Capitolo XI
Le parole di lady Albany avevano acceso la sua curiosità, anche se una parte di lui era propensa a non crederci. I pettegolezzi, spesso e volentieri, erano delle enormi bugie.
Ma se c'era una minima possibilità che avesse detto il vero, Heath voleva saperlo. Poteva essere l'espediente giusto per liberarsi di lei una volta per tutte e non poteva farsi scappare quell'occasione.
Anche se, ogni volta che la scrutava di nascosto, tra un esercizio mattutino e l'altro, era dubbioso che una donna come Joyce potesse essere così calcolatrice.
Sarebbe stato stato davvero deludente scoprire che il pettegolezzo su di lei in realtà era pura verità. Ma allo stesso tempo sarebbe anche stata la prova che aveva ragione nel pensare che tutta l'umanità era meschina.
Più ci pensava, più non riusciva a smettere di farlo. Ci rimuginava così tanto che ormai quel pensiero era il primo al mattino ad ossessionarlo e l'ultimo alla sera ad abbandonarlo.
Per un po' aveva perfino smesso di pensare alla sua patetica esistenza e condizione, come se nulla fosse così importante come scoprire la vera natura dell'infermiera Joyce.
Immaginava di portarla allo scoperto, magari in pubblico, portando le prove del suo comportamento scorretto e ridendo di lei davanti a tutti.
Gli sarebbe piaciuto smascherarla per osservare la sua espressione, di solito sempre sicura di sé, nel pieno dell'umiliazione. Sarebbe stato il momento più bello della sua vita da quando era tornato a Plaingrass.
E fu così che si convinse ad indagare, progettando un modo per riuscire a scoprire se effettivamente Albany aveva detto la verità oppure no.
Per prima cosa si era intrufolato nella camera da letto di lady Joyce un pomeriggio in cui era stata invitata da Astrid a bere del tè nella casa principale.
Se fosse stato ancora un gentiluomo, come un tempo, non avrebbe mai varcato la soglia di un luogo così intimo per una signora. Ma in quella situazione non ne ebbe neanche un attimo di esitazione. La sua esigenza era più forte del suo onore.
Invece ebbe una certa remora a controllare i cassetti dell'armadio. Non lo aveva mai fatto in vita sua ed era conscio che stava mettendo le mani tra l'abbigliamento intimo di una fanciulla.
Oltretutto non trovò nulla di decisivo, nessuna prova anche se fin dall'inizio non era sicuro di sapere che cosa avrebbe voluto trovare all'interno della camera.
Per un istante aveva quasi sperato di trovare un ritratto di un bambino, o qualche lettere segreta di un amore non corrisposto. E invece nulla.
Un po' strano, pensò. Possibile che Joyce non avesse contatti con nessuno all'infuori della tenuta?
Perfino lui, che ormai era un eremita scorbutico, riceveva corrispondenza, seppur indesiderata. E non poteva immaginare che cosa significava davvero essere invisibile per il resto del mondo.
Era quello che aveva sempre valuto, e una parte di lui fu perfino invidiosa di lady Joyce. Ma fu solo un'istante.
Per quanto non avrebbe mai voluto ammetterlo, ricevere regolarmente lettere dai suoi parenti e amici era stato l'unico incentivo ad andare avanti in un periodo buio.
A volte aveva desiderato di non leggerle, spesso aveva maledetto i mittenti per le loro bellissime vite perfette, ma in fondo era grato per loro continua presenza. Alla maggior parte delle lettere non aveva risposto, ma le aspettava come un bambino la mattina di Natale.
Se ne rendeva conto in quel momento, che tenere in mano quei fogli di carta, tutte le settimane, era la prova che qualcuno continuava a tenere a lui.
Uscì dalla stanza dell'infermiera con un peso maggiore sul petto, pentendosi di averlo fatto. Non solo non aveva trovato ciò che stava cercando, ma si era perfino sentito in colpa e dispiaciuto per lei.
Ma ciò non lo aveva fermato ad indagare. Il primo tentativo era andato a vuoto, ma non si arrendeva. Era pur sempre un uomo sulla sedia a rotelle che si annoiava la maggior parte del tempo.
Il suo secondo tentativo includeva il coinvolgimento di lord Byron, anche se lui non avrebbe mai dovuto scoprire che era implicato. Non voleva fargli capire cosa stata facendo, ma allo stesso tempo sapeva di aver bisogno del suo aiuto.
Così con una scusa si fece raggiungere nella piccola veranda della sua dimora, che si affacciava direttamente sul bosco quasi infinito di proprietà dei Devenport.
Era una giornata abbastanza tranquilla, aveva piovuto la mattina ma il sole aveva asciugato l'erba e il vento gelido della mattina si era trasformato in una brezza piacevole.
«Pensavo che questo momento non sarebbe mai giunto», si presentò il padrone di casa, sull'uscio della finestra che divideva il salotto dalla veranda, con un sorriso tirato. Era in evidente circospezione, aspettandosi forse di vedere il suo amico rispondergli in tono brusco. Ormai tutti era in tensione di fronte ad Heath.
«Non fare il nostalgico, è solo una chiacchierata davanti ad un bicchiere di bourbon», attenuò subito il suo entusiasmo, già poco convinto, ma cercò di non essere troppo acido. Non voleva farlo scappare subito.
In tutta risposta Byron decise di restare in silenzio, prese posto accanto a lui, con il tavoli degli alcolici a dividerli e versò qualche goccia di liquido ad entrambi.
Era corso subito da lui, non appena ricevuto quell'invito, lasciando qualsiasi cosa stesse facendo in quel momento per approfittare del buon umore di Heath e sperare di passare un po' di tempo insieme.
Ma una volta arrivato, non sapeva cosa dire o fare, così rimasero entrambi in silenzio per svariati minuti, sorseggiando il bouborn in evidente imbarazzo. O meglio, Byron era in imbarazzo, mentre Heath stava solo cercando di capire come ottenere ciò che voleva senza insospettire il suo amico.
Aveva provato molte opzioni, ma nessuna delle quali lo convincevano abbastanza da dargli il coraggio giusto per aprire la bocca e chiedere.
Ed era ancora pensiero e distratto, quando Byron disse, per sciogliere il ghiaccio, indicando con un gesto leggero del capo il bosco di fronte a loro: «Quanto tempo abbiamo passato tra quegli alberi a cavalcare?».
Non era una vera e propria domanda che si aspettava una risposta precisa ma più un'affermazione che aveva l'intento di scaturire in Heath pensieri felici di un passato andato.
E per qualche istante ci riuscì, fino a quando rinchiuse dentro un angolo buio del suo cuore quei ricordi che causavano solo dolore e rabbia.
«Forse anche troppo tempo, direi», biascicò con tono così basso che quasi Byron non riuscì a sentirlo, e Heath ne fu felice. Non avrebbe voluto dirlo, ma era uscito senza controllo.
Troppo spesso si ritrovava a fare o dire cose che in realtà non avrebbe voluto fare o dire, solo perché invaso da sentimenti negativi.
Byron però non si lasciò persuadere dall'atteggiamento passivo dell'amico, e continuò imperterrito: «Sono deluso... ho saputo che sei andato a cavallo con lady Joyce, che mi hai tradito».
Era evidente che fosse ironico, si poteva percepire non solo da tono ma anche dal sorriso sincero che illuminava il suo volto: «Pensavo di essere io il tuo compagno di cavalcate».
«Non ho avuto molta scelta, è stata astuta», sentenziò: «E con tutto il rispetto, Byron, ma lei è una compagnia più piacevole alla vista».
Per qualche istante i due amici d'infanzia si guardarono, entrambi sbalorditi e timorosi allo stesso tempo. Heath aveva fatto una battuta, non per offendere o mettere in imbarazzo come ultimamente era solito fare, ma solo per ridere.
E fu proprio quello che fecero entrambi. Scoppiarono a ridere, di gusto, insieme, per la prima volta dopo anni.
Il cuore di Heath prese ad accelerare il battito, solo per qualche istante, e il suo respiro si fece più veloce. Conosceva quella sensazione di gioia, ma negli ultimi anni era stata solo un'estranea, al punto che si sentì perso.
Non sapeva più come reagire alla gioia e alla quotidianità. Per sua fortuna Byron colmò quel momento annuendo, più felice di lui, e asserì: «Questo te lo concedo, prima di Astrid avrei preferito anche io cavalcare insieme ad una fanciulla piuttosto che con il mio migliore amico».
I due si guardarono ancora per qualche istante, con intensità: «Ma la prossima volta che vuoi fare una scorsa, esigo di essere presente», riuscì perfino a farselo promettere e Heath si ritrovò a pensare che non avrebbe avuto altra scelta.
«A proposito di lady Joyce», approfittò di quella situazione per iniziare il discorso tanto provato nelle ultime ore.
Cercò di non apparire in tensione o sospetto: «Chi è che ve l'ha consigliata?».
Byron non sembrò sospettoso della domanda, anzi, rispose quasi subito. Forse pensava che Heath si stesse interessando a Joyce per qualche motivo romantico.
Almeno è quello che immaginò, vedendolo sorridere quasi con malizia: «E' stata la cugina di Astrid... suo marito è un soldato ed era in contatto con il convento di suore dove lady Joyce è stata educata. La madre superiora l'ha consigliata, affermando che fosse l'infermiera migliore».
«E' stata educata in convento?», chiese con evidente e sincera curiosità.
«Da quello che ho capito ha vissuto in convento negli ultimi anni della sua adolescenza, ed è lì che ha imparato a fare l'infermiera... ma non ne so molto».
«Sai da quale famiglia proviene?».
La sua terza domanda forse sembrò a Byron un po' strana perché lo fissò con un malcelato sospetto: «Mmh...», ci pensò su qualche istante prima di rispondere: «Non credo che la madre superiora ce lo abbia detto».
Per qualche istante Heath pensò di averla scampata, di non averlo insospettito troppo, ma subito dopo Byron aggiunse: «Perché sei così curioso?».
Se lo era aspettato. Per quanto a volte Byron non era per niente intuitivo, non era comunque uno stupido.
E proprio perché lo aveva programmato, ebbe subito la risposta pronta: «Mi annoio, sono qui seduto su una carrozzina e sto iniziando ad interessarmi ai retroscena della vita privata degli altri».
Cercò di dare alle sue parole un tono sarcastico, divertito, per cercare di virare la conversazione verso un tono canzonatorio e così distrarre Byron. Ma lui era più attento del previsto.
«Non ci credo», affermò con risolutezza, mandando un po' nel panico un Heath che non sapeva come obbiettare. «Io penso che mi stai facendo tutte queste domande perché sei interessato a Lady Joyce».
E se qualche istante prima Heath era preoccupato di essere scoperto, non riuscì a non tirare un sospiro di sollievo quando si rese conto che Byron era ben lontano dal comprendere la verità.
A quel punto si chiese se valesse la pena fingere di essere innamorato di Joyce, pur di ingannare Byron e continuare ad indagare, oppure no.
Una parte di lui, quella più orgogliosa, voleva continuare a far credere a tutti di essere freddo e insensibile, incapace di provare interesse amore per chiunque.
E quindi ci mise più del dovuto ad ammettere, quasi mordendosi un labbro: «Certo, è così». Cercò di sembrare in imbarazzo, ma in realtà si stava domando se questa piccola bugia, un giorno forse, non gli si sarebbe ritorta contro.
Ormai era troppo tardi e non gli restava che cavalcare l'onda, prendere la palla al balzo e modificare il suo piano.
Byron, d'altronde, fu felice della sua risposta, anzi, fu piuttosto compiaciuto mentre gli lasciava pacche d'incoraggiamento sulla spalla, con un sorriso complice sul volto.
Non era però pronto ad affrontare il classico cameratismo tra due amici uomini, perciò attenuò subito il suo entusiasmo e si rifiutò di dargli ulteriori dettagli. Non voleva finire per parlare ore e ore di sentimenti che in realtà non provava.
«Visto che ormai hai capito tutto», disse invece, abbassando la testa per sembrare in imbarazzo: «Mi chiedevo se tu potessi farmi un favore».
Sapeva che Byron non si sarebbe tirato indietro, anzi, fu così contento che si precipitò a concedere il suo aiuto, senza neanche sapere di cosa si trattasse.
«Vorrei mettermi in contatto con la sua famiglia... sai, per fare le cose come si deve», non ci fu bisogno di spiegare a cosa si riferisse, perché Byron conosceva bene quali fossero le regole da seguire quando si volva corteggiare una donna. Raramente le aveva seguite, ma le conosceva a memoria.
«Vorrei aiutarti», iniziò dispiaciuto sul serio per non poter essere utile al suo amico: «Ma non conosco la sua famiglia».
Heath lo aveva previsto e fu pronto a ribattere: «Però siete in contatto con la madre superiora, no?».
Non ci fu neanche bisogno di chiedere con chiarezza, perché Byron annuì non appena comprese cosa stava per domandargli Heath: «Credo che sia una buona idea... mi faccio dare i suoi contatti da Astrid, è lei che ha avuto la corrispondenza con la suora».
Era perfino pronto ad alzarsi e correre a chiedere alla moglie, ma fu fermato improvvisamente da Heath, che lo prese per un braccio d'istinto.
Non voleva coinvolgere Astrid perché sapeva che avrebbe intuito subito il suo doppio gioco. Dei due coniugi era la più intelligente, e non voleva ritrovarsela tra i piedi mentre cercava di capire come incastrare Joyce.
Fu però costretto a fare la parte dell'innamorato imbarazzato, mentre affermava: «Preferirei non dire nulla ad Astrid, nel caso dovessi ricevere un rifiuto sarebbe imbarazzante per me...».
Byron annuì di nuovo ma fu comunque risoluto mentre affermava: «Non posso chiederle una cosa simile senza dirle il motivo... Non ci sono più segreti tra me e mia moglie».
Una parte più meschina di Heath avrebbe voluto ridergli in faccia, non credendo ad una sola parola pronunciata da quel Byron più maturo. Ma si rese conto che sarebbe stato troppo cattivo perfino per lui.
E si rese conto che un vero migliore amico sarebbe dovuto essere contento. Contento perché finalmente Byron aveva trovato l'amore e la felicità.
Decise comunque di non concentrarsi sulla sua difficoltà nell'essere felice per gli altri, e provò di nuovo: «Sei però in contatto con sua cugina, no? Potresti chiedere a lei».
Lo vide valutare la cosa e comprese che in realtà aveva ragione. Tra lui e Astrid non c'erano più segreti. Eppure decise di mettersi in gioco per il suo amico ed accettò.
Quando se ne andò, Heath si sentì nuovamente in colpa, per la seconda volta nel giro di pochi giorni.
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