Capitolo III
Il compleanno dei gemelli era giunto e, nonostante Heath avesse insistito per restare a casa, sua madre non aveva ammesso alcuna replica.
E neanche Byron che, con tanta gentilezza, aveva perfino mandato una carrozza per portarli alla tenuta in tutta comodità.
E visto che non aveva avuto scelta, si era ripromesso che sarebbe stato intrattabile, giusto per ricordare a tutti quanti che non aveva voglia di stare lì.
Perfino rivedere Astrid non gli aveva fatto alcun effetto. Non solo perché ormai la cotta gli era passata ma anche perché tutto gli sembrava appartenere ad un passato ormai perduto.
Passare attraverso i corridoi di quella immensa casa e rivivere tutti i ricordi di quando era giovane, inizialmente fu doloroso.
Quello era un Heath allegro e spensierato, un ragazzo che ancora credeva nella felicità e nella bontà.
Un Heath che non trovava più spazio nel cuore ferito e deluso di quell'uomo che si trascinava a fatica su una sedia a rotelle.
Per questo quando raggiunse i giardini, seguito sempre dalla madre, aveva scacciato indietro quei pensieri dolorosi e aveva deciso di smetterla di rivivere il tempo che non sarebbe mai più tornato.
In tempo per osservare la felicità degli altri, compatirsi e osservare ciò che non avrebbe mai avuto.
Il giardino era stato abbellito proprio per quell'evento, decorato con mille colori e attrazioni adatte ai più piccoli.
Astrid era riuscita ad assumere il circo itinerante che tanto sognava e il gruppo aveva allestito dei veri e propri tendoni, coloratissimi, sotto i quali già parecchi spettatori, solo piccoli, assistevano a diversi spettacoli.
Due acrobati sui trampoli ti accoglievano una volta usciti dalla casa, con le loro facce pitturate e il loro sorriso che dava sui nervi. O almeno a Heath facevano quell'effetto. Forse perché era costretto a farsi venire il torcicollo per riuscire a scorgere le loro espressioni, e ciò non lo entusiasma.
Cibo di ogni genere, ma pressoché adatto ai più piccoli, era messo sotto gli occhi di tutti, lungo grandi tavolate e servito perfino dai camerieri.
I più piccoli tra gli invitati, compresi i festeggiati, erano riuniti in un angolo del giardino, a starnazzare e a correre impazziti.
Le loro grida di gioia attirarono subito l'attenzione di Heath che si voltò a guardarli per osservare, a malincuore, la scena.
Una decina di piccoli esserini che saltavano e correvano cercando in un tentativo vano di prendere e intrappolare effimere bolle di sapone, lanciate con maestria verso l'aria da un circense.
In piena sintonia con tutta l'atmosfera che aleggiava quel giorno, di fanciullesca ingenuità.
Ma se la maggior parte delle persone avrebbe fatto un sorriso, di fronte a quella scena, Heath non ci riuscì proprio.
Si chiese invece quanto quei bambini s'illudessero di poter essere felici. Quanto gli bastasse poco per pensare di essere soddisfatti. Ma soprattutto si chiedeva quando quell'illusione sarebbe esplosa, proprio come una bolla di sapone, sul loro volto, riportandoli alla realtà.
«Ti piace la festa?», la voce delicata di Astrid lo ridestò dal suoi pensieri. Non si voltò a guardarla, sapeva che era al suo fianco, e non disse nulla.
«Lo so», continuò lei, non volendo lasciar perdere: «Forse mi sono lasciata prendere un po' la mano...», non poté osservarla ma in quel momento seppe con esattezza che Astrid stava sorridendo.
«Byron ha detto che non si sarebbero ricordati nulla di questa giornata e che quindi sarebbe stato inutile. Ma io ho voluto lo stesso fare le cose in grande».
«Byron aveva ragione, per una volta», le rivelò lui, già stanco di sentirla parlare: «E' una cosa stupida», e per sancire la fine di quella conversazione, spinse via la carrozzella e si allontanò.
Le dava le spalle ma ebbe la certezza che lei lo stava fissando, un po' incredula e un po' dispiaciuta.
Riservò lo stesso trattamento freddo e distaccato un po' a tutti, anche a quelli che non conosceva. Meglio che lo sapessero prima, di dovergli stare alla larga.
E si appartò quasi subito, ad un tavolo in disparte, con la madre che lo seguiva e non lo perdeva mai di vista. Come un segugio.
«Guarda che se vuoi puoi andare... Non ho bisogno della balia», le ringhiò contro, vedendola sempre più a disagio mentre osservava gli altri invitati fare festa. Ma, invece di accontentare il figlio, Nancy decise di rimanere.
Non si sarebbe arresa così facilmente, non quando era riuscita finalmente a farlo uscire di casa. Per lei era una vittoria, un traguardo da dover festeggiare, anche se pur un minimo traguardo.
Osservando il figlio che scrutava la folla si chiedeva spesso quali pensieri gli passassero per la mente. Perché la sua espressione era così profonda che aveva quasi paura a chiedere, per non essere costretta ad inoltrarsi in una foresta troppo scura.
Eppure era curiosa, eppure era in pensiero. E voleva provare a capire, perché solo così sarebbe riuscita ad aiutarlo.
«Sono stati gentili i tuoi amici ad invitarti», affermò, tanto per iniziare una conversazione.
«O forse vogliono solo mostrarmi ciò che loro hanno ed io no», fu la secca risposta di Heath, che spiazzò la madre.
In fondo, non avrebbe dovuto stupirsi. Benché quell'Heath scontroso non era il suo ragazzo, negli ultimi giorni le aveva dato prova più e più volte che il cambiamento era abbastanza radicale.
Scontroso e maleducato con tutti, Heath non aveva risparmiato nessuno. Neanche tutte le persone che lo erano andato a trovare e a salutare per il suo ritorno.
Sembrava avesse acquisito il dono di riuscire a dire la cosa più brutta e inappropriata in ogni situazione e con qualsiasi persona, senza ritegno.
Prima ancora che potesse tentare un approccio diverso, ecco che un baldo giovane le andò in suo soccorso.
Alto, dalla postura ferma e dritta, portava tre bicchieri in mano e puntava proprio loro. Nancy conosceva il suo nome di fama, perché in paese era ancora uno scapolo d'oro, ma non aveva mai avuto modo di parlarci.
«Capitano», si alzò per poter fare un leggero inchino ma l'uomo glielo impedì: «Vi prego, non sono un nobile», e le porse un bicchiere che lei prese volentieri.
Non era una donna che si lasciava andare facilmente ma doveva dare ragione a suo marito quando diceva che l'alcol è in grado di risolvere molti problemi.
«Noi non abbiamo avuto modo d'incontrarci mai, in questi anni», continuò lui, rivolto ad Heath: «Capitano Sebastian Moore», gli riservò perfino il saluto militare ma non ottenne alcuna risposta dal ragazzo se non un secco cenno del capo e la sua nuova occhiataccia di fuoco.
Ma Sebastian non era tipo che si lasciava sopraffare da un uomo scorbutico con la luna storta. Era stato nei campi di battaglia, aveva visto con i suoi occhi la morte e la sofferenza ed aveva imparato ad affrontare anche di peggio.
Per questo non si perse d'animo, con un sorriso gentile si rivolse alla donna: «Ci può lasciare da soli?».
Una parte di Nancy avrebbe voluto metterlo in guardia, dirgli che non era una buona idea, ma l'altra parte, quella più fiduciosa, sperava che forse la compagnia del capitano potesse essere d'aiuto.
Per questo si allontanò con il suo bicchiere, senza mai guardarsi indietro, nonostante fosse consapevole che il figlio la stava guardando con puro odio negli occhi.
Non moriva di certo dalla voglia di restare da solo con quell'uomo, dall'aria così perfetta e compiaciuta, ma a quanto sembrava non aveva molta scelta.
Così fu costretto ad osservarlo mentre prendeva posto al suo tavolo e gli porgeva il secondo bicchiere, portandosi alla bocca il terzo.
«Lord Byron mi ha parlato spesso di voi e in paese la vostra storia ha fatto il giro di ogni piazza e ogni vicolo», esordì con uno strano tono di voce.
Se per lui iniziare una conversazione amichevole in quel modo fosse una buona idea, per Heath invece era pessima. Tanto che non riuscì a dire nulla ma continuò a fissarlo sperando di potergli trasmettere con il suo sguardo tutto quello che voleva comunicargli.
Ovvero che desiderava essere lasciato in pace e non costretto a sorbirsi i suoi monologhi. Perché era sicuro che il capitano fosse pronto ad enunciare uno dei suoi discorsi motivazionali, una cosa che Heath voleva evitare.
«So che non è facile tornare alla realtà, dopo tutto quello che è successo al fronte. E posso anche comprendere che i mostri che conosciamo lì, ci diano il tormento anche a casa. Sembra sempre che nessuno ci capisca, e ci dimentichiamo che non siamo mai stati soli lì...».
«Se state per dirmi che potete capirmi, che possiamo considerarci come fratelli solo perché entrambi siamo stati all'inferno, allora vi risparmio il fiato e il tempo e vi dico che con me certe baggianate da commilitoni non funzionano», tagliò corto Heath, dopo aver ascoltato solo alcuni secondi.
Si era ripromesso che non avrebbe reagito, sperando che prima o poi sarebbe stato accontentato, ma dopo neanche poche parole si era reso conto che non sarebbe stato in grado di ascoltarlo fino alla fine.
Non perché facesse male, ma perché era stanco di sentirsi ripetere le stesse cose.
«Credete di essere il primo a venire qui e a cercare di tirarmi su? Bé, non lo siete. E pensato che io sia così stupido da non sapere che è stato Byron a mandarvi? Potete dire al mio caro amico che ora io sono così e tutti, dico tutti, devono farsene una ragione».
La reazione che si sarebbe aspettato era tutt'altra rispetto a quella che ricevette dal capitano. Aveva sperato di vederlo andare via, rinunciando in partenza, oppure aveva pregato di vederlo arrabbiato o in difficoltà. Giusto per il gusto di fare infuriare qualcun'altro altro ai suoi genitori.
Invece il capitano non batté ciglio. Apparentemente non sembrava aver recepito il messaggio pieno di rancore dell'altro, ma le sue seguenti parole dicevano altro.
«Perché? Perché siete stato in guerra e perciò avete tutto il diritto di essere sgradevole con chiunque, perfino con chi è gentile con voi?».
«Esatto».
«Sbagliato».
I due si fissarono intensamente per svariati secondi, entrambi con sfida ed entrambi decisi a non lasciar correre.
«Voi siete migliore di me, giusto? Voi siete stato in guerra tante volte e siete sempre tornato fiero e baldanzoso... siete un'esempio da seguire», nonostante le parole, all'apparenza lusinghiere, il tono di voce era canzonatorio e quasi rabbioso.
Non conosceva quel comandante ma già lo odiava. Odiava il suo modo di essere sempre superiore, quella sua aria da gentiluomo e quel suo sorriso finto.
Ma ancora una volta il capitano non perse la pazienza, anzi, al fianco del ragazzo sembrava una figura composta, stabile e ferma. Tutto il contrario di Heath.
«Io non mi credo superiore a voi. So che avete passato un brutto momento e che siete ferito, nel corpo e nell'animo, ma questo non è l'atteggiamento giusto. Non è il modo in cui reagiscono i soldati».
«Io non sono un soldato», gli urlò, scandagliando bene ogni parola, e sputando perfino, tanto era la rabbia.
Le persone lì vicino si voltarono, allarmate, ma invece di vergognarsene, Heath li fulminò tutti con occhi di ghiaccio e continuò: «Che c'è? Non avete mai visto un uomo in carrozzina?».
Come previsto tutti si voltarono di nuovo dall'altra parte, imbarazzati, ed evitarono di guardarlo di nuovo. Tutti tranne Sebastian che, con il suo solito fare da perfettino non smetteva di scrutarlo.
Per svariati minuti continuarono a guardarsi così, senza dire nulla. Heath avrebbe voluto gridare ancora, dirgli qualcosa di più pungente e più imbarazzante, ma non conosceva l'uomo abbastanza.
Ansimava, come se avesse corso per intere miglia, solo per aver urlato un po', e sapeva perfettamente che in quel momento aveva un'aspetto da pazzo.
Al contrario del suo interlocutore che non sembrava né turbato fisicamente né emotivamente da quella turbolenta chiacchierata.
«Perché non mi lasciate in pace? Potete dire a Byron che avete fatto tutto il possibile, e io metterò una buona parola con lui... se è questo che volete».
Non sapeva bene neanche che tipo di rapporto intercorreva tra il suo amico e il capitano e, nonostante una parte di lui si ostinasse a dirsi che non gli importava, in realtà era curioso e anche un po' geloso.
«Non sono qui per compiacere nessuno, sir Heath, ma solo per aiutare degli amici seriamente preoccupati per voi... Ed è per proprio questo il punto, voi non vi rendete conto che il vostro comportamento ferisce chi vi vuole più bene, primi fra tutti vostra madre».
«Non accetto prediche da nessuno», fu l'unica risposta che gli diede, perché la realtà era che perfino lui era d'accordo con le sue parole. Ma non lo avrebbe mai ammesso.
«Ovviamente», detto ciò Sebastian Moore fece la cosa che Heath sperava dall'inizio, ma che non si aspettava, ovvero si alzò e se ne andò.
Quello che non poteva sapere era che andò dritto da Byron, che stava chiacchierando animatamente con sua moglie e alcuni ospiti.
Un attimo prima era tranquillo e l'attimo dopo, nel vedere il suo messaggero di ritorno, s'irrigidì. Perché non gli servì ascoltare alcuna parola per comprendere dalla sua postura e dalla sua espressione cosa avrebbe detto.
Eppure il capitano gli si fece vicino e gli sussurrò solo: «Piano b».
Perfino Astrid, che non aveva potuto sentire, capì che cosa gli aveva detto e annuì mentre il marito si congedava da quella piacevole conversazione e raggiungeva il tavolo dell'amico, a malincuore.
Aveva paura, molta, perché non sapeva come Heath avrebbe reagito e perché non era convinto di essere in grado di affrontarlo. Ma aveva deciso di farlo da solo, perché quello era il suo migliore amico ed era suo dovere fare tutto ciò che era in suo potere per aiutarlo.
D'altronde il ragazzo aveva appena lanciato un sospiro di sollievo per essersi liberato del capitano quando un'ombra lo sovrastò.
«Non ti ci mettere anche tu, Byron, sono venuto solo perché sotto costruzione... lasciatemi in pace tutti quanti e non vi rovinerò la festa».
«Non è possibile, amico», il tono dispiaciuto di Byron costrinse l'uomo ad alzare gli occhi per guardarlo. Non era lì per fare due chiacchiere, ma per parlare seriamente.
«Ne abbiamo discusso a lungo con Astrid, e anche tua madre, e abbiamo convenuto che non puoi restare a casa dei tuoi genitori», esordì, calmo e tranquillo nonostante internamente stesse esplodendo.
«Perciò da domani verrai a stare negli alloggi di Carl... è una casa spaziosa, con pochi impedimenti per la tua sedia a rotelle e a discreta distanza dalla tenuta principale così avrai un po'di pace e intimità».
«E a Carl farà piacere avere me come ospite?», lo sfidò con un sorriso divertito, già pronto ad opporsi ad ogni sua idea.
«Carl è morto, quattro mesi fa», sapeva che le sue parole lo avrebbero sorpreso a tal punto da concedergli qualche secondo di vantaggio.
Ed infatti Heath non riuscì a ribattere, mentre ripensava all'anziano bibliotecario che aveva vissuto tutta la vita a casa Devenport. Sia Byron che Astrid sicuramente avevano sofferto per la perdita dell'uomo, anche se l'amico non disse più nulla.
«Ma comunque non sarai solo, nelle tue condizioni hai bisogno di aiuto», continuò, facendolo ridestare dai suoi pensieri in tempo per obiettare: «Non sono un bambino, so occuparmi di me... e non accetto la carità».
A quel punto Byron gli sorrise. Quel suo solito sorriso furbo, di chi la sa più di te. Si chinò verso di lui, appoggiando le mani ai braccioli della sedia per poter stare viso a viso.
«Forse non ci siamo capiti, Heath. Tu non hai scelta. Domani manderò alcuni servitori a prendere te e la tua roba e tu verrai a stare nella casa dall'altra parte del labirinto. Fra qualche giorno arriverà un'infermiera dalla Capitale che ti aiuterà... E tu farai quello che ti diciamo noi, primo perché sei su una sedia a rotelle e non mi sembra che tu abbia molta scelta e secondo perché non accetto di vedere tua madre piangere un giorno di più a causa tua».
Mise di nuovo distanza tra di loro, continuando a fissarlo quasi si aspettasse che lo sfidasse: «E adesso, se hai finito di fare il bambino scontroso e viziato, sta per arrivare la torta... Noi siamo lì, se vuoi unirti sei il benvenuto».
Si voltò e gli diede le spalle, raggiungendo la moglie. Una parte di lui si aspettava di essere seguito, lo sperava e lo desiderava, eppure non rimase sorpreso nel constatare che l'amico rimase al suo posto.
Rabbioso, stupito perché per la prima volta qualcuno gli aveva davvero tenuto testa, e anche un po' frustrato perché non era riuscito a dire a Byron che non aveva intenzione di ubbidire.
Eppure, nel profondo del suo cuore, sapeva che il giorno dopo sarebbe andato via dalla sua casa. Lo sapeva bene perché conosceva Byron ed Astrid, e perché sapeva che non aveva neanche più la forza per combattere.
Lo avrebbe fatto, ma a modo suo.
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