The trap

Namid

Kuckunniwi era un codardo e un subdolo doppiogiochista, ma non era stupido. Non si sarebbe mai lanciato in un'impresa rischiosa se avesse potuto ottenere ciò che voleva in un altro modo. Digrignai i denti dalla rabbia al pensiero che il generale Dodge credeva di poter disporre di me e Ayasha a suo piacimento solo perché eravamo donne! Ma oppormi apertamente avrebbe solo peggiorato la posizione di Russell, perciò non mi rimaneva che agire in fretta e sperare che la trappola che avevo ideato funzionasse.
Mancavano poche ore al calare dell'oscurità, quando avrei agito con la complicità dei compagni di Russell; dopo che alcuni uomini avevano provato ad aggredirla, Ayasha aveva trovato rifugio nella chiesa da Annabeth e quando ero passata ad accertarmi delle sue condizioni — avevo infatti il terrore che gli ultimi tragici avvenimenti potessero farle perdere il bambino — avevo notato con sollievo che Nowak sostava nei pressi della tenda e sorvegliava attentamente chiunque si avvicinasse. Evidentemente temeva per la sua promessa sposa e sarebbe di certo intervenuto se qualche operaio avesse avuto l'idea di "dare una lezione all'indiana", come sentivo dire in giro per il campo.
Mi diressi perciò da Rachel, tenendo sempre la mano vicino alla mia borsa per afferrare la pistola in caso di pericolo: avevo bisogno del suo aiuto per somigliare il più possibile ad una delle sue ragazze, per quanto l'idea mi facesse rabbrividire, e poi ero preoccupata per lei, dato che non la vedevo da giorni ormai.

Quando arrivai al bordello, però, una delle prostitute mi tagliò la strada:
"Non oggi, indiana. La signora Rachel non vuole vedere nessuno!»

«Ho bisogno di lei!» replicai. «E tu non puoi impedirmi di passare!»

«Pauline, lasciala entrare»

La voce della mia amica si sentì appena oltre la porta chiusa e Pauline si fece da parte con espressione preoccupata.
Mi stupii di trovare Abraham in piedi davanti alla porta, quasi invisibile nella penombra in cui la stanza era immersa: Rachel giaceva nel letto con gli occhi socchiusi e i capelli sparsi sul cuscino.
Mi voltai verso l'ex-schiavo, che teneva gli occhi bassi:
«Cosa succede, Abe? Perché sei qui? E perché Rachel non si fa vedere in giro?»

«Sono malata, non sorda!» borbottò Rachel bonariamente, scoppiando poi a tossire in modo convulso, tenendosi un fazzoletto premuto sulla bocca. Quando lo poggiò sul comodino notai con orrore che era macchiato di sangue.
La donna colse la mia occhiata spaventata e sorrise:
«Si chiama tisi, dolcezza.»

«È grave?» balbettai, indecisa se avvicinarmi o meno. «Morirai?»

Rachel lanciò un'occhiata ad Abraham, che restava ostinatamente muto:
«Il dottore è stato parecchio misterioso ma... Sì, morirò, anche se non so bene quando. Forse non supererò l'inverno, forse arriverò al prossimo, chi lo sa? La consunzione è una malattia che ti sfianca lentamente. Direi che i tuoi problemi sono molto più urgenti, non è vero? Colt è in galera.»

Rimasi a bocca aperta nell'udire il tono distaccato con cui parlava della sorte che pendeva implacabile su di lei:
«Ma ci dev'essere una cura, qualcosa che si può fare! Voglio dire, la vostra società è così... Così avanti in tante cose e...»

«Non abbastanza avanti per questo, temo.» replicò dolcemente Rachel e fu in quel momento che iniziai a piangere silenziosamente. La donna sospirò:
«Abe, per favore, puoi lasciarci sole? Utilizza la porta sul retro e fai sì che nessuno ti veda, mi raccomando.»
Il nero si riscosse dalla sua immobilità e dopo aver lanciato un'ultima occhiata addolorata alla prostituta imboccò la porta: vederlo così silenzioso e fragile nel suo dolore aumentò l'angoscia che mi pervadeva.
«No, non avvicinarti!» ringhiò Rachel tra un attacco di tosse e l'altro, mentre si sistemava a sedere sul letto. Obbedii, notando comunque la pelle pallida delle sue braccia e le mani quasi scheletriche.

«Non senti freddo?» chiesi, vedendo che indossava solo una leggera veste da camera.

«Al contrario, muoio di caldo, la notte non riesco neanche a dormire... Perché eri venuta da me, Namid?»

«Avevo bisogno di un consiglio, ma adesso... Non so se è il caso.»

«Oh, andiamo, non sono ancora morta! Ho già reso chiaro alle ragazze che finché non mi si chiudono gli occhi sarò io a mandare avanti la baracca; convincere quel bisonte testardo di Abraham a non vederci più è stato più difficile, ma sono riuscita anche in quello. Quindi non sarai certo tu a trattarmi da povera invalida, indiana!»

Ridacchiai, sedendomi a gambe incrociate sul pavimento e lanciando un'occhiata all'ambiente che mi circondava: la stanza, a differenza di tutto il resto del campo, era piena di oggetti. Lampade spente, numerosi specchi di ogni forma e dimensione, biancheria, vestaglie e camicie sparse su ogni sgabello e poi ancora appendiabiti, pantofole ordinatamente disposte in fila in un angolo, buffi cappelli con le piume, spazzole, trucchi, gioielli, profumi...
Tutto, lì dentro, parlava di lei e della sua storia. Invece di vergognarsi e rassegnarsi a subire il suo destino Rachel si era fatta strada a testa alta in un ambiente dominato dagli uomini: aveva esperienza, fascino e un buon fiuto per gli affari, era bella anche se la sua giovinezza stava sfiorendo e in un luogo marcio e corrotto come la ferrovia era riuscita a trovare anche un uomo che l'amava, seppure di nascosto. E ora che stava per perdere tutto trovava comunque del tempo per me.
«Non sei spaventata da ciò che ti aspetta?» chiesi, di getto.

Rachel piegò la testa da un lato:
«Ha senso preoccuparsi per qualcosa che non posso evitare? Ascolta: ho vissuto intensamente ogni attimo della mia vita, anche quando ero solo una volgare donna di piacere. Ho fatto molte scelte, alcune giuste, altre decisamente sbagliate; ho pianto, ho riso, ho amato... E di tutto ciò che ho passato non c'è una sola cosa di cui mi rammarico. Ho avuto una bella vita, Namid: non la migliore, certo, ma è stata ricca di persone e di luoghi e difficilmente una come me avrebbe potuto ottenere qualcosa di più. L'unico vero, grande consiglio che ti posso dare è questo: non avere mai rimpianti. Mai. Mi dispiace solo per Abraham, sì, per lui mi dispiace molto.»

Alla fine di quel discorso le lacrime premevano di nuovo ai bordi dei miei occhi, impazienti di uscire, ma mi sforzai di ricacciarle indietro: ero sicura che Rachel avrebbe disapprovato quello che considerava un gesto di debolezza.

«Vorrei avere anche solo la metà della tua sicurezza!» sospirai, chiudendo gli occhi. «Me ne servirà molta stasera... Insieme a qualcosa che solo tu mi puoi prestare!»

Gli occhi della mia amica si accesero di curiosità ed io, lanciando un'occhiata preoccupata al sole che si avviava rapidamente al tramonto, iniziai a parlare.

•••

Il vestito che una delle ragazze di Rachel mi aveva prestato era estremamente scomodo per una che, come me, per tutta la sua vita non aveva indossato altro che una morbida tunica di pelle di bisonte. Era stretto e rigido, ma allo stesso tempo lasciava scoperta più pelle di quanto fosse lecito; soffocante e ingombrante, ma sembrava attirare l'attenzione degli uomini. Pregai tutti gli spiriti affinché non incontrassi King o uno dei suoi compari: sarebbe stata la fine per me e quindi anche per Russell. Dovevo agire quella sera stessa per evitare che Kuckunniwi rivelasse i suoi dubbi a Dodge e questi subodorasse l'inganno. Sospirai di sollievo quando, in mezzo alle battute crudeli che ironizzavano sulla condizione di Russell e sulla soluzione che sembravo aver trovato, udii le risate rassicuranti dei ragazzi della squadra. Presi un respiro profondo, adocchiando l'indiano che sostava accanto ad un bivacco qualche iarda più in là: non mi aveva ancora notato, perché la visuale gli era coperta dalla sua "scorta".
"Forza, Namid: sei tu ad essere in vantaggio. King non è nei paraggi, e tu conosci gli uomini bianchi, Kuckunniwi no. Il tuo piano riuscirà e lui perderà la testa!"

Sorrisi e mi avvicinai a Eric Collins che mi strizzò l'occhio con fare complice, sfiorandomi il braccio: sperai che nessuno notasse quanto fossero discreti. Tra il tessuto frusciante che mi accarezzava le braccia sentivo comunque il peso rassicurante della Remington, la mia ultima e più solida garanzia di sopravvivere. Bryan Lynch mi afferrò per i fianchi ridendo:
«Mi raccomando, non farne parola a Colt!» sussurrò nervoso, continuando a toccarmi.
In breve mi furono tutti intorno, proteggendomi e allo stesso tempo aiutandomi nella mia farsa, beccandosi le lamentele degli altri lavoratori.

«Avanti, lasciatela un po' anche a noi!» si sentiva gridare da tutte le parti.

Fu allora che Kuckunniwi si accorse di cosa stava succedendo: vidi i suoi occhi di serpente scandagliare la folla fino a posarsi su di me ed improvvisamente rallentai i miei movimenti, come se fossi ammaliata dal suo sguardo furioso. Con un ringhio degno di un lupo iniziò a spintonare i presenti per farsi largo verso di noi e quando un ragazzo provò a richiamarlo senza esitazione lo buttò a terra, continuando imperterrito ad avanzare. Gli uomini rumoreggiarono infastiditi e Kuckunniwi, con uno slancio, spedì a terra Jacob Fano che stazionava coraggiosamente davanti a me nonostante la figura bassa e magra. Le sue mani mi afferrarono i capelli e gemetti per il dolore, mentre sentivo la lama fredda del suo coltello premermi sulla gola:
«Stella-che-balla viene con me.» urlò in un inglese stentato. «Lasciatemi andare o l'ammazzo!»

La folla iniziò ad indietreggiare, colpita – nessuno voleva rischiare tanto per una donna, per di più mezzosangue. Anche i ragazzi della squadra, ad un mio cenno, si dispersero con un'ultima occhiata preoccupata: ero sicura che Abe sarebbe andato da Russell, mentre Lee correva in direzione dell'alloggio di Dodge.
Kuckunniwi mi strattonò lontano dai fuochi, nell'oscurità ai limiti del campo: aveva rotto i patti con gli uomini bianchi e sapevo bene che Dodge avrebbe reagito duramente. Non tanto per la mia incolumità, quanto per l'onore: farsi ingannare e sottomettere da un indiano non era una cosa che il capo della ferrovia avrebbe mai potuto accettare.
La mia idea si era quindi rivelata vincente, ma quando Kuckunniwi mi lasciò andare con un ghigno soddisfatto sorse un nuovo problema, per il quale non avevo ancora trovato una soluzione: come avrei fatto ad uscire incolume da quella situazione?
Fortunatamente non dovetti attendere molto perché dalla ferrovia giungessero esclamazioni rabbiose e ordini urlati dalla voce inconfondibile del generale Dodge.

Mi voltai verso Kuckunniwi:
«Hai commesso un grande errore.» urlai, affinché i soldati che stavano giungendo in quel momento mi sentissero e non mi scambiassero per sua complice. Vidi Dodge a cavallo che guidava i suoi con una fiaccola accesa e continuai a gridare:
«Non sei mai venuto meno alla tua natura. Bugiardo! Spergiuro! Ingannatore!»

Ma Kuckunniwi non attese che le truppe di Dodge lo circondassero: mi sferrò un colpo alla nuca che mi stordii e mi prese in braccio, correndo agilmente nelle fronde scure ed impenetrabili della foresta.

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