🌹Prologo🌹
A Babú,
che è la mia unica forza
e la mia unica gioia
Successe di nuovo a scuola.
Ero in classe, ero appena arrivata ed ero piuttosto tranquilla, come sono sempre la mattina.
Ho tolto le bretelle dello zaino e mi sono seduta al mio posto, l'ultimo della fila di sinistra.
Il professore non era ancora arrivato, così come buona parte della mia classe.
In genere tendo ad arrivare prima di tutti, e anche quel giorno ero nettamente in anticipo.
Colpa di mio padre e del suo lavoro da medico, che lo obbliga a svegliarsi ogni giorno sempre molto presto.
Mia madre, invece, lavora in un negozio di fiori, e si sveglia sempre all'alba per andare a rifornire i banconi di legno.
Ho sempre adorato il negozio, con quella sua aria antica e poetica.
Lo ha ereditato dalla nonna, e da allora gli arredi sono rimasti sempre gli stessi, principalmente in legno e ferro battuto.
L'odore dei fiori ha sempre colmato i ricordi della mia infanzia, insieme a quello della carta stampata e della cioccolata, altre due mie grandi passioni.
Anche quella mattina, dunque, mi ero svegliata molto presto ed ero in classe.
Insomma, tutto lasciava pensare ad una mattina qualunque.
Invece è successo di nuovo.
Anche quella mattina ho visto vite altrui.
Non so come possa essere accaduto ma, appena ho sfiorato la superficie del banco, ho intravisto ombre oscure sotto le palpebre, e un sapore acido sulla lingua.
Accade sempre prima che inizi la visione vera e propria, prima che abbandoni il mio corpo ed entri in quello di un'altro.
Stavolta era una donna.
Ho riaperto gli occhi, ed erano nel cranio di un'altra persona.
Ho messo a fuoco un soggiorno piccolo, piuttosto sporco e malmesso, con alcuni cartoni di pizza vuoti e unti sulla moquette color sabbia.
La televisione trasmetteva ininterrottamente un canale di televendite, e io ero sdraiata su un vecchio divano cigolante.
All'improvviso un telefono accanto a me ha squillato ed io, senza neanche volerlo, ho visto le mie mani enormi agguantare la cornetta e rispondere, con una voce raschiante come carta vetrata.
《Pronto?》
《Signora Morgan, sono Stanley. Non un giorno di più, voglio i soldi entro domani mattina》
《Ma Stan! Sai bene che non ho abbastanza liquidi per ripagarti, devo ancora vedere l'ultimo stipendio!》
Ho sentito un enorme peso sul cuore, una mole fatta di puro terrore.
《Non un minuto di più. Sono stanco di te e delle tue bugie》
《Ti prego, dammi ancora una settimana!》
《Non un minuto di più》
In quel preciso istante mi sono sentita scuotere violentemente per una spalla.
Ho riaperto gli occhi, e ho visto la carta geografica degli Stati Uniti dritta davanti a me.
Ero rientrata nel mio corpo, ero di nuovo io.
Il viso congestionato del professore di Storia era chino su di me, così come i volti di quasi tutti i miei compagni di classe.
Solo allora mi resi conto di essere stesa per terra.
《Violet! Ti senti bene?》
《I-io? Si, si sto bene》
Mi rialzai a fatica, aiutata dall'infermiera della scuola che, nel frattempo, era stata avvertita.
La testa mi scoppiava come ogni volta dopo una visione, e le vertigini mi impedivano di camminare.
Si parlò di chiamare un'ambulanza, ma mi opposi con forza a questa eventualità.
Era già accaduto, e in ospedale non vedevano troppo di buon occhio i miei "finti mancamenti".
Effettivamente negli esami del sangue e nelle radiografie non risultava nulla di preoccupante, e per i medici del pronto soccorso diventava un'inutile perdita di tempo.
Mio padre aveva insistito a lungo per sottopormi ad esami più approfonditi portandomi addirittura a Montreal, in una clinica specializzata in patologie cerebrali, ma non era venuto fuori nulla.
Decisi però di farmi venire a prendere, e lo stesso direttore telefonò a mia madre al negozio.
Lei arrivò quasi subito, trafelata e preoccupata, come ogni volta dopo episodi analoghi.
Parlò per una mezz'ora circa con il direttore, e io trascorsi quel tempo succhiando una caramella al limone offertami da Miss Turner, la segretaria.
In realtà stavo molto meglio, mi ero perfettamente ripresa se si escludeva il dolore alla testa, che in effetti era ancora molto forte.
Le visioni erano così, un sapore strano in bocca, delle ombre dietro le palpebre e poi il risveglio nel corpo di qualcun'altro.
Mi accadeva circa due, tre volte l'anno, anche se non a cadenza regolare.
Semplicemente, capivo che stava arrivando una visione, mi stendevo sul pavimento e aspettavo con pazienza il momento esatto in cui entravo nel corpo di qualcun'altro.
Poi, senza altri particolari impedimenti, tornavo nel mio corpo e mi rialzavo, continuando quello che stavo facendo.
Le visioni erano sempre diverse, così come le persone in cui entravo; a volte era un uomo, a volte un ragazzo, spesso erano donne e mai bambini.
In genere entravo nei loro corpi in momenti di quotidianità, quando preparavano il caffè o leggevano un libro.
Non mi è mai capitato di entrare in un'altra persona in casi particolari o di pericolo.
Effettivamente, neanche questa visione aveva nulla di particolare.
Certo, una donna sul lastrico, sola e braccata dai creditori non era la visione migliore che avessi mai avuto, ma comunque lei non era in pericolo.
E io non potevo farci niente lo stesso, non erano fatti miei.
Dopo anni di visioni avevo imparato bene a distinguere la mia vita da quella degli altri.
Mia madre uscì dall'ufficio del direttore e io mi alzai dal divanetto appiccicoso della sala d'aspetto, trascinandomi dietro lo zaino.
Il corridoio era completamente vuoto, le lezioni erano cominciare e gli unici rumori percepibili erano le spiegazioni dei professori nelle diverse aule.
Mia madre mi tenne una mano sulla spalla, quasi fossi una bambina piccola e non una ragazza di diciassette anni.
Stavolta si era preoccupata davvero; come mio padre e buona parte della mia famiglia, anche lei sapeva delle mie crisi, anche se non avevo mai raccontato a nessuno dove andavo a finire, mentre il mio corpo giaceva immobile sul pavimento.
Non era mai accaduto a scuola, e nessuno dei professori era stato messo al corrente di ciò che poteva accadermi.
Nemmeno i miei amici sapevano di quello che mi succedeva, nonostante Chris e Holly mi conoscessero da sempre.
La versione ufficiale era "crisi da stress" (come facessero a crederci non ne ho idea) e io stessa non l'ho mai smentita.
Nel tempo mi sono accorta che non era esattamente il genere di qualità che ci si aspetterebbe da una persona normale, e da allora ho sempre preferito tenere questa stranezza per me.
La strada verso casa non mi era mai parsa più noiosa.
Le case di Butcher Street, tutte così perfette nelle loro aiuole piene di fiori, cozzavano di molto con il cielo grigio e pieno di nuvole.
Era esattamente il tempo perfetto per rintanarmi in biblioteca.
L'auto si fermò al lato della strada, giusto il tempo di farmi scendere.
《Tu intanto va in casa, devo avvertire Judith che per oggi non sarò al negozio》esclamò mia madre, con un sorriso.
Annuii e scesi dalla macchina, cercando di evitare le gocce di pioggia che, nel frattempo, avevano cominciato a scendere dal cielo.
Appena raggiunsi lo zerbino mi resi conto che era stato praticamente tutto inutile; in meno di mezzo minuto erano scesi almeno due litri di pioggia.
Avevo i capelli appiccicati sulla testa e la divisa completamente fradicia.
Cercai le chiavi nella tasca anteriore dello zaino, e ci misi almeno altri dieci secondi.
La pioggia zampillava allegramente sul ferro delle grondaie, e il piccolo doccione a forma di demone rigurgitava acqua come se vomitasse.
Adoravo quei piccoli dettagli gotici della mia vecchia casa, erano suggestivi e particolari.
Papà diceva che era stata costruita nel 1899 da una ricca famiglia di industriali metallurgici della zona, ed era passata di generazione in generazione fino alla mia famiglia, i Whisper.
Quando Holly e Chris venivano a trovarmi l'estate, organizzavamo le più divertenti cacce al tesoro, in giardino o più spesso nelle vecchie stanze della casa, come il sottoscala o la soffitta, polverosa e disseminata di ragni.
La casa era davvero imponente: tre piani, otto stanze fra cui tre camere da letto, tre bagni, la soffitta e la biblioteca, la stanza in assoluto più bella di quella abitazione.
Era la più larga, e possedeva circa dieci alte librerie di legno, contenenti dozzine e dozzine di volumi.
Erano stati comperati dal nonno con la casa, e da allora nessuno ha mai voluto disfarsene, nonostante una stanza più larga avrebbe fatto molto comodo.
Negli anni avevo letto quasi tutta la biblioteca, tranne alcuni vecchi e noiosi libri in latino, quelli non riuscivo proprio a digerirli.
Soprattutto da piccola adoravo passarci i pomeriggi di pioggia, con una mela e Kurtz, il mio gatto, sulle ginocchia o, più spesso, a ronfare davanti al camino.
Finalmente trovai le chiavi e riuscii ad aprire la porta, infilandomi subito dentro.
Tutta quell'acqua rendeva assolutamente obbligatoria una doccia calda, dato che sentivo già otturarsi il naso.
Lasciai zaino e cappotto in cucina e corsi subito in bagno, al piano di sopra.
Il familiare scricchiolio delle scale di legno rimbombava per tutta la casa vuota, ed ebbi quasi un brivido.
Mi bloccai in cima alle scale; possibile avessi realmente paura?
In casa mia?
Decisi di ignorare quella sensazione bizzarra e mi rifugiai in bagno, chiudendo la porta a chiave.
Aprii il rubinetto della vasca e iniziai a riempirla d'acqua calda, il rumore del vecchio boiler in funzione si uní a quello della pioggia all'esterno.
Mi infilai nell'acqua, beandomi del calore che emanava, distendendomi sul fondo.
Le bolle di sapone color rosa pallido mi solleticavano un po', mentre risalivano lentamente la superficie dell'acqua.
Mi sentivo molto meglio, il dolore alla testa era totalmente scomparso, lasciando dietro di sé solo una vaga sensazione di lieve vertigine.
Dal piano di sotto sentii la porta aprirsi e richiudersi con un piccolo tonfo, e capii che mia madre era tornata.
Tolsi dai capelli ogni residuo di sapone e aprii lo scarico, osservando l'acqua colorata venir risucchiata dal tubo.
Mi avvolsi nell'asciugamano e circondai i capelli bagnati con un'altro.
Piombai in camera e spalancai l'armadio, afferrando le prime cose che mi sfiorarono le dita: un paio di pantaloni di stoffa a quadretti verdi e gialli, e un maglione di lana calda color prugna.
Ci abbinai due paia di calzini di colore differenti, azzurre le calze lunghe e rosse le calze corte, e infilai i piedi nelle pantofole a forma di coniglio.
Ho una vera ossessione per le calze, e adoro metterne di colore differente per ogni piede.
Mia madre mi soprannomina spesso Arcobaleno, per questa mia assurda mania di indossare diversi colori tutti insieme, ma a me non da poi fastidio.
Mi piace molto avere tanti colori addosso, lo trovo divertente.
Kurtz, che fino a quel momento non si era fatto vedere, entrò di soppiatto in camera mia e balzò sul mio letto, precisamente sul mio cuscino preferito.
《Oh, scendi subito da lì! Detesto quando ti sistemi sul mio letto, lo sai che odio trovare i tuoi maledetti peli dappertutto! 》gli intimai, cercando di sembrare il più autoritaria possibile.
Ovviamente a quel gatto non interessava nulla della mia opione o delle mie minacce, e continuò a rimanere sdraiato lì, osservandomi con i suoi occhi verdi.
Stavolta lo ignorai, anche perché sapevo che avrebbe trovato il modo di far notare la sua espressione da gatto triste a mia madre, che lo capisce quasi fosse un essere umano.
《Violet! Hai di nuovo sgridato Kurtz? Oh, guardalo come è malinconico, povero gattino! Sei davvero cattiva, sai?》
Mi passai il phon sui capelli, osservando di sottecchi il gattastro attraverso lo specchio della toeletta.
Niente, non accennava nemmeno a spostarsi.
Se fosse dipeso da me lo avrei sbattuto fuori di casa già da molto tempo.
Tolsi la spina del phon dalla presa elettrica ("Mai lasciare gli apparecchi collegati se non li usi! L'impianto di questa casa è vecchissimo Violet!" come urlava spesso papà) e scesi di sotto, saltellando per le scale come facevo di solito.
Il mio cappotto aveva lasciato una grossa chiazza d'acqua sul parquet, e mi maledissi interiormente per tutti i riproveri che avrei dovuto sorbirmi per averlo bagnato.
Effettivamente mi sembrava strano che mamma non lo avesse spostato dalla sedia.
Entrai in cucina e la trovai silenziosa, la ciotola delle crocchette di Kurtz era insolitamente vuota, così come il tavolo di legno.
Pentole e padelle erano al loro posto, stipate nelle mensole.
Che fosse di sopra?
Non riuscivo a percepire alcun rumore di passi, né il borbottare della lavatrice e neppure uno sbattere di porte.
Dov'era la mamma?
Che non fosse ancora rientrata lo trovavo strano, in fondo avevo sentito chiaramente la porta di ingresso aprirsi.
Lasciai la cucina e entrai in tutte le stanze, biblioteca e sottoscala comprese, ma non trovai nessuno.
Un gomitolo di lana verde cadde per terra quando aprii la porticina del sottoscala, il posto in cui mi dedicavo ai compiti e ai lavori a maglia.
Rotoló incontrastato per tutto il corridoio, slabbrandosi in un lungo filo.
Mi sentii un po' come Kurtz, mentre tentavo di riacciuffarlo prima che cadesse nello scantinato semiaperto.
Odiavo quel posto, era così buio e polveroso da far lacrimare gli occhi, non aveva una lampadina e le scale che conducevano lì sotto erano vecchie e pericolose.
Quando lo vidi piombare nell'oscurità decisi di lasciar perdere.
Lo avrei ripreso più tardi con papà, quando sarebbe rientrato dal lavoro.
Tornai in cucina, decisa ad aspettare mia madre sgranocchiando delle patatine e guardando qualche cartone alla TV.
Avevo appena acceso la televisione, quando notai qualcosa che prima non avevo visto.
Esattamente al centro del piano di cottura, accanto al lavandino, stava un bel vaso.
Un vaso bianco colmo di rose rosse.
Era una delle composizioni dei fiori che vendeva mia madre, probabilmente l'aveva lasciato in casa per consegnarla a qualcuno nel pomeriggio.
Lo afferrai per sistemarlo in sala, ma dalle foglie cadde un biglietto, una busta chiusa.
Probabilmente avrei dovuto farmi gli affari miei, ma la mia innata curiosità mi imponeva di aprirlo e dargli un'occhiata.
In fondo a chi avrei fatto male se avessi letto una sciocca dichiarazione di amore eterno?
Avrei passato un po' di tempo nell'attesa che mia madre tornasse.
Mi sedetti al mio posto e voltai la busta.
C'era scritto, a inchiostro nero:
Miss Violet Whisper,
235 Butcher Street
Woodborough
Sgranai gli occhi.
Una lettera per me, attaccata a un vaso di rose?
Improvvisamente, sentii la serratura della porta d'ingresso scattare, e la voce di mia madre chiamarmi dall'anticamera.
《Violet, sono a casa! Mi dispiace essermi assentata a lungo, ma mi sono ricordata che a Kurtz mancavano le crocchette e... ehi, cos'è questa macchia sul pavimento? Non avrai lasciato di nuovo il cappotto sulla sedia?》
Infilai la busta nella tasca dei pantaloni e balzai in piedi, attraversando il corridoio come un fulmine.
Ebbi appena la visione distorta e sfocata di mia madre in piedi di fronte alla porta, la giacca gocciolante d'acqua e delle buste della spesa in mano, prima di salire le scale.
《Signorina, dove hai intenzione di andare! Torna qui!》fu l'ultima frase che udii, prima di chiudermi nel silenzio della biblioteca.
Note dell'autrice
Finalmente sono riuscita a pubblicare il prologo di questa storia! Sono così felice! *^*
Che ne pensate di Violet, come vi sembra?
E degli ultimi sviluppi?
Commentate pure, mi farebbe molto piacere chiacchierare un po'!
E tanti auguri di buon anno a tutti! Che possano essere 365 giorni pieni di gioia e serenità!
Baci♥
Sophie
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