The story

Namid

La mattina dopo Camicia Blu venne alla tenda e lo sentii parlare e discutere con Russell; non capii tutto quello che si dissero, ma poco dopo l'uomo entrò nella tenda e senza dire una parola mi voltò sulla schiena, iniziando a pulire le mie ferite.

«Non vai a lavoro oggi?» chiesi a bassa voce. Spinta dalle emozioni mi ero comportata da sciocca la sera prima e non sopportavo che Russell fosse arrabbiato con me.

«No. Ho chiesto il permesso al generale Dodge per rimanere qui con te questa mattina e me l'ha accordato. Ovviamente sarà detratto dalla mia paga.»

Mi morsi il labbro:
«Mi dispiace.»

«Non fa niente.»

Sbuffai, irritata, e mi voltai, impedendogli di svolgere il suo compito. Volevo parlargli, ma quando vidi il suo sguardo esterrefatto fisso sul mio petto mi accorsi si essere completamente nuda dalla cintola in su. Afferrai la coperta e mi coprii, imbarazzata, ma così facendo la scatola segreta di Russell cadde a terra. Entrambi ci chinammo a raccoglierla così velocemente che le nostre mani si sfiorarono.

«Mi dispiace.» ripetei, in un sussurro.

Russell sospirò e si passò una mano sul mento.
«Come faccio ad essere sicuro che tu non ti sia già venduta a qualcuno in mia assenza?»

Rimasi sbalordita ed offesa da quell'insinuazione, ma gli risposi con calma:
«C'era un'unica persona a cui potessi fare quell'offerta, ed eri tu. Mi fido solo di te, qui, ma tu mi hai rifiutata.»

«Non ho rifiutato te!» ringhiò. «Ho rifiutato il tradimento, dannazione, non lo capisci?»

«Sì. Capisco che i nostri mondi sono troppo diversi perché possa esserci qualcosa tra noi oltre alla diffidenza e alla sfiducia.»

Lo vidi impallidire di colpo:
«Cosa hai detto?»

«Ho detto che non posso... Noi... Quello che è successo è...» balbettai, confusa ed imbarazzata.

Russell si sedette accanto a me, senza sfiorarmi.
«Quello che hai detto non è vero: il mio mondo può essere il tuo, se lo vuoi. Hai anche sangue bianco nelle vene. Ma c'è una cosa che devo dirti e voglio che tu mi ascolti attentamente: è il motivo per cui faresti bene a non riporre molte speranze su di me, ragazzina.»
Si sfilò la chiave di ferro dal collo e me la porse insieme alla scatolina di legno.
«Ecco, tieni: aprila.»

Non me lo feci ripetere due volte ed obbedii: dentro c'era quella che gli uomini bianchi chiamavano "fotografia" e rappresentava una giovane donna.
Insieme alla fotografia c'erano anche un medaglione d'argento e un pettinino d'avorio. Mi voltai verso l'uomo, che aveva gli occhi lucidi.
«Di chi sono queste cose? E chi è questa donna?»

Lui sospiro e mi prese la scatola dalle mani:
«Devo raccontarti una storia. Devo farlo, così poi starai lontana da me.» borbottò, più a se stesso che a me.
Aggrottai la fronte e mi preparai ad ascoltare.

«Ho fatto cose di cui non vado fiero, durante la guerra.» mormorò Russell, distogliendo lo sguardo dal mio.
«Un giorno i sudisti mi fecero prigioniero: sai cosa è Andersonville? No, certo, tu non puoi saperlo. È una prigione spaventosa, che ti annienta e ti rende l'ombra di ciò che eri... È l'inferno in terra.
Ero così disperato per la sorte che mi aspettava che in un attimo di distrazione dei carcerieri mi buttai giù dal treno che mi avrebbe portato là: fui sbalzato lontano dalle rotaie e mi ritrovai in mezzo al deserto, con diverse ossa spezzate e ferite di vario genere.
Ero convinto che fosse giunta la mia ora, invece la ragazza che vedi in quella foto mi trovò e ordinò ai suoi schiavi di portarmi nella sua villa: mi sfamò e mi curò, nonostante la divisa sbrindellata che indossavo indicasse chiaramente che fossi un nordista. Quando mi fui ripreso abbastanza da articolare qualche parola le chiesi perché lo avesse fatto e lei mi rispose che le ricordavo suo fratello: anche lui era soldato e Grace sperava che trovasse qualcuno che mostrasse nei suoi confronti la sua stessa carità. Da quando lui era partito, viveva da sola in quella grande casa e portava avanti la loro piantagione di cotone. In breve tempo fui in grado di stare in piedi e iniziai a dare una mano, per sdebitarmi...
E anche perché quella ragazza così pratica e risoluta, diversa da tutte le altre che avevo conosciuto, iniziava a piacermi. Ma poi le cose precipitarono.»

Il suo tono si fece distaccato, sofferente ed affannato ed io mi strinsi nella coperta, conscia di stare per udire qualcosa di orribile.

«Un gruppo di soldati sudisti si fermò a salutarla: Grace tentò di nascondere la mia presenza, ma non ci riuscì. Quei bastardi la additarono come traditrice della causa sudista e stavano per uccidere me e violentare lei, quando reagii: tirai fuori la pistola, che avevo nascosto fino a quel momento, e iniziò una sparatoria.
Io... Non so come abbia fatto a non accorgermene, ma Grace si mise in mezzo, pregandoci di smetterla e io sparai. La uccisi sul colpo.»

La voce gli si incrinò sull'ultima frase, diventando un sussurro spezzato. Lentamente — molto lentamente — mi sporsi verso di lui e gli poggiai il capo sulla spalla.
«Mi dispiace.» mormorai, come una cantilena. «Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace...»
Avrei voluto usare parole più efficaci, ma non ne conoscevo altre per esprimere la mia vicinanza.
Russell si scostò bruscamente, come se l'avessi minacciato.

«Capisci, ora, perché non mi importa poi tanto di morire? Capisci perché allontano Abe, Lee, Chuck e tutti gli altri? Comprendi, Cristo santo, perché non voglio che tu ti affezioni a me, fino ad affidarti a me?» ringhiò con gli occhi lucidi. «Sì, ammetto che ti voglio... Ti voglio come non ho mai desiderato una donna in vita mia... Ma sono un mostro, ho ucciso una persona che mi aveva mostrato solo pietà e affetto! È meglio per entrambi se i nostri ruoli rimangono ciò che sono, Namid: prigioniera e custode, nulla più!»

«Basta!» sbottai e mi alzai in piedi, ignorando sia le fitte alla schiena sia il fatto di rimanere senza vestiti di fronte a lui. Russell era ipnotizzato dai miei movimenti e non si oppose quando gli poggiai una mano sulla camicia, dove sentivo il cuore battere forte.
«Dovrei odiarti, Russell Walker.» dissi, con voce ferma. «Dovrei molto odiarti. Hai portato guerra alla mia tribù, mi hai rapita, hai ucciso il mio promesso sposo...»
A quelle parole l'uomo si irrigidì e strinse i pugni affannosamente.
«Ma non ti odio.» sussurrai poi, avvicinandomi e circondandogli il torace con le braccia, in modo che il mio corpo aderisse al suo. «Ormai ho scelto, e quando un Cheyenne sceglie non torna indietro.
Ho deciso che il mio posto è con te, perché con te sono al sicuro e anche se mi scaccerai, io tornerò indietro. Non importa tuo passato, non importa tuo presente... Importa solo il futuro e  il mio sarà al tuo fianco. Lo so, lo sento.»

Russell

Poteva prendermi un colpo al cuore, in quel momento, e sarei morto con il sorriso.
Un sorriso che Namid non poteva vedere, perché il suo capo era poggiato all'altezza del mio petto, ad ascoltare il battito frenetico del mio cuore, aspettando una risposta.
Era il discorso più lungo che le avessi mai sentito fare, eccetto la storia di sua madre, e non doveva essere stato facile per lei esprimere le sue emozioni in una lingua estranea; eppure ci era riuscita e con che chiarezza!
Si era abbarbicata a me con cocciutaggine e non l'avrei potuta allontanare neanche se l'avessi voluto; ma io desideravo solo averla vicina.
Proteggerla. Accarezzarla. Farla mia.
Forse, come pensai in quel momento, eccitato dalla sua vicinanza, forse l'avrei anche amata come una creatura del genere meritava.
Ma erano pensieri troppo complessi da fare con una ragazza che si strusciava pericolosamente contro di me.
«Namid...» borbottai con voce strozzata.
Lei alzò i suoi incredibili occhi azzurri su di me.

«Cosa c'è?»

Quasi ridacchiai nell'avvertire l'ansia della sua domanda.
«Io devo averti. Adesso!»

Namid sorrise e io pregai con tutto il cuore che non avesse un altro dei suoi sbalzi d'umore; ma i secondi passavano e lei sembrava convinta delle sue intenzioni.

«Ho delle condizioni.» disse poi, tirandosi indietro.

Mi sentii svenire:
«Come sarebbe, scusa?»

La ragazza si passò una mano tra i capelli, bella e sensuale senza saperlo:
"Sì. Voglio che tu prometta di farmi rimanere qui! Non voglio andare da Camicia Blu!"

«Qui? Ma questo non è un posto adatto ad una ragazzina!» sogghignai, iniziando a giocare con lei. La spinsi verso il giaciglio, sovrastandola e impedendole di coprirsi. Sembrava improvvisamente vergognarsi della sua nudità.
"Un po' in ritardo!" pensai, divertito.

«Non mi interessa.»

«Bene. Ma sappi che rimanere con me comporta alcuni obblighi...»

«Ad esempio?»

«Ad esempio, piantarla con questi movimenti d'anguilla e farsi toccare con tranquillità!»

Per tutta risposta, Namid si inarcò verso di me, strappandomi un grugnito d'approvazione.
«Poi?»

«Poi, vediamo... Togliermi questi abiti, mi sembra soddisfacente.»

Era imbarazzata e io godevo della sua indecisione.
"Hai voluto giocare, Namid? Gioca, allora!"
Titubante mi slacciò la camicia e me la sfilò, ma si trovò in difficoltà con i pantaloni e la cintura.

«Noi non conosciamo queste cose!» sbottò, frustrata, indicando la fibbia. Ridendo me ne occupai io e mi stesi accanto a lei, osservandola con attenzione.

«Qualche altro obbligo?» mormorò, confusa.

«Sì.» risposi, anch'io con un tono di voce basso. «Baciarmi.»

Lo fece. Lo fece davvero e a quel punto, sicuro delle sue intenzioni, mi lasciai scivolare dentro di lei. Soffocai i suoi gemiti con la mia lingua, esplorandola e venerandola come una dea. Aveva un corpo sottile come un giunco, allenato dalla vita all'aria aperta che le aveva anche donato una carnagione color caffè che avrebbe fatto inorridire tutte le ragazze bianche dell'Est: ma lei, inconsapevole di ciò che il mondo pretendeva da una donna, era molto più bella di tutte loro.
Lei era vergine, ma ero io che tremavo e sospiravo mentre la baciavo, scosso da un sentimento a cui non sapevo dare un nome: era la prima volta che mi sentivo così coinvolto — anima e corpo — mentre facevo l'amore.
Stava andando tutto bene ed io ero molto vicino all'apice, quando lei mi sfiorò la schiena e si irrigidì:
«Che cos'è?»

«Nulla di importante.»

Le impedii di rispondermi con un altro bacio e non mi staccai da lei fino a quando non la sentii contorcersi per il piacere. A quel punto mi alzai per prendere dell'acqua: la perdita della purezza le aveva macchiato le gambe di sangue.

«Aspetta un attimo, vediamo di pulirti...»

Ma quando incrociai i suoi occhi capii di aver commesso uno sbaglio veramente stupido: mi ero voltato, offrendole il macabro spettacolo della mia schiena martoriata.
Il sangue mi pompava impazzito nelle vene davanti al suo sguardo spaventato ed intimorito.

«Cos'è?» ripeté, sgomenta.

«Una ferita di guerra, il risultato di quando mi sono buttato dal treno.» sospirai, con rammarico, pulendole con delicatezza le cosce.
«Mi dispiace, non volevo che te ne accorgessi così. So che è orribile a vedersi...»

Sfiorò i bordi della cicatrice con le dita tremanti, prima di sgusciare via dalle mie mani — come un'anguilla, appunto, avrei dovuto cambiarle soprannome — e poggiare un bacio casto e delicatissimo sull'estremità destra della ferita.

«Le ferite di guerra, presso la mia tribù, provano il valore di un uomo!» bisbigliò, con gli occhi fissi nei miei, accarezzandomi il mento.

Feci un timido sorriso:
«Credo sia così presso tutte le tribù del mondo, Namid.»

Namid

Avevo appena voltato le spalle alla mia tribù, al mio credo, alla mia vita. Eppure ero felice come mai lo ero stata prima, grazie a Russell.
Non era un uomo facile da sopportare e la ferrovia rimaneva un posto estremamente pericoloso per me, ma ero fiduciosa e piena di speranza per il futuro, tanto che neanche la vista della schiena martoriata del mio uomo mi aveva fatto perdere l'allegria.
A metà giornata Russell si era deciso ad abbandonare il letto — e il mio corpo — per vestirsi e raggiungere la sua squadra.
Mi aveva baciato a lungo, prima di imboccare l'uscita, raccomandandomi di non fare sforzi per irritare le ferite alla schiena, già provate dal sesso continuo.

«Siamo due poveri invalidi!» aveva esclamato, strizzandomi l'occhio.

Sì, ero proprio felice e rilassata.
Così rilassata che non mi resi conto della presenza di due uomini nella stanza fino a quando le loro mani non si chiusero sulla mia bocca e sulle mie gambe, facendomi dibattere e sbarrare gli occhi. E la voce che udii prima di svenire mi ghiacciò il sangue nelle vene.

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