The saloon
Namid
Ritrovai Russell solo la sera, mentre vagavo disorientata tra i numerosi lavoratori che tornavano al campo.
Ero stanca, i piedi mi facevano male per aver corso a lungo ed ero spaventata dalle minacce che mi sentivo rivolgere mentre procedevo; per questo, non appena vidi la squadra di Russell mi infilai in mezzo a loro, al sicuro.
Lui mi scruto da capo a piedi, alla ricerca di qualcosa fuori posto:
«Tutto bene?» grugnì poi.
Io annuii con la testa e continuai a camminare a capo basso.
«Colt, almeno stasera ci raggiungi?»chiese l'uomo che rispondeva al nome di Eric Collins.
Russell mi lanciò un'occhiata furtiva:
«Non lo so, devo vedere se non sono troppo stanco..»
«Ho capito, l'indiana ti porta via troppe energie!» rise Chuck.
Mi sembrò che lo scherzo avesse infastidito più l'uomo che me:
«Ma che stai dicendo! Va bene, se insistete tanto stasera verremo a bere al saloon!»
«Verremo?» bisbigliò Abraham. «È una donna ed è indiana, Walker: non credi che per oggi abbia causato abbastanza grane? Vuoi davvero inimicarti tutto il campo?»
«Me ne frego, Abraham: non posso certo lasciarla nella tenda!»
Sul momento pensai che non si fidava abbastanza di me per lasciarmi da sola di notte, ma poi, quando mi accorsi degli sguardi lascivi che non abbandonavano un attimo la mia figura, capii che l'aveva fatto per proteggermi.
Arrivati alla nostra tenda Russell mi ordinò, borbottando, di darmi una rinfrescata con l'acqua che avevamo a disposizione: in serata era arrivato un altro convoglio che la mia tribù non era riuscita ad intercettare.
Mentre mi lavavo il viso mi sentii pizzicare gli occhi al pensiero di mio padre, che era sicuramente disperato.
"Ti crede morta. Come puoi essere così stupida, Namid? Tu qui sei solo una prigioniera, perché non cerchi di scappare?"
Perché l'avevo promesso a Russell, ecco perché.
E non potevo condannare a morte un uomo, anche se era mio nemico: non sarei riuscita a convivere con quel senso di colpa. Perciò, nonostante una parte di me volesse disperatamente tornare alla tribù, non riuscivo a pensare ad un concreto piano di fuga.
Fu in quel momento che la mia attenzione fu attratta da qualcosa nascosto tra le coperte; rammentavo che la notte prima qualcosa di duro mi aveva dato fastidio mentre dormivo, ma avevo pensato che fosse un sasso... Invece era una scatola di legno.
Molto semplice, senza fregi, chiusa da una serratura in ferro; probabilmente Russell portava la chiave addosso. Me la rigirai per le mani per un po', sebbene ero consapevole di non poterla aprire: noi indiani non avevamo oggetti del genere e la tecnica e la precisione con cui era stato realizzato mi incuriosivano.
Quando l'uomo entrò nella tenda, però, si incupì nel vedermi e mi strappò la scatola di mano:
«Chi ti ha dato il permesso di frugare tra le mie cose?»
«Nessuno, io non stavo...»
"Non mentire! Quella scatola era ben nascosta!»
«Ma se era solo avvolta tra le coperte!» replicai, piccata.
Lui scrutò me, poi la scatola, poi di nuovo il mio viso.
«Non lo fare mai più: non ti avvicinare mai più a questa scatola, sono stato chiaro? E ora muoviamoci, sono già stanco di questa serata!»
Lo seguii in silenzio, per non infastidirlo ancora di più: avevo già messo alla prova la sua pazienza molte volte quel giorno e nessuno mi garantiva che non sarebbe diventato violento, quando si fosse stufato.
•••
Il saloon mobile era una costruzione un po' sbilenca che poteva essere smontata e rimontata in poche ore, spostandosi su una piattaforma su ruote.
Non era molto grande, perciò molti uomini sostavano nei suoi dintorni, limitandosi ad entrare per prendere da bere. Mi strinsi alla schiena di Russell, intimorita dagli sguardi truci che mi venivano lanciati, e pensai che forse non era stata una grande idea da parte sua accettare l'invito dei suoi amici.
Trovammo la squadra già mezza ubriaca, seduta ad uno dei tavoli.
«Ehi, Namid!» esclamò Javier, sedendosi accanto a me. Era solo un ragazzo, forse anche più piccolo di me, ma il liquido dall'odore forte che stava ingurgitando lo rendeva più ciarliero ed audace.
«Hai mai provato il whiskey?» mi chiese facendomi l'occhiolino. Io feci cenno di no con la testa, timorosa:
"Dov'è finito Russell?"
«No? Stai scherzando, spero! È una delle cose più utili mai inventate dall'uomo! Lenisce gli affanni e porta l'allegria!»
Annusai la bottiglia, incuriosita:
«È una bevanda magica, quindi?»
Le mie parole scatenarono l'ilarità generale e io chinai il capo: poi, sotto insistenza di Javier, avvicinai la bottiglia alle labbra e mandai giù un sorso di whiskey.
Tossii, mentre la gola bruciava e gli occhi mi si appannavano:
«È forte!»
«Solo perché non ci sei abituata, piccola indiana! Avanti, da brava, un altro sorso!»
Continuai a bere, incitata dagli altri, completamente dimentica dell'assenza di Russell: sentivo la testa leggera, i pensieri sconnessi e il corpo lento e pesante.
«Bene, piccola indiana, ora basta però!» esclamò Lee, vedendo che la cosa mi stava sfuggendo di mano. Io ridacchiai e alzai il braccio sopra la testa, allontanando la bottiglia da lui.
«Namid!» mi ammonì Abraham, preoccupato.
Io mi alzai in piedi, barcollante:
«Bella serata... Davvero, buono... Whiskey, bevanda magica! Ora, signori, torno alla tenda!» esclamai allegra e mi diressi fuori.
Abraham provò a seguirmi, ma fu intercettato da un altro uomo di colore, o almeno così mi fu raccontato: io, infatti, non ricordo quasi nulla di quella notte, se non che a un tratto, a metà strada tra il saloon e la tenda di Russell, mi ritrovai stretta in un cerchio di uomini capeggiato da Bernard King.
«Bene, ragazzi, guardate chi se ne va a spasso da sola nel cuore della notte: dove hai lasciato il tuo cane da guardia, sgualdrina indiana?»
Un briciolo di lucidità illuminò la mia mente quando incrociai lo sguardo crudele del controllore: lui si leccò le labbra e srotolò la frusta che portava alla cintura.
Russell
«E voi l'avete lasciata andare via ubriaca?» ruggii, stringendo i pugni fino a farmi entrare le unghie nella carne.
I miei compagni si agitarono sulle sedie, evidentemente imbarazzati e forse anche spaventati dalla mia reazione. Era bastata una mezz'ora in cui mi ero distratto a giocare a carte e Namid era sparita: era tornata alla tenda, secondo quello che dicevano loro.
«Abraham ha provato a seguirla, ma non l'ha trovata!» borbottò Chuck.
Ringhiai, frustrato, mentre immagini di orribili violenze affollavano la mia mente; repressi perciò l'istinto di picchiare qualcuno e andai a cercare l'indiana. Iniziai a correre attraverso il campo, chiamandola a gran voce, ma mi rispondeva solo il silenzio e ogni istante che passava sentivo la preoccupazione aumentare: che avesse colto l'occasione per scappare? In quelle condizioni non sarebbe comunque andata lontano.
Poi li vidi, quasi per caso, in un punto isolato ai margini del campo: Namid rannicchiata a terra tra King e i suoi uomini, con le vesti strappate. E quando mi accorsi del sangue divenni una belva.
Piombai in mezzo a loro con la pistola carica e puntata alla testa di King; gli uomini smisero di ridere e si immobilizzarono, tesi e spaesati.
«Cosa stai facendo, Colt? Anche noi siamo armati e siamo in molti!» sogghignò King.
«Non mi importa quanti siete, sarete morti prima ancora di poter estrarre le pistole dalle fondine se osate muovervi.» ringhiai in direzione degli altri, ma mantenendo lo sguardo fisso sul controllore e stringendo la presa sulla pistola.
King deglutì a vuoto e all'improvviso i miei sensi si dilatarono: percepivo il suo terrore, il battere furioso del cuore sotto la camicia sporca e vedevo scintillare chiaramente le gocce di sudore sulla sua fronte; riuscivo a cogliere anche l'odore acre della polvere da sparo e a immaginare con esattezza il contraccolpo che avrebbe avuto il proiettile nel lasciare la canna e conficcarsi nel suo petto.
Ma le braccia tremanti di Namid, improvvisamente avvolte attorno al mio torace, mi fecero abbassare gli occhi su di lei: la ragazza aveva nascosto il volto nella mia camicia e bisbigliava.
«Non lo fare... Russell, non lo fare...»
«Ti ha fatto del male.» replicai. Ero infuriato con lei, con King e con me stesso e se non avessi trovato presto un modo per scaricare la rabbia avrei perso il controllo. Come durante la guerra...
Una mano dell'indiana si alzò ad accarezzarmi il volto e con un movimento dolce ma deciso mi costrinse a fissarla negli occhi: erano pieni di lacrime e contenevano una muta preghiera.
Senza smettere di puntare l'arma contro King ordinai:
«Adesso ve ne andrete tutti, lentamente. Non provate a sorprendermi, perché state sicuri che il malcapitato si ritroverà i miei colpi nel corpo.»
Uno dopo l'altro mi obbedirono: King fu l'ultimo e se ne andò regalandomi uno sguardo carico di odio.
Solo allora Namid si permise di lasciarsi andare ai singhiozzi: osservai le sue spalle scosse dai tremiti e capii che la sbornia doveva esserle passata in fretta.
A un tratto si piegò in due e vomitò per terra, stringendosi il corpo con le mani; rimasi a fissarla con il respiro accelerato, incapace di reagire o di aiutarla.
«Sei arrabbiato con me?»
La sua voce, poco più che un sussurro, mi strappò ai miei pensieri e mi riportò alla realtà.
«No» risposi, prendendola per un braccio e rialzandola.
E per far sì che ci credesse sul serio la baciai.
Mi resi conto solo in quel momento di aver desiderato quelle labbra dalla prima volta che l'avevo vista al chiaro di luna; adesso mi beavo della loro morbida consistenza e della sua inesperienza mentre si abbandonava contro il mio corpo. Forse non era un'azione da gentiluomo, ma in fin dei conti io non lo ero mai stato.
Quando però le sfuggì un gemito di dolore, mi accorsi che le mie mani, premute sulla sua schiena, erano intrise di sangue. La voltai bruscamente e un grido soffocato mi sfuggì dalle labbra.
«Animali!» ringhiai, vedendo i segni obliqui e rossi delle frustate.
«Russell, io...»
«Zitta!» le ordinai, mentre cercavo di rimanere lucido. Senza esitazione la presi per un braccio e la riportai alla tenda.
•••
Osservavo preoccupato le ferite sulla schiena di Namid: l'aria fresca della notte avrebbe alleviato il dolore e la crema che il dottore del campo le aveva spalmato sopra le avrebbe presto ridotte a cicatrici.
Ma rimanevano comunque il segno del mio fallimento e questo mi fece stringere i pugni. Namid, che io credevo addormentata, sollevò la testa e si accorse della mia tensione.
«Mi dispiace... Non avrei dovuto bere e andare via in quel modo. Ti ho fatto problemi...»
«No. Sono io che non avrei dovuto perderti di vista. Adesso riposa.» sussurrai, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte e perdendomi nei suoi occhi blu.
Lei scosse il capo:
«Non riesco a dormire. Parla con me.»
«Non saprei cosa dirti, ragazzina.»
«Dimmi perché hai fatto quella cosa, allora.»
«Di che stai parlando?»
«Prima, dopo... Avermi salvato, tu...»
Era frustrata perché non aveva le parole per esprimersi e borbottava in lingua Cheyenne, perciò la aiutai.
«Intendi chiedermi perché ti ho baciato?»
«Baciato...» mormorò, assorta. «Sì, perché?»
«Perché avevo voglia di farlo.»
Ci fissammo a lungo in silenzio e mi parve di scorgere delusione nel suo sguardo.
«E a voler essere sincero» bisbigliai avvicinandomi al suo viso. «Lo desidero anche adesso.»
Namid sogghignò amaramente, ma quando provai a baciarla di nuovo si ritrasse.
«L'uomo bianco trova sempre il modo di ottenere ciò che vuole, giusto?»
Ecco, l'aveva fatto di nuovo: si era allontanata da me, chiudendosi nel suo mondo. Sbattei un pugno a terra, frustrato e insoddisfatto.
«Sei una costante fonte di problemi!» borbottai, maligno.
Namid voltò la testa, guardandomi con sfida:
«Perché sei venuto a cercarmi, allora?»
«Perché Dodge mi avrebbe impiccato se tu fossi scomparsa!»
«Io non so niente di quello che potrebbe interessare a Camicia Blu! E anche se fosse, non parlerò mai!»
Ignorando le ferite alla schiena si girò completamente su un fianco e si aggrappò a me:
« Forse ho la soluzione! Vieni con me, Russell. Portami a casa!»
«Tu sei pazza!» sbottai, sbalordito.
Poi socchiusi gli occhi, roso da un dubbio: aveva già fatto ad altri quella proposta? Magari mentre io ero distratto, mentre non c'ero...
Sospirai pesantemente e mi allontanai dal giaciglio senza augurarle la buona notte.
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