Capitolo I
La signora Nancy era in evidente agitazione, in piedi al centro della piazza di Plaingrass, mentre aspettava la carrozza che avrebbe riportato a casa suo figlio.
Il tempo non era dei migliori. Una leggera pioggerella rendeva tutto umido e il cielo grigio incupiva l'atmosfera.
«Sono in ritardo», asserì, balbettando, rivolta a lord Byron che, accanto a lei, fissava un puntò oltre l'orizzonte.
Al contrario della donna, lui non mostrava la minima agitazione, ma solo all'apparenza. Dentro, invece, era un tumulto di emozioni.
Prima fra tutte la gioia di rivedere il suo amico dopo due anni. Ma era anche nervoso perché non si erano lasciati nel migliore dei modi.
E nonostante avesse tentato di riavvicinarsi, negli ultimi mesi, inviandogli al fronte qualche lettera, non aveva avuto alcuna risposta. Perciò non sapeva come l'avrebbe presa, scendere dalla carrozza e trovarsi davanti l'amico che non sentiva da anni.
Rimase comunque pacato mentre cercava di tranquillizzare la donna: «Il servizio pubblico non è noto per la sua puntualità, signora Allroy, ma sono sicuro che arriverà a momenti».
In risposta la donna gli riservò un sorriso forzato, di quelli che si fanno per circostanza e convenienza, mentre per la testa aveva altri pensieri.
Si chiedeva quanto la guerra avesse cambiato il suo sorridente e ottimista bambino, perché sapeva che nulla sarebbe stato come prima. Per quanto fosse felice di rivederlo, già si preoccupava per il dopo.
«Stuart desiderava tanto venire ma, sapete, non lascia neanche un giorno di lavoro nei campi...», tentò di scusarsi, come se a Byron potesse interessare, ma il suo tono di voce lasciava intendere che fosse contrariata con il coniuge.
Avevano litigato a lungo prima di concludere che Stuart sarebbe andato a lavoro, come ogni mattina. A niente erano servite le lamentele della moglie.
Byron sorrise, annuendo. Aveva compreso il disagio della donna e deciso, saggiamente, di non dire nulla. Anche se, come lei, sentiva il bisogno di colmare quel silenzio con futili ciance.
A quell'ora della mattina non c'erano molte persone in giro per il paese e il sole ancora non illuminava i tetti delle case.
L'assenza di rumore era talmente inquietante che ai suoi occhi quel paesino poco caratteristico, e spesso noioso, assumeva tinte quasi fosche.
Per questo furono entrambi grati nel vedere, all'orizzonte, una carrozza che, sulla strada principale da e per Plaingrass, si avvicinava con lentezza.
Nancy allungò il collo e si mise perfino in punta di piedi, per osservare bene: «Eccolo, deve essere lui».
Nervosamente si accarezzò le pieghe della sua gonna, mentre il mezzo colmava sempre di più la distanza.
Si fermò proprio al centro della piazza, sotto lo sguardo impaziente della madre Nancy. Ma il primo a scendere non fu il figlio, bensì un ragazzo dall'aria giovane e slanciata che, insieme al cocchiere, saltò giù dal mezzo con estrema agilità.
Byron si fece subito avanti, offrendosi di aiutare il giovane a scaricare le valigie e la sedia a rotelle.
«Posso farcela anche da solo», sentì una voce familiare all'interno della carrozza, bofonchiare e lamentarsi: «Mi hai sentito? Lasciami stare».
Quasi stentava a credere che quella voce così rabbiosa appartenesse al suo amico, ma quando tornò sul lato della carrozza, vide distintamente un Heath che cercava, senza grandi risultati, di scendere dalla carrozza ed evitare l'aiuto del cocchiere.
Sua madre Nancy osservava la scena in silenzio, a disagio, tormentandosi le mani, indecisa se farsi avanti e dare una mano oppure lasciare il figlio in pace.
Gli stessi sentimenti contrastanti li provava anche Byron che rimase immobile, chinandosi solo leggermente per posare a terra l'unica valigia che Heath aveva portato con sé.
Il giovane inserviente montò in fretta la carrozzina, con una tale esperienza che Byron pensò lo avesse fatto per molte altre persone prima, e la posizionò proprio davanti alla portiera aperta della carrozza.
La sistemò così vicino che alla fine Heath riuscì davvero a scendere da solo, appoggiandosi con entrambe le mani e sollevandosi un po' a fatica. E quando si lasciò cadere sulla sedia, emise solo un leggero mugolio e un sospiro stanco.
Solo in quel momento l'uomo alzò la testa a fissare i due presenti, con sguardo leggermente truce.
Byron non ricordava neanche l'ultima volta che il suo migliore amico lo aveva fissato in quel modo, come se il motivo di ogni suo turbamento lo avesse davanti agli occhi. E lo fece rabbrividire.
Ma invece di farglielo notare, tentò di sorridere mentre affermava: «Ben tornato a casa, Heath».
Evitava di non fissare troppo a lungo il moncherino che un tempo era stata la sua gamba sinistra ma così i suoi occhi non riuscivano a smettere di guardare la sua testa fasciata e il livido sulla guancia.
Non voleva notare troppo il suo aspetto emaciato, il suo fisico dimagrito e le spesse occhiaie sotto gli occhi, ma non poteva farne a meno.
Ne rimase colpito, al punto che non riuscì a dire più nulla, nonostante avesse invece preparato un discorso.
La madre invece si fece avanti, un po' più baldanzosa e cercò di prendere la mano del figlio, solo che lui, non appena sentì un contatto sfiorarlo, si ritrasse con uno scatto.
Solo Byron probabilmente notò l'espressione delusa della donna, che comunque passò in pochi secondi, per tornare a sorridere speranzosa rivolta al figlio.
«Siamo davvero contenti di rivederti, figlio mio, eravamo tanto in pensiero per te».
Anche lui capì che erano parole messe in fila per colmare un silenzio imbarazzante, tanto che roteò gli occhi prima di asserire: «Bé, eccomi qui... salvo ma non poi tanto sano».
L'atmosfera si fece ancora più tesa di prima e Byron pensò che forse non era stata una grande idea presentarsi lì, di prima mattina, a salutare il suo amico di ritorno dal fronte.
Eppure tentò di mettercela tutta e di sembrare il più contento possibile mentre aggiungeva, cercando forse di tirargli su il morale: «Astrid e gli altri saranno davvero contenti di rivederti...».
«Oh sì, dovresti vedere quanto sono belli i gemelli», aggiunse Nancy, sperando di facilitare le cose.
Ma l'espressione di Heath non cambiò di una virgola. Freddo, distaccato, scocciato come se fosse infastidito anche solo dalla loro presenza, e Byron non sapeva cosa dire o fare per risollevare il suo morale.
«Uno di questi giorni dovresti venire a cena da noi».
«Sì, certo».
L'inserviente interruppe la loro imbarazzante e per niente stimolante conversazione dichiarando, con tono un filo sarcastico: «Bene, è tutto vostro».
Byron poteva solo immaginare che cosa avesse passato quel povero ragazzo, costretto a viaggiare con un Heath nero e scorbutico per ore senza via di uscita.
Non poteva biasimarlo se, insieme al cocchiere, risalì in fretta sul mezzo e non rimase ad osservare la scena.
«Bé, restiamo qui a fissarci e a morire di freddo oppure mi portate a casa?».
Byron e la signora Allroy si fissarono, l'uno in imbarazzato per l'altra e viceversa.
«Allora?», insistette Heath. A quel punto la madre si mosse verso di lui, con l'intento di prendere la sedia e trascinarlo verso casa, ma lui la precedette.
Prima fulminò la donna con un'occhiata di fuoco e quasi la speronò mentre con tutta la forza che aveva, che in realtà era ben poca, spingeva le ruote della sua sedia per avanzare.
Nessuno dei due si permise di offrirgli una mano, visto che non l'avrebbe accettata, ma Byron si caricò di nuovo la valigia dell'amico e lo seguì, lanciando uno sguardo comprensivo alla donna affranta e anche un po' delusa.
Si era sicuramente aspettata una reazione diversa dal figlio e come poterla biasimare.
Più di una volta le ruote s'incastrarono tra le pietre del mattonato della piazza e delle vie strette del paese ma ancora una volta né Byron né Nancy si permisero di offrirsi volontari per dargli una mano.
Rimasero sempre al suo fianco, in silenzio, mentre sbuffava e imprecava dando la colpa a chiunque.
Fino a quando non arrivarono alla porta di casa della famiglia Allroy. Heath si fermò proprio davanti, osservando il legno scuro rovinato dagli anni e dal clima, come se non l'avesse mai vista prima di allora.
Tutto sarebbe dovuto sembrargli famigliare, in quel luogo dove era nato e cresciuto, eppure non si sentiva più a suo agio. Non solo perché aveva fatto fatica a percorrere quei pochi metri, ma anche perché troppe cose erano successe in quegli anni.
Troppe cose erano cambiate. Lui era cambiato.
La madre si ridestò in quel momento, sorpassandolo con sguardo timido: «Aspetta, ti apro», disse mentre spalancava la porta davanti al figlio e rimaneva lì, in attesa che lui tentasse di entrare.
Ma ancora una volta Heath non fece nulla. Osservò da fuori l'interno, o quel poco che si poteva vedere, con la strana sensazione che quella non fosse più casa sua.
Ci era cresciuto, l'aveva amata e odiata allo stesso tempo, eppure in quel momento non provava nulla. Nulla nei confronti di quelle quattro mura che erano state la sua dimora.
Quando si rese conto di essersi estraniato, si riprese e, dando una spinta, tentò di entrare, fingendo che nulla fosse successo. Ma anche lì trovò difficoltà.
Lo stipite della porta, infatti, era troppo alto e le ruote della sedia non riuscivano a sorpassarlo. Imprecò, sbuffò, e quasi si ruppe un braccio, ma per nessuna ragione al mondo chiese aiuto.
Byron, che gli stava alle spalle, fu tentato di dargli una mano ma si morse il labbro e rimase al suo posto, aspettando con pazienza.
Più Heath tentava di fare le cose da solo, più l'imbarazzo cresceva e gli occhi di Nancy iniziarono a diventare lucidi.
Vedere il figlio in difficoltà per una cosa così semplice come entrare in casa, era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Si voltò per non farsi vedere dal figlio mentre si asciugava una lacrima che era fuggita al suo controllo.
Per fortuna Heath era troppo intento a imprecare contro il mondo intero per rendersi conto del disagio della madre e, dopo l'ennesimo tentativo, riuscì finalmente ad entrare.
Non disse nulla, non commento il fatto ma alzò gli occhi al cielo quando fu costretto anche a scendere il gradino che dall'entrata portava alla cucina.
Byron e Nancy, ancora rimasti sulla porta, si scambiarono l'ennesimo sguardo di solidarietà e lui sentì il bisogno di avvicinarsi e accarezzarle dolcemente un braccio, trasmettendogli il suo supporto.
Era sul punto di entrare in casa ma sentì l'amico che gli urlava da dentro: «Ora puoi anche tornare dalla tua famiglia, Byron, grazie».
Non c'era tono di gratitudine nelle sue parole, anzi, sembrava fosse quasi furioso con lui perché aveva una famiglia da cui tornare. Ma ancora una volta cercò di non prendersela troppo.
Nancy spalancò gli occhi e, in evidente imbarazzo, cercò di smorzare la tensione, solo che Byron non le permise neanche di dire nulla, annuì in modo comprensivo e le sussurrò soltanto: «Non c'è problema, vado via... Ora lasciamolo riposare, tornerò quando starà meglio».
Lo disse senza però la convinzione che potesse bastare una dormita per guarire Heath e farlo tornare il ragazzo che conosceva. Con un po' di titubanza, e di rammarico, lasciò sulla porta la valigia, si voltò e se ne andò con la coda tra le gambe.
Nancy rimase ad osservare il lord che si allontanava, diretto alla carrozza che lo avrebbe portato alla tenuta Devenport, con rammarico e anche un po' di risentimento nei confronti del figlio.
E nonostante una parte di lei avrebbe voluto continuare a scusarlo, per tutto ciò che aveva passato, quando entrò in casa e si chiuse la porta alle spalle non riuscì a ricacciare indietro il suo malumore.
«Avresti potuto essere più gentile con il tuo amico, è venuto qui apposta per salutarti e darti il bentornato e tu lo hai cacciato», gli disse non appena entrò in cucina, fissandolo come quando faceva il bambino capriccioso.
Non le importava se ormai era un uomo vissuto e ferito, per Nancy restava sempre il suo bambino. E uno dei tanto doveri di un madre era quello di sgridare il proprio figlio quando ce ne era bisogno.
Ma lui non chiese scusa, come quando era piccolo e si rendeva conto di aver sbagliato, grugnì semplicemente e affermò: «Gli ho fatto un favore e l'ho tolto dall'imbarazzo».
C'era della pura cattiveria nel suo tono, contornato perfino da un sorriso divertito, che Nancy stentò a riconoscere il figlio in quell'espressione.
«Tu non sai di cosa parli. Lord Byron è stato molto presente nelle nostre vite mentre tu eri al fronte, ci ha donato olio e vino senza compenso e ha perfino pagato le riparazioni del tetto l'inverno scorso. Non ci ha abbandonati nel momento in cui avevamo più bisogno di un aiuto», lo sgridò lei, menzionando solo alcune delle cose che l'amico del figlio aveva fatto per loro.
Ma Heath non ne rimase sorpreso, anzi, parve perfino scocciato di sentirla parlare in quel modo di Byron. Con un gesto della mano scacciò le sue parole e sbuffò: «Buon per voi, ora, se non ti dispiace, vado a riposare».
Non le permise di dire nulla, si voltò e se ne andò, trascinando a forza la sua sedia a rotella ma con la stessa determinazione che aveva avuto nell'entrare in casa.
Non avrebbe ascoltato, Nancy lo comprese e se ne preoccupò. Ma decise anche di dargli un po' di tempo perché in fondo era quello che si meritava.
Tempo per sentirsi di nuovo a casa. Tempo per sentirsi di nuovo al sicuro. Tempo per capire che poteva tornare ad essere felice, tutto sommato.
Spazio autrice:
Buonasera😊
Eccoci qui con il primo capitolo di questo spin-off. Che ne pensate? Siamo solo all'inizio, ovviamente, però già si capisce abbastanza bene che Heath è cambiato molto. La guerra lo ha devastato e, in fondo, come biasimarlo?
Mi raccomando, fatemi sapere che ne pensate, i vostri pareri sono sempre molto preziosi per me. E noi ci vediamo al prossimo capitolo.
Chiara😘❤️
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