Capitolo IX
Quando quella sera uscì dalla sua camera da letto, dopo aver passato ore sdraiata sul letto a riposare, per andare a cenare, nel salotto trovò già il suo paziente al posto, ad aspettarla.
«Lady Joyce, stavo venendo a portarle la cena», iniziò subito Rose, che in mano infatti teneva un vassoio: «Lady Astrid mi ha avvisato che quest'oggi non siete stata molto bene e non c'è bisogno che voi veniate a mangiare a tavola».
La sua premura le fece per un attimo piacere, ma subito si ridestò e si avvicinò con fare deciso: «Mi sento molto meglio, Rose, e preferisco mangiare a tavola».
Di rado era stata così male, quando era piccola, da giustificare una sua assenza durante la cena, ed era abituata a presenziare sempre alla tavola.
Per questo non accettò le altre parole della cuoca, ed ignorò palesemente lo sguardo incuriosito di Heath che comunque rimase in silenzio.
All'apparenza non sembrava minimamente interessato a capire cosa le fosse successo, ma la realtà era ben altra.
Comunque cenarono pressoché in silenzio e Joyce fece molta fatica a mandare giù tutto il cibo che Rose le aveva messo sul piatto. Un po' perché le si era chiuso lo stomaco dopo il malessere, e un po' perché gli sguardi eloquenti della cuoca e di Heath la mettevano a disagio.
Sembravano entrambi intenzionati a non distogliere mai gli occhi da lei, intenti a capire se potesse avere altri malesseri. Ma Joyce sapeva che ciò che era successo quella giorno non si sarebbe ripetuto. Perché sapeva perfettamente cosa aveva causato il malore.
Alla fine la cuoca fu costretta ad accettare le sue innumerevoli parole di conforto sul fatto che stesse bene e tornò ad occuparsi della cucina.
Più difficile fu invece per il Heath che, seduto accanto a lei, era più difficile da distrarre.
«State veramente bene o volevate solo liberarvi di lei?», le bisbigliò ad un certo punto, attento a non farsi sentire dalla cuoca, che stava lavando i piatto.
«Non ho mentito, sto bene».
E lui parve crederle, almeno in parte, anche se non smise di domandare: «E cosa vi è successo?».
Era troppo irritata dalla preoccupazione di tutti per rendersi conto che Heath, per la prima volta, sembrava veramente interessato a lei e alla sua salute. Come se gli importasse qualcosa.
Scacciò però le sue parole con un gesto leggero della mano: «Ma niente di che, davvero, solo un piccolo malessere... ora però è tutto passato».
«Che cosa stavate facendo quando vi siete sentita male?», continuò lui, con un tono che all'apparenza voleva sembrare normale.
Joyce si mise un po' sulla difensiva: «Che cosa sono tutte queste domande? Un terzo grado?», forse le uscì un po' troppo un tono di accusa, ma non poté rimangiarselo.
Sapeva che agitarsi avrebbe solo insospettito ancora di più Heath che, di fatto, già dubitava un po' della sue parole. Ed era quasi convinta che lui avrebbe tentato d'insistere per ottenere una risposta. Forse una parte di lei lo sperava proprio.
Eppure quando lui si rese conto di apparire un po' troppo preoccupato per lei, cambiò atteggiamento. Fece spallucce e la schernì: «Niente, è solo che mi era sembrato di capire che il paziente fossi io... e voi l'infermiera».
Ancora prima che lei potesse comprendere a pieno le sue parole, e rispondere, sul volto di lui era apparso quel suo solito sorriso cattivo: «Ma se voi state male, chi si occuperà di me?».
Per un istante si sentì quasi offesa, intuendo che lui stesse quasi insinuando che fosse una pessima infermiera. Ma si riprese in fretta.
Doveva ricordarsi che aveva a che fare con un paziente saccente, in perenne sfida contro tutto il mondo e molto, molto difficile da trattare.
Per questo sorrise beffarda di rimando e incrociò le braccia al petto: «Ah, adesso volete che mi occupi di voi?», chiese maliziosa ma non gli diede il tempo di rispondere che aggiunse: «Ero convinta che non aveste bisogno di me ma, a quanto pare, mi sbagliavo».
Lui rimase interdetto, con la bocca aperta in procinto di dire qualcosa, ma bloccato dalle sue rispose. Per qualche istante Joyce avrebbe voluto gridare vittoria ai quattro venti, ma lui si riprese in fretta.
«Non illudetevi, qui voi siete inutile», le ribadì ma con un tono poco convinto. Di certo aveva smesso di preoccuparsi di lei ed era tornato scontroso e burbero.
E benché una parte di lei era dispiaciuta di non poter vedere un lato più sensibile di Heath, era anche contenta perché con quello arcigno e cattivo stava imparando a farci i conti. Mentre l'Heath buono rischiava di mandarla in confusione.
Per giunta era anche riuscita a farlo smettere di domandarle riguardo la sua salute e ciò era solo un bene. Non voleva più parlarne e avrebbe fatto di tutto affinché non succedesse di nuovo.
In fondo era stata brava a nascondere i suoi turbamenti per tutti quegli anni e si era perfino stupita di quel suo mancamento, considerato che era stato il primo.
Non era lì per mostrare le sue debolezze, ma per aiutare Heath a superare le sue. E dovevano continuare a mantenere un rapporto infermiere e paziente.
«Bé», lui attirò di nuovo la sua attenzione con voce burbera: «Credo che mi affretterò a finire di mangiare così potrò andarmene e non vedervi più almeno fino a domani mattina».
Un'altra persona sarebbe rimasta offesa dalle sue parole, per niente educate, e lei sapeva che il suo intento era proprio quello di ferire e spiazzare. Lo faceva con tutti, e la maggior parte delle volte funzionava bene. Non con lei però.
Si mise sul volto il suo ennesimo sorriso di sfida, lo guardò con dolcezza e disse con tono fino ingenuo: «Ma come? Non volete passare un po' di tempo con me, dopo cena? Intrattenere una signora prima di andare a dormire non è un dovere di un qualsiasi gentiluomo?».
Lui scoppiò a ridere, o meglio, finse di ridere, perché entrambi sapevano che in realtà era tutta scena. Una risata plateale, forzata, di quelle che ti fanno innervosire.
Era quello che voleva, innervosirla, ma Joyce rimase impassibile ad osservarlo. Attese fino a quando non ebbe finito e continuò a guardarlo senza fare alcun movimento.
Così lui fu costretto a precisare, con ritrovata cattiveria: «Punto prima, cosa vi fa pensare che io sia un gentiluomo? Punto secondo, delle buone maniere non me importa assolutamente nulla... e punto terzo, dubito che voi possiate essere definita una signora».
Le parole erano state oltraggiose. In una circostanza diversa, una qualsiasi donna si sarebbe indignata, l'uomo che le aveva pronunciate sarebbe stato considerato uno screanzato e quindi le avesse udite si sarebbe sentito a disagio e in imbarazzo per la sua poca creanza.
Se fossero stati presenti lord Byron e sua moglie sicuramente sarebbe andata e proprio per questo Joyce fu lieta che non fossero lì.
I Devenport volevano troppo bene ad Heath e vederlo in quel modo, sentire quelle parole, per loro sarebbe stato un vero colpo al cuore.
Lei, invece, poteva permettersi di vedere le persone nel loro peggio, faceva parte del suo lavoro.
«Oh, come immaginavo», annunciò lei soddisfatta, lasciandolo interdetto e anche un po' deluso. Nonostante Joyce, fino a quel momento, si era sempre comportata all'opposto di quello che lui aveva desiderato, anche non riusciva a capacitarsene di come fosse possibile.
Era più forte di lui, pensare di riuscire a ferire e allontanare chiunque.
«Vedo che non sapete fare altro che sputare cattiveria a destra e manca... Vi riesce bene, il più delle volte, e comprendo che essendo voi un uomo che non ama perdere, cerchiate di adoperare spesso questa tattica. Vi fa sentire bene, vincere contro tutti, immagino».
Il tono di voce mascherava bene quello che Joyce pensava in quel momento, e il sorriso finto genuino che le copriva il volto metteva quasi i brividi.
«Ma con me non funziona, e ormai avreste dovuto capirlo. Perciò perché non cambia strategia? Forse sarà la volta buona».
Canzonarlo era l'unica cosa che sembrava funzionare con lui. Smuoveva qualche emozione, ed era proprio quello che voleva.
Ma non lo lasciò metabolizzare, perché voleva spiazzarlo e non dargli il tempo di trovare effettivamente una tattica migliore e vincente.
Doveva giocare di astuzia ed essere allo stesso tempo più veloce di lui nel reagire e cambiare i piani in corso d'opera.
Per questo continuò: «Potreste, per esempio, cercare di riscattarvi, dopo la bruciante sconfitta a cavallo dell'altro giorno, con una partita a carte... magari al gioco da tavolo siete più in gamba».
Rimase immobile, fissandolo con gli occhi sbarrati e lasciandogli intuire che avesse usato appositamente il gioco di parole proprio per lui.
E se ne fu offeso, Heath non lo diede a vedere, anzi sorrise di rimando alla donna e si vantò: «Non vi conviene sfidarmi a carte».
«Anche io sono un'ottima giocatrice».
Lui parve scettico e non si degnò di nasconderlo mentre la canzonava: «E avreste imparato in convento?».
«Forse sarete stupito, ma ci sono molte cose che le suore mi hanno insegnato... ed una di queste è battere un uomo a carte».
Si guardarono con tono di sfida per qualche istante, forse cercando di capire se uno dei due stesse mentendo, quando Joyce distolse lo sguardo e con tono allegro, affermò: «Ma se non ve la sentite posso comprendervi... sarebbero due sconfitte».
Lasciò intendere cosa avrebbe voluto dire ma non si azzardò ad osare troppo. Sapeva che poteva spingersi fino ad un certo punto, ma non era mai consigliabile tirare troppo la corda con i soggetti come Heath.
Lui, infatti, parve in procinto di scoppiare da rabbia e dovette controllarsi per non esplodere in un urlo di orgoglio. Invece disse soltanto: «E cosa ci guadagno?».
A quanto sembrava gli piaceva scommettere, e questo poteva essere una cosa a vantaggio di Joyce. Almeno poteva sfruttarla come preferiva e cerca di ottenere sempre quello che voleva.
Certo, avrebbe dovuto vincere, però.
«Tutto quello che volete», azzardò lei, troppo tardi per ricordarsi che forse non avrebbe dovuto dare tutto quello spazio al suo paziente.
Heath avrebbe potuto chiederle di tutto, anche qualcosa di sconveniente. E invece lui disse soltanto: «Se vinco io mi direte cosa è successo oggi».
Joyce era stata in ansia, in quei pochi secondi di attesa, preoccupata di dover rispettare una scommessa troppo pesante, perciò tirò un sospiro di sollievo.
Se pur una questione abbastanza privata e imbarazzante, avrebbe comunque potuto inventarsi una storia all'ultimo ed evitare di dirgli la verità. Perciò annuì, accettando tacitamente la sua offerta.
«Se vinco io, invece, dovrete accettare senza lamentarvi tutti gli esercizi che vi propongo per migliorar la vostra massa muscolare».
Era da quando era arrivata alla tenuta che tentata di smuoverlo anche a livello fisico, perché sapeva che un paziente in movimento era un paziente che si riprendeva più in fretta.
Ma Heath sembrava un pigro di prima categoria. Si era rifiutato di fare anche gli esercizi più facile, farneticando che tanto sarebbe stato tutto inutile per lui.
E non era riuscita a fargli cambiare idea con nessuna delle sue precedenti tattiche piena di astuzia.
Si vedeva che non moriva dalla voglia di accettare quella scommessa, forse proprio perché sotto sotto aveva paura di perderla, ma non avrebbe mai fatto la figura del debole.
Per questo allungo la mano e strinse forte quella di Joyce, cercando d'infondere nel gesto tutta la sicurezza che invece non aveva. Iniziava perfino a credere alle parole che la donna aveva pronunciato qualche istante prima riguardo al suo talento di giocatrice.
Ma ormai non poteva rimangiarsi la parola: «Cinque partite, chi ne vince tre riscuote la scommessa», aveva affermato un po' titubante, senza però darlo a vedere.
Con Byron avevano giocato tantissime volte, insieme e con altri amici, e lui gli aveva insegnato tutti i suoi trucchetti per barare e vincere. Non avrebbe dovuto sentirsi a disagio, eppure lei sembrava così sicura da mettergli dei dubbi.
Quando ebbero finito di mangiare, la cuoca sparecchiò la tavola e i due si sistemarono davanti al camino, l'uno di fronte all'altra con un tavolo da gioco a dividerli.
«Siete ancora in tempo a fuggire», le disse lui con un sorriso cattivo. Cercava di mostrarvi all'altezza, per incuterle terrore, ma lei non si scompose.
Iniziarono a giocare e Heath comprese subito che la donna non aveva mentito. Era davvero una brava giocatrice. Ma nonostante tutto non le permise mai di darle l'impressione di essere in difficolà.
Si punzecchiarono a vicenda durante tutte le partite e per lui fu così naturale e non pensò neanche a quanto gli facesse piacere.
Non lo avrebbe mai ammesso ma una parte di lui si divertiva a giocare con lei, a prenderla in giro e a farsi prendere in giro.
Sapeva che stava facendo il suo gioco, mostrando un lato così vulnerabile, ma era stato per così tanto tempo così in letargo da non riuscire più ad avere la forza per andare contro alla sua tenacia.
La prima partita la vinse lei, e se ne vantò per almeno dieci minuti, ridendo, facendo mosse strane simili ad un balletto e prendendolo in giro su quanto fosse lento e incapace.
Ad Heath tornò in mente quando lui e Byron vincevano al tavolo, anni prima, e quanto li facesse sentire bene.
Voleva ancora provare una sensazione del genere, anche se la situazione era completamente diversa e perciò si affrettò ad iniziare una seconda partita. Che perse di nuovo.
A quel punto si preoccupò seriamente di poter perdere il gioco e di dover rispettare la scommessa, e in più iniziò anche a ricordarsi come si sentivano lui e il suo amico tutte le volte che perdevano.
All'epoca si parlava di soldi, mentre in quel momento era il suo onore che se ne stava andando via.
Così si convinse a concentrarsi di più, ormai sicuro che la ragazza non avesse affatto mentito sulle sue qualità di giocatrice. Fu più attento e riuscì a vincere le due partite successive, mettendosi quindi in parità.
L'ultima partita era quella decisiva e si poteva intuir dalla serietà che era scesa nell'ambiente, quando fino a qualche istante prima si stavano prendendo in giro a vicenda.
Entrambi volevano vincere, entrambi volevano riscuote la scommessa e sapeva bene che se la stavano giocando tutta in quella partita.
Heath si stupì di quanto gli fossero mancate quelle sensazioni, avendo sempre creduto che fosse Byron quello amante del rischio e della scommessa tra i due.
E invece il suo migliore amico non giocava d'azzardo da più di due anni, si era ripulito e non sembrava sentire assolutamente la mancanza di quella vita.
Certo, aveva ottenuto in cambio una moglie, un titolo, due splendidi figli e la felicità. Forse per questo non sentiva la nostalgia di quei tempi andati.
Heath invece non aveva ottenuto nulla dal futuro e l'unica cosa gli era rimasta era proprio ripensare ai tempi andati.
L'ultima partita la vinse Joyce, nonostante lui si fosse impegnato fino in fondo per ottenere la vittoria. E quando stava per andarsene, rinchiudendosi nelle sue stante, offeso e con la coda tra le gambe, lei lo fermò.
Ci tenne a precisare: «Vi aspetto domani mattina per i nostri esercizi», dal tono di voce poteva intuire che stesse gongolando di gioia per aver vinto, di nuovo, e l'unica cosa che avrebbe voluto fare Heath era negarle quel piacere.
Solo che lei aggiunse: «Una scommessa è una scommessa», e a lui non restò altro che sbattere la porta frustrato come una bambino capriccioso.

Spazio autrice:
Buonasera a tutti!
Eccoci tornati anche con Heath, Joyce e tutti gli altri...
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e ci ritroviamo sempre qui venerdì prossimo.
Chiara 😘
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