Capitolo 4 Eyra
EYRA
Ho colto nel segno accompagnando Clint al cimitero delle astronavi. Ha lo sguardo di un piccino goloso in una bottega di dolciumi e caramelle.
Stringendo la mia mano, mi trascina all'aeronave più vicina, per salirci e osservare i comandi, i seggiolini di pilotaggio, la stiva. Ciò che ne resta, almeno.
"Sono navi spaziali datate" sono qui da prima del mio arrivo e le conosco a memoria "Dai carichi contenuti nelle stive ho ricavato moltissimo materiale che mi è stato utile per realizzare alcuni oggetti. C'erano sacchi di lana morbida e pregiata da filare, stoffe, pentole e stoviglie, armi. Esplorarle è stato anche divertente".
"È fantastico!" analizza la plancia di quella su cui siamo, esamina gli strumenti di navigazione, i computer di bordo, purtroppo spenti "Studierò! Piloto alla perfezione e ho un minimo di nozioni di ingegneria aerospaziale, l'infarinatura indispensabile per sistemare un guasto o un'avaria!" gli occhi grigiazzurri, di una sfumatura particolare e sconosciuta, sfavillano "Potrebbe essere la mia salvezza, se riuscissi a rimetterne in volo almeno una".
L'aggettivo possessivo che usa è mia, non nostra. Forse perché ci conosciamo da un giorno.
"Clint, sei più esperto di me. Te l'ho detto, non so niente di questo campo specifico. Sono disponibile ad aiutarti, tuttavia, nel caso di lavori di fatica o da effettuare sotto tue specifiche istruzioni" mi offro volontaria.
A un tratto, si gira di scatto e mi attira a sé per il polso. I nostri volti sono più vicini che mai, la sua fronte è aggrottata in un'espressione inquieta "Perché non sei salita sulla nostra navicella con Natasha? Lei non ti avrebbe notato e avresti lasciato il pianeta indisturbata".
Il Falco è un uomo perennemente sulla difensiva, si comprende con facilità; non è nemmeno un difetto che tende a celare. È in un costante chi va là, come il rapace di cui porta il nome di battaglia.
C'è un pizzico di insicurezza che stride con la personalità del combattente Avenger, il tratto di debolezza che caratterizza gli umani. Per un verso tale miscellanea risulta seducente per me, che aborro la volubilità dell'indole e che sono nata e cresciuta fra dei e semidei.
"Proprio perché sono invisibile. Vedova Nera non mi avrebbe visto; né lei né chiunque altro. Tanto valeva restare qui. Per di più sapevo che Romanoff proveniva dalla Terra e che lì sarebbe rientrata. Io, arciere, ho un unico desiderio, credevo lo avessi intuito: ricongiungermi con mio padre e mia madre. Potrò farlo soltanto tornando ad Asgard e..." mi libero dalla sua presa granitica e mi massaggio il polso, tenendo fissi gli occhi su di lui, sostenendo il suo sguardo indagatore "Avevo capito che eri vivo, non ti avrei abbandonato. Che razza di persona pensi che sia?".
È vera ogni parola che ho pronunciato, dannatamente vera. L'ho salvato, utilizzando uno dei poteri donatomi dal Dio degli Inganni, colpita dal suo coraggio e dalla lungimiranza con cui ha tutelato l'amica Natasha e ha offerto la sua vita per un nobile scopo; entrambe circostanze che si sono incastrate nella mia mente con la profezia che reco addosso.
Ho generato un ologramma che mostrasse Barton cadavere a Teschio Rosso e a Natasha Romanoff, quando il suo volo era stato, invece, di pochi metri, perché spostato da una folata di vento, creata anch'essa da me. I metri sufficienti a fargli perdere conoscenza il tanto che mi è bastato per condurlo al sicuro dopo che i due avevano lasciato Vormir.
"Perdonami, non so cosa mi abbia preso" è talmente mortificato che mi si spezza il cuore "Ti ho fatto male?" mi domanda accorato. Noto un tremolio nel labbro superiore, è quasi impercettibile ma c'è. Un misto di paura e rabbia. Dubito che sia attribuibile allo stress emotivo, all'ansia e alla preoccupazione, resto della mia opinione. Che esprimo.
"No, non è nulla. Nulla in confronto al dolore che hanno inflitto a te, invece. Mostri di continuo un atteggiamento di salvaguardia personale, non permetti agli altri di avvicinarti" meglio rivoltare le carte in tavola, la convivenza forzata sarà lunga. E il suo tallone d'Achille potrebbe mettermi in pericolo.
Si gira di spalle e indugia, muto, la testa infossata fra le scapole.
"Vorresti scappare dalla nostra conversazione più velocemente della lepre che hai appena ucciso". Lo incalzo. Non si tratta di manipolarlo: mio padre Loki e mia madre Sigyn mi hanno cresciuto nel confronto di idee, sentimenti e stati d'animo. Mai allontanarsi da un problema, sempre rimanere e affrontarlo.
"Non capiresti e non mi va di parlarne" il muro che ha costruito è alquanto robusto.
"La prima cosa che si nota di te è la tua faretra di pelle nera. Contiene le frecce che scagli per difendere il mondo, coi tuoi colleghi Avengers" ho scoperto il ruolo dei Vendicatori e che mio zio Thor ne fa parte attraverso i discorsi fra Nat e Clint stesso, mentre si inerpicavano sulla stradina impervia che porta al burrone della Gemma dell'Anima. Poco mi interessa del motivo del recupero della pietra, della lotta contro Thanos, del Guanto dell'Infinito. Si tratta della Terra, non di Asgard.
"E poi spicca il tuo arco, il tuo strumento, che ammetto tu sappia usare alla perfezione" lo tiene stretto nella mano sinistra, che traballa leggermente mentre le nocche sono diventate bianche per il vigore nel trattenerlo.
"Che vorresti dire?" mi interpella, senza voltarsi; il tono di voce è inacidito.
"Hai raggiunto un equilibrio tra le tue angosce e la tua forza, unisci una tecnica consolidata a un allenamento che ti ha portato a essere assai brillante, nella tua specialità. Prima hai persino lanciato il dardo a occhi chiusi. Quando tiri, il resto che ti circonda non esiste più. Tuttavia esiste. E tu sei Occhio di Falco, nel momento in cui c'è da combattere: ma sei Clint nel resto del tempo" analizzo ciò che ho visto, non è affatto un giudizio di valore.
"Credi che mi nasconda dietro il mio arco?" lo solleva all'altezza della spalla, mostrandomelo. Finalmente ha avuto il coraggio di voltarsi.
"Lo affermi tu, non io. Ritengo che quando riuscirai ad affrancarti dai dolori del tuo passato, sarai una persona migliore e persino un arciere migliore" pongo la mia mano sopra la sua, chiusa sull'arco. Con naturalezza e inconsapevolmente la manina sale verso l'avambraccio senza che possa fermarla, attraversa il torace muscoloso, sull'uniforme, e si ferma sulla sua guancia sinistra. Una leggera barba mi pizzica il palmo. "Ti hanno ferito, Clint. Lo leggo nel tuo cuore, perché è straziato dalle stesse cicatrici che porto nel mio. Sono diverse ma simili".
Deglutisce e mi guarda, sbattendo le ciglia inumidite di una commozione che ha pervaso entrambi e che ha fermato il nostro tempo qui, su questo relitto.
E' un attimo infinito di occhi che si scrutano, di labbra che sussultano impercettibilmente, di tremiti che iniziano dall'uno e terminano nell'altra.
E' il nostro tempo.
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