The collapse

Russell

Detestavo ammetterlo, ma Namid aveva ragione: Hutch si riprese in fretta dalla ferita e ben presto iniziò ad accompagnare me e gli altri uomini nelle battute di caccia. Nonostante l'iniziale diffidenza i miei compagni impararono ad apprezzare il suo fiuto e in breve il lupo divenne una sorta di mascotte; solo King era perennemente infastidito dalla sua presenza e l'animale reagiva di conseguenza, ringhiando e drizzando il pelo non appena lo vedeva apparire all'orizzonte.
Fu seguendo il fiuto di Hutch che scovammo i resti spenti di un bivacco a poca distanza dal campo.

«Indiani!» esclamò Chuck, osservando le orme di mocassini che si sovrapponevano attorno ai resti del fuoco. Anche il giovane Javier si accucciò ad esaminarle: gracile com'era, sembrava sparire all'interno della folta pelliccia che indossava e sotto il fucile che portava a tracolla.
Chuck piegò le labbra in una smorfia divertita, ma non disse nulla; tutti sapevano che il ragazzo era troppo inesperto per maneggiare quell'arma, o per essere di una qualche utilità nel seguire delle tracce. Ma dato che era orfano ed aveva trovato in noi una nuova famiglia nessuno aveva mai pensato di fargli notare quanto fosse imbranato.

«State calmi, ragazzi. È uno solo!»

Le impronte erano troppo confuse per indicarci dove l'indiano fosse diretto, ma una punta di freccia spezzata e gettata in mezzo agli arbusti secchi ci confermò che era armato.
Tornammo al campo preoccupati e tesi, pronti a scattare al minimo rumore, e riferimmo a Dodge la cattiva notizia: in breve tra le tende iniziarono a circolare i suoi uomini in divisa, che tenevano d'occhio la boscaglia alle nostre spalle.
Io ero estremamente confuso e nervoso: avevo fermamente rifiutato di proseguire la battuta di caccia per catturare l'indiano e i miei compagni mi avevano lanciato delle strane occhiate oblique. Evidentemente si stavano chiedendo quanto la mia permanenza tra i Cheyenne influisse nella mia riluttanza a partecipare alle ricerche. Ritenevo anche che il campo si fosse allarmato troppo per un semplice bivacco freddo: nessun indiano di nessuna tribù sarebbe stato così stupido da lanciarsi da solo in mezzo ai bianchi con intenzioni bellicose.

«Forse è il clima» mi suggerì Abraham, mentre appoggiati all'ingresso del saloon osservavamo il via vai teso della gente. «Questo inverno e questa solitudine in mezzo alle montagne stanno iniziando a stancare gli uomini. Dodge fa finta di non vedere niente, ma la situazione mi preoccupa: se restiamo fermi qui troppo a lungo qualcuno ne uscirà pazzo.»

«Hai ragione...» mormorai, osservando il mio respiro che si condensava e saliva in pigre volute verso il cielo. «Spero solo che la polvere arrivi presto.»

•••

Le mie speranze furono esaudite un paio di giorni dopo, quando il convoglio dei rifornimenti (che trasportava anche delle strane candele che potevano esplodere, la famosa dinamite) fece il suo ingresso trionfale al campo. Si fermò poco, giusto il tempo di scaricare la merce, ma fu abbastanza per tranquillizzarci: non avevano incontrato nessuna tribù di indiani.
Era quindi da escludere che quello che girava intorno alla ferrovia fosse una specie di vedetta e che un gruppo di guerrieri stessero pianificando di attaccarci.

«Non è necessariamente una buona notizia!» commentò invece cupo Eric. «Potrebbe essere qualche pazzo svitato, sai, uno dei loro sciamani... O una strega, il Signore ce ne scampi e liberi!»

«Modera i termini, Collins!» ringhiai, notando i lineamenti di Namid irrigidirsi mentre passava con la borraccia dell'acqua.

Il lavoro era ripreso a velocità aumentata per recuperare i giorni persi: la roccia delle montagne veniva fatta saltare per un breve tratto, poi si procedeva a picconarla e a puntellarla affinché non cadesse quando sarebbe passato il treno.
Gli incidenti di quei primi giorni furono diversi, perché usare la dinamite era difficile e pericoloso e i crolli continui: John Lynch ci rimise due dita della mano destra e buona parte della sua vista.
Ogni sera, quando tornavo alla tenda, Namid e Ayasha tiravano un sospiro di sollievo.

«Ho troppa paura!» mi confidò una sera la mia ragazza, mentre la stringevo a me alla ricerca di una posizione comoda per addormentarmi.

«Di cosa?»

«Che una sera da quella tenda spunti Abraham, o Kasper, o Lee, e mi dicano che tu non ce l'hai fatta, che quell'orribile legno che scoppia ti ha ridotto a brandelli!»

Era evidente che l'idea la terrorizzava e la riempiva d'orrore, perché aveva gli occhi pieni di lacrime, ma io non avevo rassicurazioni certe da darle. Potevamo solo sperare di terminare quel tratto in fretta, per scendere nella valle sottostante e riprendere a picconare in pianura: certo, la paga era minore, ma adesso che c'era Namid con me non avevo alcuna fretta di morire lavorando per quella stupida ferrovia.

•••

Successe tutto troppo in fretta, in un momento in cui nessuno di noi stava prestando molta attenzione alla galleria. Eravamo quasi tutti all'aperto, a preparare il nuovo carico di dinamite da portare dentro. Si respirava un'aria rilassata, quasi scherzosa: lo spettro del bivacco indiano si stava allontanando e dopo un mese di duro lavoro e sacrifici avevamo quasi finito di trivellare il primo picco. Riuscivamo già quasi a vedere la montagna successiva...
Iniziò con un rumore basso e sordo, come un tuono lontano. Io mi fermai, seguito da Chuck, che reggeva il manico opposto della cassa di dinamite che stavamo trasportando. Il rumore si fece più forte e gorgogliante e fu subito chiaro che veniva dalle viscere della roccia.

«Crolla!» urlò un uomo accanto a noi, correndo più lontano dalla galleria. Aveva ragione: rombando un pezzo della galleria che avevamo pazientemente costruito si staccò e precipitò al suolo, chiudendo l'ultimo tratto. Quando la terra si fermò e la polvere si fu posata, si spezzò anche il silenzio che si era impadronito di noi lavoratori: ci risvegliammo e iniziammo a girare in lungo e in largo, alla ricerca di strumenti con cui riparare al danno.
In mezzo alla confusione e alle grida, cercai con gli occhi i miei compagni: Chuck e Jacob erano proprio vicino a me, i fratelli Lynch stavano correndo verso le tende per chiamare aiuto, Kasper ed Abraham erano già impegnati a rimuovere i sassi che erano rotolati fino all'entrata, Adams cercava di scuotere Lee che fissava attonito la galleria...

Mi avvicinai a loro:
«Cos'hai?» chiesi, battendogli una mano sulla spalla. «Dai, hai visto di peggio!»
Morris scosse la testa e provò ad aprire la bocca per parlare, ma ne uscì solo un rantolo soffocato.

Mi voltai verso Scott:
«Ma sta male? Ha ingerito della polvere?»

«Non lo so! Eravamo qui tutti e due quando è crollato il soffitto e quando tutto era finito mi sono girato verso di lui e l'ho trovato così... Sembra che non riesca a parlare, trema soltanto!»

«Lee, che succede?»

L'uomo finalmente riuscì a mettermi a fuoco e subito delle lacrime iniziarono a scendergli lungo le guance nere di fuliggine.
"Lee Morris sa piangere?"

«Javier» balbettò. «Lui è... È dentro.»

Lasciai andare la sua spalla come se scottasse, incespicando alla ricerca di equilibrio; con le orecchie che fischiavano, mi voltai verso la galleria crollata, su cui si stavano affaccendando ormai diversi uomini. Lavoravano in un silenzio cupo e religioso di cui adesso capivo perfettamente la motivazione: le orecchie di tutti erano tese a captare eventuali grida d'aiuto.
Ma le pietre rimasero mute.

Namid

Russell si tirò indietro i capelli, inumidendoli con le dita bagnate; osservandosi nel frammento di specchio appeso davanti ai suoi occhi si passò una mano sul mento accuratamente rasato. Aveva i vestiti puliti e in ordine e aveva messo così tanta cura nel prepararsi da farmi stringere il cuore: a Javier non sarebbe importato di come si sarebbe presentato al suo funerale.
Nessuno era riuscito a capire come mai il ragazzo si trovasse nella galleria al momento del crollo: probabilmente aspettava che gli altri uomini della squadra finissero di scaricare le casse, troppo pesanti per lui. Non fu l'unico a morire in quell'incidente, ma fu il solo per cui i compagni non si arresero mai; non tornarono alle tende neanche quando scese la notte, continuando a scavare alla luce delle lanterne. Quando arrivai io, trovai Russell intento a picconare un masso con una forza di cui non lo ritenevo capace. Aveva gli occhi fissi sulla galleria e le unghie spezzate e coperte di sangue. Avevano tirato fuori diversi uomini, alcuni morti, alcuni solo feriti, ma di Javier non c'era traccia.
Lo trovarono con le prime luci dell'alba e il mio primo istinto fu di distogliere lo sguardo per combattere la nausea che risaliva lungo la mia gola. Javier aveva i capelli neri e riccioluti e due grandi occhi bruni sormontati da ciglia lunghissime, avrebbe potuto fare strage di cuori se non fosse stato così timido ed inesperto; il corpo che fu deposto davanti alla galleria, invece, era grigio di polvere e coperto di sangue, i lineamenti deformati, le ossa spezzate. Era un fagotto inerte che negli ultimi istanti di vita aveva testo le braccia verso l'esterno, come per chiedere aiuto.
I ragazzi della squadra gli si strinsero intorno, escludendo da quella veglia tutte le altre persone del campo: per me che li osservavo qualche passo più indietro, fu chiaro che tra loro serpeggiava il rammarico di non aver fatto abbastanza. Non solo per salvarlo da quel maledetto crollo, ma anche per dargli una vita migliore.
Alla cerimonia funebre dei morti partecipò tutto il campo, ma si tenne all'aperto, non all'interno della chiesa, perché non c'era spazio. Javier fu sepolto in una piccola fossa al lato della ferrovia e sulla sua tomba fu piantata una semplice croce di legno, indistinguibile da ogni altra. Mi fece rabbrividire il pensiero che quando la ferrovia sarebbe stata completata e il treno avrebbe attraversato quei luoghi nessuno avrebbe saputo che sotto quei pochi metri di terra giaceva un ragazzo che aveva dato la vita per quell'ammasso di lamiere.

«Mezz'ora prima era tutto intero.»

Il sussurro di Russell spezzò la quiete della notte e mi strappò dal dormiveglia. Accanto a me, Ayasha non aveva sentito nulla, ma io mi chinai ugualmente verso il mio uomo, steso rigidamente dall'altra parte del giaciglio.

«Cosa hai detto?»

«Mezz'ora prima era vivo, era attivo. Gli ho parlato, capisci? Gli ho anche dato uno schiaffo sul collo perché si era incantato a guardare le gambe di una prostituta... E adesso Javier è morto.»
Si voltò verso di me, gli occhi verdi che rilucevano di lacrime nell'oscurità.
«Non mi ero mai reso conto di quante cose avrei potuto insegnare a quel ragazzo: cavalcare, sparare, come ricevere un pugno... È importante per gli uomini imparare ad incassare i colpi, lo sai? Inizio a credere che io non lo sappia fare, perché fa male, cazzo... Ed io che mi credevo ormai al di fuori di ogni emozione umana questo non riesco a sopportarlo. Aveva diciott'anni... No, non è affatto giusto.»

Seppellì la faccia nel cuscino e respirare affannosamente. Poi, quando iniziavo a credere che si fosse addormentato, lo sentii mormorare per l'ultima volta il nome di Javier.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top