The run
Russell
Fu difficile far credere agli indiani che avrei combattuto con loro, poiché la diffidenza nei miei confronti era tornata quella dei primi giorni. Gli unici a credere in me erano Namid ed Hevataneo e ogni volta che incrociavo i loro sguardi di incoraggiamento mi sentivo morire: avrei lasciato morire un mio amico per salvare la ragazza che probabilmente mi avrebbe odiato a vita.
Stavo scendendo a patti con l'idea che con l'arrivo del drappello di Dodge sarebbe cambiato tutto, anche tra me e Namid: non speravo più di poterla tenere con me, il suo carattere non avrebbe mai accettato il piano di suo padre e quindi neanche me che l'avevo assecondato.
L'avrei portata via da lì, lontana dal pericolo, e poi l'avrei lasciata andare.
Avevo già fatto i miei preparativi: avevo chiesto a Bidziil, che si occupava degli animali, di rimarcare le pitture sul manto di Tasunke in previsione dello scontro. Poteva sembrare una cosa stupida, ma guardare quei segni e pensare al buon augurio che rappresentavano mi calmava i nervi. Avevo nascosto nelle bisacce vicino al mio bivacco quante più provviste possibili, nella speranza che nessuno andasse a frugare lì dentro: sarebbe stato difficile spiegare come mai mi preparavo a fuggire.
Fuggire.
Dio, come aborrivo quel piano! Ma avevo promesso a Waquini che sua figlia sarebbe stata salva ed intendevo mantenere la mia parola.
Stavo giusto accarezzando il muso di Tasunke, quando Hevataneo mi si avvicinò: aveva perso del tutto la sua aria scherzosa da bambino, in quei giorni, e mi dispiaceva pensare che l'ultimo ricordo che avrei avuto di lui sarebbe stato triste e velato di vergogna.
«Devo chiederti un favore, Enapay!» iniziò con aria grave.
«Dimmi.»
«Tu sei l'unico che probabilmente sopravvivrà a questo scontro...»
«Non ne sarei così sicuro: sai, se combatto con voi sarò considerato un traditore e trattato come tale. E quindi giustiziato!»
«Ma noi sappiamo bene che tu non combatterai, amico mio.»
Mi voltai a guardarlo con gli occhi sbarrati: un mesto sorriso lasciava intravedere la sua dentatura candida.
«Ho seguito Waquini, l'altra notte, quando è venuto a parlarti. Mi sembrava strano che abbandonasse così la tepee dove Namid dormiva indisturbata... E ho sentito ciò che ti ha detto.»
«Hevataneo, io...»
«No!» mi interruppe, poggiandomi una mano sul braccio. «Ti capisco. Non puoi combattere una guerra che non è tua, non è giusto. L'hai già fatto una volta e ti porti ancora dietro le cicatrici... No, fai bene ad andartene, non pensare a noi. Però ti devo chiedere un favore.»
«Va bene... Farò qualsiasi cosa tu mi chieda.» sospirai, tentando di far rallentare il battito del mio cuore. La tensione e l'ansia non mi davano tregua e temevo di non essere all'altezza dei compiti che mi venivano affidati.
«Ayasha è incinta: me lo ha rivelato due giorni fa. Ti prego, porta con te anche lei! So che potrebbe rallentare la tua fuga, ma salvala! Salva mio figlio!»
Rimasi sbalordito dalla sua rivelazione, ma mi ripresi in fretta:
«Non potrei mai lasciare tua moglie in mano a quei soldati. Veglierò su tuo figlio come se fosse il mio, te lo giuro.»
Le membra di Hevataneo si rilassarono un poco, ma la presa sul mio braccio si fece più forte, commossa:
«Grazie, Russell Walker. Morirò sereno, sapendo che la mia famiglia è in buone mani.»
Fece per andarsene, ma io lo fermai:
«Mi avete dato tanto e io invece vi ho portato solo guai. Accetta questo, in segno della mia gratitudine.»
Gli misi in mano la chiave che portavo al collo, quella che apriva la scatola dei miei ricordi: era il segno tangibile dell'uomo che non ero più. Hevataneo chiuse le dita sul minuscolo oggetto di ferro, sorrise e si avviò verso i compagni.
•••
Il drappello arrivò alle prime luci dell'alba: dalla mia postazione lo individuai subito e vidi che Otoahhastis, circondato dai guerrieri, andava incontro agli uomini bianchi per trattare. Non avevo tempo da perdere, dovevo agire prima che lo scontro iniziasse. Mi avvicinai alle tende ed ebbi un colpo di fortuna insperato: Ayasha e Namid sostavano insieme presso la tenda di quest'ultima, con aria preoccupata. Non potei fare a meno di notare che Ayasha si teneva le mani premute sul ventre. Le afferrai entrambe per un braccio, strappando loro dei sussulti spaventati:
«Presto!» sussurrai strattonandole. «Non abbiamo tempo da perdere!»
«Russell, cosa stai facendo?» sibilò Namid, gli occhi stretti in una fessura furente.
«Vi porto via di qui.»
«No! Mai! Come puoi pensare che verremo con te?» strillò Ayasha indignata.
«Ordini di tuo marito!» sbottai, severo, premendole una mano sulla bocca.
«E di tuo padre!» aggiunsi, rivolgendomi alla mia donna.
«Avrei dovuto saperlo che non avresti mai combattuto contro di loro!» mormorò Namid, chinando la testa.
Forzai me stesso a non sfiorarle la guancia per raccogliere l'unica lacrima sfuggita dalle sue ciglia.
«Mi dispiace, non puoi chiedermi questo. Ci sono i miei amici là in mezzo... Sono sicuro che faranno il possibile per contenere i danni.»
«Anche Hevataneo è tuo amico. Non ti importa di lui?» singhiozzò Ayasha.
Ormai eravamo arrivati al recinto dei cavalli e costrinsi le ragazze a salire in groppa ad una giumenta che se ricordavo bene rispondeva al nome di Saqui*. Una volta assicurati i due cavalli grazie ad una corda e dopo essere salito su Tasunke mi voltai a fronteggiare le donne:
«Mi importa molto di lui e mi sento un codardo ad andarmene in questo modo. Ma gli ho giurato che avrei protetto la sua famiglia ed è quello che farò: se vuoi salvare il tuo bambino devi seguirmi. Non hai altra scelta, Ayasha!»
La donna indiana sbarrò gli occhi e voltò il capo verso le colline, da dove si udivano riecheggiare i primi spari: la speranza di pace di Otoahhastis era andata in fumo. Anche vicino alle tepee iniziava a serpeggiare una certa agitazione: le donne cercavano spaventate un riparo per i figli e gli anziani.
«Non possiamo più aspettare!» mormorai, addolorato. «Andiamo!»
Cavalcammo ininterrottamente per tutto il giorno, seguendo la strada nascosta che mi aveva indicato Waquini. Ayasha piangeva sconsolata, ma sembrava aver accettato l'ultimo atto di amore di Hevataneo nei suoi confronti: evidentemente anche il suo istinto materno le suggeriva che restare con me era il miglior modo per salvare il bambino. La sua presenza era un sollievo e una preoccupazione insieme: averla salvata alleggeriva la mia coscienza, ma non sapevo che scusa inventarmi una volta arrivato al campo. La vita alla ferrovia sarebbe stata dura per lei, molto più che per Namid.
Namid, già.
Namid che non mi aveva rivolto più la parola, che sfuggiva ogni mio sguardo, che si scansava al mio tocco. In parte la capivo, perché io stesso mi sentivo disonorato dal mio comportamento, però le sue accuse silenziose mi facevano infuriare.
Io, alla fine dei giochi, ero un uomo bianco e lo sarei sempre stato: ero nato e cresciuto in una società civilizzata molto più complessa di quella dei Cheyenne e nonostante mi fossi trovato bene tra loro — forse meglio di quando ero tra i miei simili — non facevo parte della tribù.
"Perché non riesci a capirlo?" pensavo tra me e me, ma evitavo con cura di lasciar trapelare la mia pena. Se la ragazza avesse deciso di andarsene, una volta fuori pericolo, non l'avrei fermata.
Namid
Appena scesa da cavallo mi sgranchii un po' le gambe, poi, approfittando del fatto che Russell stava badando a Saqui e a Tasunke, scattai e mi inoltrai di corsa nel bosco. A nulla valsero i richiami angosciati di Ayasha.
"Lei può anche tenere fede alla volontà di Hevataneo e seguire Russell per salvare il bambino che porta in grembo" pensai. "Ma io no. Io non posso stare con un uomo del genere, nulla mi lega più a lui!"
Dopo un po' mi accorsi che l'uomo bianco non era dietro di me e mi fermai, ansante. Mi venne in mente il nostro primo incontro al chiaro di luna: nel buio non avevo potuto vederlo bene, ma ero rimasta incantata dai suoi occhi verdi che scintillavano di curiosità. Era stato quello sguardo a far sì che lo riconoscessi quando mi aveva catturato: d'istinto avevo compreso che tra tutti gli uomini bianchi lui non mi avrebbe fatto del male. Forse era stata questa mia istintiva fiducia nei suoi confronti a trascinarci lì, in quel bosco; forse, se si fosse trattato di un altro uomo bianco, avrei davvero cercato di scappare, forse ci sarei anche riuscita.
Forse sarei tornata alla tribù sana e salva da sola.
E se così fosse stato sarebbero ancora tutti vivi, senza dover costringere Russell a scegliere da che parte stare. Ciò che gli avevo chiesto era ingiusto e disumano, ne ero consapevole, ma allora mi era parsa una decisione accettabile, quasi felice: stavamo bene alla tribù, insieme.
"Dovevi saperlo che non poteva durare!" mi rimproverai, vagando alla cieca tra gli alberi.
A un tratto mi fermai, folgorata da un pensiero: Russell non mi aveva inseguita di proposito. Mi stava lasciando libera di decidere del mio destino, senza costringermi a seguirlo in un mondo che non mi apparteneva!
Valutai attentamente le alternative che avevo: il mio cuore mi spingeva verso quell'uomo che non aveva esitato a sacrificare tutto, anche il proprio onore, per me; la ragione, invece, rifiutava l'idea di lasciarmi il ricordo della mia vita Cheyenne alle spalle per sempre.
"Lui l'ha fatto per te!" mi ricordò una voce nella mia testa, maligna.
Sospirai: era vero, così come era vero il fatto che non avrei saputo che fare senza di lui. Le parole che gli avevo sussurrato quando avevamo fatto l'amore nella sua tenda erano ancora valide: il mio posto era accanto a lui, dovunque fosse diretto.
Perciò ripresi a correre in direzione contraria, verso lo spiazzo dove ci eravamo fermati: quando arrivai era già calata la notte e Ayasha dormiva profondamente accanto ad un piccolo fuoco. I cavalli erano legati ad un albero e pascolavano sferzando l'aria con le lunghe code, mentre Russell faceva la guardia dando le spalle al fuoco.
Alzò la testa di scatto sentendomi arrivare e la mano corse velocemente alla fondina; poi il suo viso si tese in una smorfia di puro stupore:
«Sei tornata!» esclamò, incredulo, alzandosi in piedi.
Si fermò dopo pochi passi, incerto: leggevo nei suoi occhi la paura di vedere la sua speranza dissolversi.
Sorrisi timidamente ed annullai la distanza che ci separava: ci muovemmo in simultanea, unendo le labbra nel bacio più lungo e profondo che ci fossimo mai scambiati. Russell fece scivolare le mani lungo tutto il mio corpo per poi risalire a sfiorarmi le guance:
«Volevo tanto che scegliessi me...» mormorò con voce spezzata. «Ma non ho avuto il coraggio di chiedertelo.»
Poggiai la fronte contro il suo petto, lasciando libere le lacrime che per tutto il giorno erano rimaste segregate sotto la rabbia e l'impotenza.
«Brava, così, piangi... Piangi, ragazzina... Ti farà bene!» disse Russell, stringendomi più forte.
Sarei rimasta così anche tutta la vita.
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