Capitolo II

La tenuta Devenport era in fermento per l'organizzazione del compleanno dei gemelli.

La servitù faceva avanti e indietro, tra l'interno e il giardino, i cuochi provavano nuovi menù da sottoporre ai padroni di casa e Astrid cercava di rendere tutto perfetto.

Si era perfino appropriata dell'ufficio del marito che, ignaro di tutto, quando entrò si ritrovò la moglie seduta alla sua scrivania che sceglieva gli addobbi insieme a tre cameriere.

Perplesso si guardò intorno, pensando di aver sbagliato stanza, ma quando riconobbe il suo mobilio, chiese: «Che cosa sta succedendo?».

Lady Astrid alzò lo sguardo e rispose, semplicemente: «Il compleanno è tra pochi giorni... Avevo bisogno di un luogo per organizzarmi».

«E con tutta la tenuta hai scelto proprio il mio ufficio?», scherzò lui, per niente infastidito dall'invadenza della moglie.

«Sono riuscita anche ad ingaggiare quel circo itinerante che è passato in città», continuò Astrid, euforica, ignorando le parole del marito.

L'organizzazione le aveva occupato gran parte delle sue giornate.

Come ogni festa, d'altronde.

«Non starai facendo le cose troppo in grande?».

«È la festa dei nostri figli», gli fece notare lei, con ovvietà.

«Sì, ma loro hanno solo due anni... Non ricorderanno nulla».

Si rese conto che stava dicendo la cosa sbagliata proprio nell'istante in cui aveva aperto bocca, eppure continuò fino alla fine.

E si prese anche un'occhiataccia da parte non solo della moglie ma anche delle cameriere. Quello era uno di quei momenti in cui sapeva di non poter vincere contro Astrid.

Per questo alzò le mani, in segno di resa e si andò a sedere sulla sua poltrona. Aveva altri pensieri per la testa e poi non era mai stato bravo con le organizzazioni.

Si accontentò di quell'angolo dell'ufficio per riflettere, sicuro che nessuna delle altre presenze avrebbe fatto troppo caso a lui.

Ma sua moglie era troppo sveglia e intelligente per non capire che c'era qualcosa che lo turbava. Tanto che dopo qualche minuto si rivolse alle domestiche: «Tornate pure ai vostri lavori, continuiamo domani».

E aspettò che fossero soli prima di chiedere: «Ieri quando sei tornato dal paese non abbiamo avuto occasione di parlare».

Era la prima cosa che avrebbe voluto chiedergli, quando lo aveva visto tornare a casa, ma si era subito resa conto che non era in vena. Così aveva ricacciato indietro la sua curiosità, aspettando che fosse lui a farsi avanti.

Ma Byron, come al suo solito, non parlava. Si limitava solo a guardarla per farle capire che era pronto, se lei avesse fatto il primo passo.

Perciò Astrid si alzò, si avvicinò e prese posto proprio sulle sue gambe. D'istinto Byron le circondò la vita con le braccia e la strinse a sé, per ottenere un po' di conforto dal suo contatto.

Si stupiva ancora di come lei riuscisse a farlo sentire meglio solo con la sua vicinanza.

«Dovevi esserci... Anzi, no, sono contento che tu non sia venuta perché ti avrebbe ucciso vederlo in quello stato».

Ne era rimasto turbato lui, che aveva il cuore forte, e non era riuscito a dormire per tutta la notte.

«La guerra lo ha cambiato, non solo fisicamente... Sembra che non voglia più vivere».

Ripensare a quello che aveva visto il giorno prima gli causava perfino più dolore. Forse perché si rendeva conto di essere inutile. Di non poter far nulla per aiutare l'amico.

«Io credo che dobbiamo dargli un po' di tempo per riprendersi... Vedrai, essere tornato a casa è la cosa migliore che gli potesse succedere», tentò di consolarlo Astrid.

«Non saprei, non sembra desideroso di guarire... E non credo che potremmo aiutarlo molto se prima di tutto lui non vuole».

Forse era troppo pessimista, al contrario della moglie, o forse semplicemente aveva visto con i suoi occhi e aveva capito che la situazione era più grave di quanto aveva mai immaginato.

«Deve esserci qualcosa che possiamo fare per dargli una mano», continuò Astrid, fiduciosa come sempre.

Non riusciva e non poteva arrendersi.

«Fisicamente non può migliorare, resterà sempre menomato... E capisco perché si sente così giù di morale. Conoscendomi, avrei reagito allo stesso modo», si lasciò andare ad un pensiero che aveva avuto dal primo istante in cui aveva rivisto l'amico.

Era consapevole che anche lui si sarebbe arreso, comportandosi da scontroso e intrattabile.

Astrid però trovò qualcosa da dissentire: «Non te lo avrei mai permesso, Byron. Ti sarei stata vicino giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, convincendoti, anche contro la tua volontà, che c'è vita anche dopo il dolore».

Sapeva che lo avrebbe fatto, non ne aveva dubbi.

«Lo so che lo faresti, e sono fortunato per questo», le disse con sincerità mentre colmava la poca distanza che li separava per baciarla.

Le loro labbra si sfiorarono dapprima con delicatezza e poi con sempre più bramosità.

Erano passati quasi tre anni dal loro matrimonio ma entrambi provavano le stesse emozioni travolgenti. Nel bene e nel male. 

«Heath non è così fortunato... lui non ha una donna come te al suo fianco», aggiunse, soffiandole il suo caldo alito sul viso, con una vena di malinconia. 

Anni prima era entrato in conflitto con il suo migliore amico, proprio a causa del suo infatuamento per la moglie, ma ormai gli sembrava passato così tanto tempo da riuscire a passarci sopra.

Soprattutto dopo averlo visto in quello stato. Sopratutto dopo aver compreso che non poteva lasciarlo da solo in un momento così difficile. 

Astrid riusciva a percepire, non solo nel suo sguardo e nel suo modo di parlare, tutta la malinconia che provava suo marito, al solo parlare dell'amico.

E come ogni volta che lo vedeva triste o preoccupato, voleva fare qualcosa per risollevare la sua giornata. 

«Forse noi non possiamo fare niente, perché non abbiamo le abilità adatte, ma sono sicura che c'è qualcuno che possa aiutarlo», iniziò a riflettere, senza dare segni di volersi arrendere. 

«Posso chiedere a mia cugina se conosce qualcuno, suo marito ha di certo conosciuto molti soldati come Heath e magari saprà consigliarci».

Per loro era tutto nuovo e non si vergognava ad ammettere che avevano bisogno di aiuto. 

«Oppure potremmo chiedere al capitano che vive sotto il nostro tetto», azzardò Byron, con tono sarcastico. 

Astrid gli sorrise: «Hai ragione, potremmo farli incontrare», azzardò, sperando che i due potessero andare d'accordo.

D'altronde Sebastian era un uomo che si faceva amare da tutti, con estrema facilità. Tanto che alla fine anche Byron aveva ceduto al suo fascino e alla sua gentilezza. 

«Per sicurezza, però manderò una lettera anche a Theresa», aggiunse lei, alzandosi e andando subito alla scrivania per scrivere. 

Byron, nel frattempo, rifletteva. 

«Invitiamo Heath al compleanno dei gemelli e facciamogli conoscere Sebastian... forse tra soldati riusciranno a capirsi».

Gli bruciava un po' che il suo migliore amico non avesse voluto parlargli, che lo avesse cacciato via dalla sua casa, ma allo stesso tempo poteva comprendere come si sentiva ed era pronto a scusarlo, se fosse servito a farlo tornare almeno un po' spensierato. 

Byron non poteva capire che cosa aveva passato, come aveva vissuto in quegli anni in trincea, e perciò non poteva giudicare. 

«E' un'ottima idea» lo distolse dai pensieri Astrid, tornando euforica come prima che lui entrasse nell'ufficio: «Vedrai, ogni cosa si risolverà».

E come succedeva spesso, Byron si lasciò contagiare dall'entusiasmo e dalla positività della moglie. 

Heath lo aveva sentito entrare ma aveva finto di non essersene accorto. Cercando di fare piano, anche se con quella sedia era quasi impossibile, era uscito dalla sua stanza e aveva percorso il corridoio quasi fino alla fine. 

Per sua fortuna la madre era troppo impegnata ad interagire con il suo ospite per sentire i cigolii che produceva quella sedia maledetta. Ciò gli permise di sporgersi al punto da poter sentire le due voci. 

Ovviamente cercavano di parlare con un tono basso, per non essere sentiti, ma Heath era così vicino da poter udire ogni singola parola. 

«Io non riesco neanche a parlare con lui, dottore, e non solo perché mio figlio è così cambiato da non riuscire neanche a riconoscerlo. Non solo perché è scontroso e arrabbiato con tutto il mondo, ma anche perché proprio non so cosa dire quando sono in sua presenza».

Non c'era bisogno di vederla in volto per capire che sua madre era a disagio, lo aveva compreso già dalla mattina precedente. 

In fondo, negli ultimi mesi, era diventato molto bravo a percepire il disagio negli occhi e nella voce degli altri, visto che era il sentimento più diffuso ogni volta che si rivolgevano a lui. Insieme alla pietà. 

L'uomo, con la sua voce un po' nasale, cercò di consolare la donna, dall'alto della sua esperienza: «Può sembrare difficile, all'inizio, ma con il tempo riuscirete a comunicare come prima. Adesso Heath è sconvolto, la sua vita è cambiata, e deve ancora rendersi conto di quanto sia cambiata».

«So che è difficile, dottore, ma il punto è che ho paura che mio figlio non sia più qui con noi... non il ragazzo spensierato, amante delle vita e sorridente che conoscevo».

Heath, d'istinto, chiuse a pugno la mano, stringendola più forte che poteva, fino a conficcare le unghie sul palmo. E nonostante provasse dolore, continuò a stringere, mentre i due parlavano. 

«Vostro marito, invece, cosa dice?».

Nancy sbuffò prima di aggiungere: «Lui non è mai stato un uomo molto comunicativo. Quando è tornato a casa ieri sera c'è stato un momento d'imbarazzo tra lui e il figlio ma quando siamo rimasti soli non ha voluto affrontare la questione con me. Per lui è sempre tutto facile, si risolve senza conflitto interiore ed emozioni».

Nancy non era arrabbiata con il marito, sapeva com'era anche prima di sposarlo, ma si era aspettata più impegno da parte sua quando si trattava del figlio.

E invece l'uomo aveva minimizzato la faccenda, e l'aveva perfino trattata come una povera donna che esagera sempre. 

Avevano finito per alzare così tanto la voce che perfino Heath era riuscito a sentire ciò che si dicevano. Eppure non si era sentito in colpa, nonostante sapesse di essere l'artefice del loro malessere. 

«Vorrei poter far di più per il mio bambino, ma sembra che io non ne sia capace... In fondo sono una povera analfabeta, non so come trattare con un ragazzo profondamente ferito».

«Le ferite dell'anima sono anche più profonde e difficili da far guarire rispetto a quelle del corpo».

A quel punto Heath non ce la fece più a restare in silenzio e nascosto mentre parlavano di lui.

Spinse la carrozzina oltre la fine del corridoio, annunciando, a voce alta e con un tono saccente: «Io sono qui, e vi sento».

Li squadrò, con quello sguardo privo di sentimenti che sua madre gli aveva visto anche il giorno prima.

Sembrava provare odio verso tutto e tutti, senza discriminare nessuno. E questo avrebbe dovuto rincuorarla, invece si sentiva ancora più triste per suo figlio. 

Ignorò il suo tono e gli sorrise, cercando ancora una volta di sembrare felice. Ignorò anche di essere stata scoperta dal figlio mentre stava parlando di lui: «Heath, hai visto, il dottore ti è venuto a trovare».

«Già, e ci vedo anche».

Non riusciva proprio a tenersi tutta la rabbia che provava per sé, sentiva il bisogno di tirarla fuori, anche a costo di ferire le persone.

Ciò non lo faceva sentire meglio, eppure continuava a farlo. 

Il dottore però non parve in imbarazzo, anzi. Lui era abituato ad avere a che fare con persone come Heath, ferite nel corpo e nell'animo.

«Ciao, Heath, come vi sentite?».

«Come un uomo costretto a passare il resto della sua vita seduto su questa stupida sedia», abbaiò, fissandolo con intensità, sperando che ciò bastasse per fargli distogliere lo sguardo.

Voleva farlo sentire in colpa, come faceva con tutti, solo perché lui poteva camminare. 

Poteva sembrare meschino, ma era l'unica soddisfazione che riusciva ad ottenere nelle ultime settimane e non voleva privarsene. 

«Credete che ciò vi renda meno uomo?», gli chiese invece il dottore, per niente dispiaciuto, anzi. Lo stava sfidando, apertamente. 

Era l'unico, fino a quel momento, che non si sentiva in imbarazzo a fissarlo e che non provava dispiacere. Ma la sua pacatezza gli dava anche più fastidio dei sorrisini di circostanza di sua madre o del disagio di Byron. 

Forse perché una parte di lui era convinta che si meritasse di essere compatito. 

Perciò avrebbe voluto sputargli addosso qualche cattiveria, come faceva ormai da quando era tornato dal fronte, ma improvvisamente non sapeva più cosa dire.

Il modo in cui il dottore lo guardava, quasi fosse un ragazzino viziato, e come gli parlava, lo aveva messo in soggezione.

E quella sensazione non gli piaceva. Perché voleva continuare a ferire la gente, per sentirsi un pochino meglio. Non voleva essere lui quello senza parole, non voleva essere lui a sentirsi in imbarazzo. 

Perciò girò la sua sedia a rotelle, con una spinta quasi plateale e se ne ritornò nella sua stanza. 

Non prima però di sentire sua madre affermare: «Non è qualcosa di personale, dottore, fa così con tutti».

Non ascoltò però la risposta dell'uomo, perché ormai era giunto nella sua camera da letto, per poi sbattere la porta alle sue spalle. 

Non voleva essere aiutato. Non voleva avere tutta quella gente pronta a dargli una mano. 

Voleva solo essere lasciato in pace. 

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