1.

Il sole era già alto quel giorno a Sottovitto.

Ma Eren non se n'era ancora accorto.

Stava dormendo beato nel suo letto e i pesanti tendaggi verdi della sua stanza ondeggiavano mossi dalla brezza, permettendo il passaggio di pochi raggi di luce che gli illuminavano il volto.

I suoi capelli castani erano completamente arruffati sul suo cuscino mentre riposava dopo una serata passata a festeggiare con la sua famiglia.

Un altro spiraglio di luce proveniente dalla porta illuminò sul comodino la sua bandana rossa.

La porta in rovere si aprì lentamente cigolando come per volerlo svegliare di proposito.

Purtroppo non riuscì nel suo intento, ma una voce soave aveva rimpiazzato il lamento dell'uscio.

Eren, a poco a poco, smise di sognare, e iniziò a riconoscere quel suono che lo stava aiutando ad alzarsi in una giornata così importante.

Emma stava lentamente aprendo le tende.

Eren tentò di aprire gli occhi, ma l'unica cosa che riuscì a intravedere, fu la bandana arancione della ragazza illuminata dalla luce proveniente dalla finestra.

«Emma!», sussurrò lui con una voce rauca: «Cosa ci fai qui?»

«Ma come cosa ci faccio qui? Devo essere la prima a vederti finalmente maggiorenne non credi?»

Due luminosi occhi turchesi lo stavano fissando circondati da un volto radioso.

«Beh, ho capito, ma non sono mica l'unico! Anche Vargas oggi diventa maggiorenne...»

Emma si mostrò schifata e si sedette bruscamente sul letto al suo fianco: «Ma cosa mi interessa di Vargas o di chiunque altro: siamo migliori amici da quando eravamo bambini, non pensi che potrei anche volerti bene? C'è forse qualcos'altro che dovresti dirmi?» concluse lei pizzicandogli la guancia.

«Ah... Auguri! Buon compleanno Emma!»

«Grazie!» rispose lei sogghignando: «Sei l'unica persona a cui posso rispondere anche a te».

«Grazie mille, ma... tornando al discorso di prima; non sono l'unico che partecipa al Tirijom».

«Ma sei l'unico a cui voglio bene in questo villaggio desolato!» disse Emma alzandosi impetuosamente dal letto.

«Ascolta:» disse irritata: «ho chiesto a tua madre di poterti venire a svegliare, non mi ha autorizzato a rispondere anche a tutte le tue inutili domande».

«E allora...» tentò di interromperla Eren: «Allora niente: se vuoi posso aiutarti nei preparativi, ma nulla di più, chiaro?»

Eren aveva sempre avuto un debole per Emma: da quando erano piccini, avevano aggiunto al loro look la bandana in testa, come ricordo del loro primo incontro nella bottega del sarto.

I capelli dorati di Emma erano sempre perfettamente simmetrici, compresi i due ciuffi che scendevano ai lati del volto.

Emma era una ragazza semplice, che però riusciva a rendersi accattivante nonostante indossasse degli umili abiti da donna di casa.

Un coordinato verdemare con canottiera e gonna esaltava il colore degli occhi di ghiaccio, e, per riprendere l'arancio della bandana, indossava, legato in cinta, un grembiule color carota e un fiocco dalle sfumature simili a una farfalla monarca.

Sotto la gonna, si intravedeva un pizzo bianco, probabilmente, unito a un completo a mezza manica bianco di raso, che le lasciava le spalle scoperte.

Per non parlare degli stivali con lacci marroni, che slanciavano la sua figura di ragazza nei panni di domestica.

«Chiaro?!» ripeté seccata Emma dopo essersi accorta di essere stata squadrata da capo a piedi da Eren, ormai completamente sveglio.

«Chiarissimo! Ma non ho bisogno del tuo aiuto... Sono maggiorenne ormai» rispose Eren facendo schioccare la lingua in segno di disprezzo.

Non avrebbe mai potuto accettare un invito così esplicito, sarebbe passato come un ragazzo irresponsabile.

Emma era solita a tendergli trappole psicologiche, per poi divertirsi nel deridere le sue scelte innocenti in futuro.

«Ah sì? Beh, allora fatti tutto da solo!» concluse Emma seccata avvicinandosi alla porta.

«Ci vediamo dopo "maggiorenne"» disse con tono di sfida facendo il gesto delle virgolette, per poi sbattersi la porta dietro.

Eren stette in silenzio ad ascoltare il violento ma rapido rumore dei passi infuriati di Emma sulle scale di legno.

Forse era la prima volta in tutta la sua vita che non aveva ceduto a uno dei suoi giochi maliziosi; forse davvero qualcosa in lui stava cambiando.

Quell'anno, infatti, sarebbe toccato a lui partecipare al Tirijom, il rito di iniziazione per i sedicenni di tutto il regno di Thedor: il Tirijom consisteva in una serie di sfide che avrebbero messo allo scoperto le capacità dei ragazzi e, soprattutto, avrebbe svelato se l'educazione ricevuta nei loro primi sedici anni di vita da parte delle loro famiglie, sarebbe stata sufficiente per una futura vita indipendente.

L'esame era stato un'impresa ardua per tutti gli adulti del villaggio.

Erano pochi quelli che non erano riusciti a superarlo, ma questo non lo rendeva un'avventura semplice.

Gli esami di cultura generale erano accessibili quasi per tutti, ed era comunque facile per molti copiare o ingannare, visti gli scarsi controlli effettuati dai commissari del re.

Ma la supervisione dei candidati era fin troppo esagerata nelle prove di prestanza fisica: combattimenti contro piccoli mostri, percorsi con insidie, prove di forza, erano sfide davvero faticose da affrontare per alcuni dei ragazzi.

Così, erano molti gli alchimisti che continuavano a far fruttare la propria attività, ogni mese, vendendo ai partecipanti del Tirijom soluzioni edibili che li avrebbero aiutati a superare le prove: come in ogni esame, infatti, le sfide venivano svelate sempre all'ultimo dalla commissione, e ogni anno venivano preparate sempre più complesse per rendere l'accesso alla maggior età più difficile e selezionare i migliori candidati per la formazione di una società elitaria.

Vista la difficoltà crescente delle prove, erano sempre più i ragazzi a fare richiesta di questi integratori "illegali" e, gli alchimisti si ingegnavano nel realizzare ogni anno qualcosa di nuovo da proporre: tisane alla Rosadice, boccettini d'Amor Seco, té all'Erbarosa, ma soprattutto, l'unico integratore alimentare lecito: l'infuso all'Erbaluna.

Prima di procedere alle prove fisiche, i commissari regali analizzavano i campioni di sangue dei candidati prelevati la mattina stessa prima degli esami scritti, e controllavano l'eventuale assunzione di sostanze illecite.

Non era raro notare che, proprio i candidati più fiacchi, fossero quelli squalificati dal Tirijom.

Ma Eren, quell'anno, si era allenato duramente: era andato in caserma tutti i giorni dall'inizio dell'estate per prepararsi: aveva scalato ormai migliaia di pareti, superato tutti gli ostacoli esistenti ed era riuscito persino a sconfiggere a mani nude un Kenshin; nessun sedicenne del villaggio era riuscito a sconfiggere quell'arciere verde incappucciato senza l'ausilio di un'arma.

Eren era decisamente pronto per questa sfida; non aveva bisogno di intrugli alchemici, ma di sicuro la sua giornata non sarebbe potuta cominciare in maniera migliore.

Dopo il rumore di passi sulle scale, sentì l'uscio di casa chiudersi dopo un breve scambio di parole fra Emma e sua madre.

Eren era davvero emozionato per la cerimonia, e poco dopo, balzò giù dal letto e corse alla finestra.

Il Tirijom si era sempre svolto quando il sole raggiungeva lo zenit, e Eren si accorse che non avrebbe poi avuto così tanto tempo per prepararsi: con un gesto rapido, prese la bandana rossa sul comodino e si recò davanti al suo piccolo specchio circolare in legno di noce appeso al muro.

Una volta sistemati i ciuffi ribelli sotto la bandana rossa, lasciandone alcuni a formare il ciuffo davanti, si fermò a guardare il fisico tonico che aveva sviluppato in quei tre mesi di intenso allenamento.

"Speriamo almeno sia servito a qualcosa" pensava fra sé.

Si avvicinò poi alla cassettiera in mogano per cambiarsi la biancheria, e subito dopo, aprì l'armadio in ciliegio a due ante per prendere i vestiti che aveva ormai preparato da tempo per l'evento: una camicia di cotone blu con lacci e una lunga giacca impermeabile smanicata ocra.
Il completo sarebbe stato unito dalla sua cintura di pelle a mezzobusto.

Eren tornò allo specchio e indossò con cura quegli abiti che aveva conservato come se fossero quelli per il suo matrimonio.

Si arrotolò le maniche della camicia fino al gomito e sorrise allo specchio soddisfatto.
Lo fece senza quasi accorgersi, però, che non aveva ancora pianificato quali pantaloni e scarpe avrebbe dovuto indossare.

Si piombò nell'armadio e, frugando fra i suoi vecchi vestiti, trovò dei pantaloni di cotone grigi.

Li indossò all'istante, e si accorse che gli andavano decisamente stretti.

"Tirano un sacco... Sarà senz'altro perché ho allenato i quadricipiti..." pensò.

Guardando nel ripiano più basso dell'armadio, trovò due rozzi stivali di pelle antracite, realizzati a mano da suo nonno: li aveva indossati una volta sola per compiacerlo, e si era completamente dimenticato della loro esistenza.

Ma in quel momento non riusciva a trovare le sue nuove scarpe sportive, e quindi si limitò a indossarli.

"Nel peggiore dei casi, me li tolgo..."

Eren uscì di fretta dalla camera e scese per fare colazione.

«Eren! Ma come sei vestito?» disse sua madre stralunata.

«Mamma, non trovavo le scarpe e... non ho più pantaloni».

«Ecco cosa succede a lasciarti fare il bucato da solo!» disse scocciata lei: «Sedici anni e non sei ancora in grado di capire che il bucato ha bisogno di almeno un giorno per asciugarsi?!»

Marina era la madre di Eren, una anziana signora, maga in pensione, che continuava però il suo lavoro di chiromante in libera professione.

Manteneva il suo animo giovanile con i capelli legati in due codini alti fermati con anelli dorati, anche se quei capelli erano ormai bianchi e sfibrati.

Era una donna che non si era mai preoccupata del suo aspetto fisico, fino a condursi, in tarda età, a un estremo sovrappeso: indossava spesso abiti larghi e rossi che potessero contenere il suo smisurato seno e nascondere quell'adipe che, comunque, mascherava con cinture di seta colorate come se fosse il suo unico problema corporale.
Si nascondeva, forse per vergogna, con un mantello colorato legato al collo, abbinato alle larghe vesti che indossava ogni giorno.

Marina oggi era in rosso, che era perfettamente a tema con la prima sfuriata mattutina.

«Mamma ma io...»

«Ma, ma, ma, nulla: ora mangia, lavati il viso e corri al palazzo del re. Non vorrai disonorare la nostra famiglia per caso?»

«Certo che no mamma, non ti deluderò vedrai».

«È la stessa cosa che mi hai detto per il bucato e questo è un film che ho già visto più volte. Ti conosco più di quanto tu conosca te stesso. Io adesso vado a fare la spesa per la festa di stasera. Tu non ti azzardare ad arrivare in ritardo, intesi?»

«Intesi».

Marina con un rapido e goffo gesto, prese dal tavolo la sua borsa di iuta ed uscì dalla cucina tramite la porta sul retro.

Eren sentì il rumore della bicicletta arrugginita, che era stata prima di suo nonno, e la vide sfrecciare fuori dalla finestra verso il centro della città, dove si teneva ogni giorno il mercato.

Eren divorò in pochi istanti la scodella di cereali nel latte alla Panacea, e corse subito dopo in bagno per sistemarsi e lavarsi il viso.

Dopo essersi guardato minimo una cinquantina di volte allo specchio, cambiando smorfia e posa, uscì di casa a testa alta.

Il caldo di fine estate per Eren era insopportabile, soprattutto indossando quei vecchi stivali.

Si avviò sulla strada ciottolata per raggiungere l'ingresso Est del villaggio, dove avrebbe preso il suo cavallo per arrivare in fretta al castello di Thedor.

Mentre passeggiava sul viale alberato con pioppi, tutti gli abitanti lo salutavano allegramente, augurandogli buona fortuna per il suo Tirijom.

In fondo Eren era sempre stato un ragazzo rispettoso e onesto.

Giunto al cancello in legno, inserito nelle mura, si avvicinò allo stalliere per prendere Zoloo, il suo fedele cavallo andaluso con la criniera nera.

Lo aveva visto crescere fin dai primi anni della sua vita, ma non aveva mai potuto possederlo perché non aveva ancora raggiunto la maggiore età.

Rekom aveva visto Eren prendersi cura di Zoloo fin da piccino e, gli aveva promesso, che al ritorno dal suo Tirijom, glielo avrebbe affidato a vita intestandoglielo.

Alla richiesta di Eren di prestarglielo per raggiungere il castello di Thedor, l'anziano stalliere fece un sorriso beffardo e rinnovò la sua promessa: «Ragazzo mio: al tuo ritorno, Zoloo sarà tuo per sempre. Te l'ho promesso, e il gran giorno è arrivato. Va' e torna trionfante figliolo. Sei un bravo ragazzo!» concluse Rekom dandogli una pacca sulla spalla.

Eren posizionò la sella sul cavallo che era al settimo cielo.

Montò in sella e si allontanò dal villaggio salutando Rekom con la mano.

Amici da una vita, Eren e Zoloo sfrecciarono alla velocità della luce su un polveroso sentiero di campagna, immersi nella natura e nel fruscio delle querce, fino a giungere alla arroccata città di Thedor.

Il castello, che si intravedeva fin dalla base della collina era assolutamente magnifico e congeniale al proprio re.

I sanpietrini azzurri conducevano gli abitanti e i visitatori, da ogni luogo della città, fino alla base del castello di Thedor.

Eren lasciò Zoloo alla stalla delle mura esterne e percorse quella città in salita seguendo il sentiero di pietre azzurre, fino a giungere alle mura di cinta interne della zona adiacente al castello.

Dopo aver passato i controlli delle guardie, Eren si ritrovò davanti all'armonia di questo castello così puro.

Il piano era rialzato, e alla base, al centro, c'era un cancello con pilastri in ferro che permetteva l'accesso diretto alle segrete del palazzo per rinchiudere i peggiori criminali del regno, senza farli passare per l'interno del castello, che era troppo maestoso per essere visto dall'interno da un delinquente.

Due scale in marmo bianco, laterali al cancello, permettevano l'accesso al castello per il pubblico, al primo piano.

Dall'alto delle scale, si poteva vedere il viale centrale al piano terra che portava alle prigioni, che aveva il pavimento decorato con mosaici di quadrati azzurri incastonati nel marmo.

Saliti da ogni scala, all'estremo del piano, era presente un obelisco, che simboleggiava la differenza di altezza fra i cittadini e il re.

Vicino alle porte decorate in celeste, erano presenti degli obelischi identici a quelli delle scale, che fungevano però da torri, con arcieri sempre pronti a fare fuoco su un ribelle.

L'architettura del castello a tre piani, in marmo calacatta, si ispirava all'architettura classica: ogni finestra era coperta, per la privacy, da un pronao con frontoni azzurri, tetti a capanna e capitelli dorici.

Ai lati del portico colonnato, che conduceva alla porta d'ingresso ufficiale del palazzo, si trovavano due statue di divinità ispirate agli egizi, che differivano, però, in alcuni particolari per raffigurare una divinità esclusiva voluta dal re Thedor come protettrice personale.



To be continued and re-writed.

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