Capitolo VII

Dopo la loro piccola discussione, Joyce non aveva avuto più modo di parlare con il suo paziente di cose strettamente personali. Faceva il suo lavoro, quello per cui era stata chiamata dalla Capitale, ma niente di più.

Cercava di spronarlo a fare altro, oltre che a restare chiuso nelle sue stanze per tutto il giorno, ma anche lei aveva perso la voglia e la volontà. Doveva ammettere, almeno a se stessa, che Heath era un paziente davvero difficile.

Ma una parte di lei non voleva arrendersi, anzi, credeva che era solo questione di tempo. Prima o poi avrebbe scoperto il punto debole di Heath e lo avrebbe usato per tirargli fuori un po' di umanità.

E come se lo avesse chiamato, l'indizio arrivò una settimana dopo la loro cavalcata. Attraverso una lettera. O meglio, tante lettere.

Giunsero insieme agli ultimi oggetti personali del soldato, direttamente dall'ospedale della Capitale. E furono proprio quelle ad incuriosirla. Tante missive, impilate e legate con un laccio una all'altra.

Sapeva che non avrebbe dovuto avvicinarsi, che non erano affari suoi. Ma una vocina interna la spingeva ad allungare il collo per leggere il nome del mittente. Paulina Simons. Questo il nome che lesse sopra la prima lettera.

E subito si chiese chi fosse. Era curiosa di natura, perciò non poteva fare a meno di fare congetture. Forse un'amante. O forse una sua ammiratrice.

Moriva dalla voglia di aprire almeno una di quelle lettere e scoprire la storia che si celava dietro al suo paziente scontroso, e le mani le prudevano dall'impazienza.

Doveva trattenersi, perché non poteva invadere l'intimità di Heath, ma fu quasi in procinto di allungare un braccio verso quella pila di lettere, lasciate sul tavolo insieme a tutta l'altra roba.

«Che cosa state facendo?», la voce brusca di Heath la fece saltare sul posto e nascondere il braccio dietro la schiena, come una ladra.

«Sono arrivate le vostre cose dall'ospedale», gli disse, quasi frastornata e un po' dispiaciuta per non aver avuto il tempo di leggere neanche una riga.

Lui non diede molta importanza alle valigie, ma il suo sguardo si soffermò sulle lettere. Per qualche istante Joyce ebbe paura che si fosse accorto del suo desiderio di sbirciare, ma tirò un sospiro di sollievo quando lui evitò di farglielo notare.

Si avvicinò al tavolo, allungò il collo per poter vedere meglio, anche se in realtà lui già sapeva chi era il mittente.

La sua espressione era indecifrabile, anche se Joyce notò la rigidità mentre le afferrava con una mano, se le posava sulle gambe e si allontanava.

Proprio davanti alla prima stanza, si fermò e si voltò un po' per guardarla e borbottò: «Se nessuno vi manda lettere, non siete giustificata a leggere quelle degli altri ».

Ancor prima che Joyce potesse rendersi conto di ciò che aveva detto, lui se ne era andato, sbattendo la porta della sua camera da letto.

Joyce rimase a fissare il muro per istanti infiniti. Rossa in viso dalla vergogna, avrebbe voluto sparire.

Non avrebbe neanche dovuto pensare di sbirciare, eppure, nonostante fosse stata scoperta con le mani nel sacco, la curiosità non le era scomparsa. Anzi, era aumentata con la consapevolezza che non avrebbe mai scoperto nulla riguardo la donna che gli aveva scritto.

Non solo per un suo morboso desiderio di conoscere, ma anche perché sperava che potesse essere un ulteriore indizio per scoprire cosa celava sir Heath nell'animo.

Per questo, dopo essersi ripresa dalla vergogna, decise di avvicinarsi con passo felpato alla camera da letto del suo paziente.

Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, che doveva rispettare i suoi spazi, e più di una volta prese in considerazione l'idea di ritornare nella sua stanza e fare finta di nulla.

Ma era così disperata e non sapeva più come approcciarsi al suo paziente, che alla fine raggiunse la porta con pochi ripensamenti. Le tramava la mano mentre afferrava la maniglia e, con estrema lentezza, apriva quel tanto che bastava per poter sbirciare all'interno.

Fece molta attenzione, per non fare rumore ed essere scoperta, ma quando si chinò a sbirciare oltre lo spiraglio, tra la porta e il muro, vide Heath di spalle. Vicino alla finestra, sulla sua sedia a rotelle, osservava il panorama. In silenzio e immobile. O almeno così sembrava all'apparenza.

In realtà un leggero movimento delle spalle fecero capire a Joyce che Heath stava piangendo. Tramite il riflesso sua finestra poteva vedere una versione sfocata e per niente dettagliata del volto sconvolto del ragazzo.

Avrebbe voluto vederlo in volto, capire cosa stesse provando e perché, ma comprendeva anche il suo desiderio di restare da solo in un momento del genere. Proprio per questo decise di richiudere la porta e allontanarsi.

Era curiosa di sapere cosa, o meglio chi, lo avesse turbato e scosso in quel modo, ma sapeva che non poteva chiederlo a lui. Era così chiuso che sicuramente non avrebbe aperto bocca. E lei doveva capire.

Una vocina continuava a dirle che poteva essere la chiave di tutto e non voleva lasciarsi scappare l'opportunità. Per questo uscì dalla casa in fretta e in furia, diretta alla tenuta, con una certa grinta ritrovata.

A passo spedito, quasi si mise a correre per poi rallentare una volta oltrepassato il grande e verdeggiante giardino.

Spalancò la porta finestra che dava su una delle tante stanze e si perse letteralmente all'interno dell'immensa villa. Inizialmente aveva pensato che sarebbe stato facile trovarlo, ma dovette smentirsi quasi subito, quando si rese conto che era impossibile trovare la strada da sola.

Per questo fu abbastanza grata quando vide una serva passare, portando tra le braccia una pesante cesta di panni. Fu quasi tentata di offrirle il suo aiuto, per deformazione professionale, ma si ricordò perché era lì e chiese soltanto: «Sto cercando il capitano Moore. Dove posso trovarlo?».

La ragazza le sorrise cordialmente: «Credo che a quest'ora della giornata stia giocando a scacchi in biblioteca con lord Trevor».

Quando vide l'espressione interrogativa di Joyce, si affrettò ad indicarle la strada per la biblioteca. E proprio come aveva detto la cameriera, li trovò lì.

Il capitano e il fratello minore del padrone di casa sedevano su un grande tavolo in legno, di quelli che danno l'impressione di resistere nei secoli senza alcun problema. Con una scacchiera a dividerli, osservavano le pedine in totale concentrazione, quasi fossero delle tattiche militari o dei documenti finanziari.

Un po' gli ricordarono suo padre e suo zio. Anche a loro piaceva quel gioco e Joyce spesso, quando era solo una bambina, si fissava ad osservarli, sorpresa dall'attenzione che riservavano a quel passa tempo.

Lei non era mai stata molto paziente per capirne le regole, comprenderne le dinamiche e studiare le tattiche. Non che le fosse mai interessata veramente.

Quasi si sentì a disagio nel disturbare il loro gioco, per questo si avvicinò in silenzio, con le braccia dietro alla schiena come una bimba educata.

Non disse nulla ma con la coda dell'occhio Sebastian la notò e le sorrise: «Oh, lady Joyce, venite. Avete già fatto la conoscenza di sir Trevor?».

Un po' in imbarazzo per essersi intromessa, Joyce annuì soltanto. Aveva visto il giovane qualche volta, in giardino, e lady Astrid era stata così educata da presentarli. Anche Trevor infatti le sorrise.

«Siete venuta qui per leggere qualche libro?», le chiede Sebastian dopo qualche istante, notando che la ragazza restava immobile.

«In realtà sono venuta per parlare con voi».

Ovviamente il capitano non si aspettava una risposta del genere e rimase per qualche istante interdetto.

«Con me?», la confusione si tramutò presto in curiosità quando lei annuì.

Così il capitano la invitò a prendere posto ad una delle sedie libere, prima di lanciare uno sguardo d'intesa con Trevor.

«In realtà vorrei chiedervi un favore», precisò Joyce, sedendosi su una di quelle comode sedie imbottite.

Il clima imbarazzante non la metteva molto a suo agio e i due signori che la guardavano incuriositi non aiutavano.

«Potete parlare anche in presenza di Trevor», la rassicurò il capitano, credendo che fosse quello il problema. In realtà, ora che si trovava davanti a Sebastian, stava iniziando a pensare che forse non era stata una buona idea.

Si chiese che cosa avrebbero pensato i due uomini, una volta ascoltata la sua richiesta, e se fosse poco opportuna. Ma poi si ricordò di Heath che piangeva silenziosamente e della sua profonda curiosità.

«Voi potete scoprire i nomi dei commilitoni di sir Heath?».

Lo disse cercando di non sembrare troppo spudorata, anzi, quasi non stesse chiedendo niente di così privato. E il capitano non parve molto stupito dalla sua domanda, anche se dovette pensarci qualche istante.

«Credo che sia possibile, perché?».

Una parte di lei non voleva raccontare quello che aveva intuito guardando le lettere. Non sapeva come l'avrebbe presa Heath se fosse venuto a conoscenza di quella chiacchierata.

Ma allo stesso tempo non poteva chiedere un favore al capitano senza dargli almeno un minimo di spiegazioni.

Per questo spiegò, mentre si tartassava le dita dal nervoso: «Sir Heath ha ricevuto molte lettere da una donna che di cognome fa Simons, quando era in ospedale. Lui non le ha mai lette ma lo turba anche solo vederle...».

Non finì di raccontare, perché mentre parlava iniziò a sentirsi un po' stupida.

Forse era il modo in cui Trevor e Sebastian la guardavano. O forse perché una parte di lei pensava di essere solo una stupida all'idea di poter risolvere tutti i problemi del suo paziente soltanto scoprendo chi fosse Paulina Simons.

Era quasi sul punto di rinunciare e di andarsene, quando il capitano aggiunse al suo posto: «Credete che questa signora sia una parente di un suo compagno d'armi?».

Aveva avuto la sua stessa intuizione e Joyce già si sentì più leggera. Tanto che tirò un lungo sospiro e sorrise.

«Potrebbe essere. Comunque credo che sia significativa la reazione che ha avuto...».

Non riusciva a smettere di pensarci e sapeva, con tutta se stessa, che quella donna doveva significare qualcosa per lui. Non si piange in quel modo, per qualcuno che non conta nulla.

Il capitano Sebastian annuì, come se fosse d'accordo con lei, e allo stesso tempo ci pensò qualche istante.

«Non credo che Heath gradirà questa intromissione nella sua vita privata», parlò Trevor per la prima volta.

Non c'era giudizio nel suo tono, né nel modo in cui li guardava, ma stava soltanto affermando l'ovvio. E Joyce lo sapeva. Lo sapeva meglio di chiunque altro, per questo aveva avuto un po' di ripensamenti. Ma non abbastanza da non andare a chiedere a Sebastian.

«Lui non deve saperlo per forza», asserì lei, guardando il ragazzo con intensità.

Non si aspettava che entrambi mantenessero il segreto per lei, non glielo chiese neanche. Ma si augurò con tutto il cuore che lo facessero. Perché poteva solo immaginare la reazione di sir Heath una volta che avesse scoperto la sua ricerca segreta.

Trevor ci pensò qualche istante e infine alzò le mani in segno di resa: «Io credo che non m'intrometterò in queste faccenda. Già mi è difficile tenere d'occhio mio fratello ed evitare che si metta nei guai...», poi si rivolse a Sebastian, con un sorriso sarcastico in volto: «Heath lo lascio a voi».

Il capitano scosse la testa, ma rispose all'amico sorridendogli.

Poi, quando si rivolse di nuovo alla ragazza, che aveva assistito in silenzio e in attesa, aggiunse: «Posso chiedere a qualche mio vecchio compagno, ma ci vorrà un po'».

Joyce tirò un lungo sospiro di sollievo e si rilassò: «Aspetterò».

Non credeva che comunque sarebbe stata in grado di fare altro. Tanto valeva porre tutta la propria fiducia nell'aiuto del capitano. Si congedò dai due con un ringraziamento e sentendosi un po' più leggera.

Anche se non era convinta di riuscire a risolvere il problema, almeno aveva una speranza di comprendere qualcosa in più. E se non fosse riuscita ad aiutare Heath, sarebbe tornata a casa con la consapevolezza di aver imparato qualcosa.

Pensava proprio a ciò mentre usciva dalla biblioteca ed era così fra le nuvole mentre puntava il suo sguardo sul pavimento che, mentre scendeva le scale, andò a sbattere contro qualcuno che invece saliva.

Si aggrappò al corrimano per non cadere e prima ancora di alzare la testa per osservare l'altra persona già si stava scusando. Fino a quando la voce cristallina di lady Astrid non la fece bloccare.

«Oh, non scusatevi, lady Joyce... Anche io sono stata molto sbadata».

La padrona di casa le sorrise, facendola subito sentire meglio: «Mi fa piacere vedervi qui».

«Ero solo venuta a parlare con il capitano...», si lasciò sfuggire, rendendosi conto troppo tardi che forse non avrebbe dovuto parlarne.

Lady Astrid parve incuriosita, ma invece di farle subito delle domande, ignorò la sua affermazione e disse: «Stavo andando nella nursery per stare un po' con i mie figli... Volete venire con me? Possiamo prendere del tè insieme e parlare un po'».

Sicuramente voleva chiederle di Heath e dei suoi progressi e proprio per questo Joyce avrebbe voluto evitarla. Ma sapeva anche che non poteva farlo.

Non poteva sfuggire ai suoi doveri. Perciò la seguì a passo incerto e a testa china, come un condannato che si avvicina inesorabile al patibolo. 

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