potesse riaccendere in lei qualcosa, come era successo qualche minuto prima. 

Ma quando Heath le strinse la mano, per sua fortuna, non successe nulla. Solo uno scambio tra due persone mature e che un po' si odiavano.

«Affare fatto, signorina Joyce. E ve lo dico già da adesso, una volta conosciuta Paulina, lei sarà ufficialmente licenziata».

C'era un certo sentore di godimento nella voce di Heath, misto però ad un po' di amarezza. Forse era un po' dispiaciuto? Già sentiva la mancanza della sua infermiera?

O forse era solo tutta un'impressione di Joyce che ancora sperava di poter rivedere la parte umana di Heath.

In realtà non era solo una mera speranza. Lei aveva visto qualcosa di molto più profondo in quei pochi istante sdraiata sotto di lui. 

E non poteva esserne sicura ma le sembrava che anche Heath fosse rimasto scosso e sorpreso dalla reazione del suo corpo a quel contatto. 

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