Capitolo XI: Sorge la Fenice

(Svolgimento alternativo del film "X-Men Conflitto finale")

Capitolo XI: Sorge la Fenice

Mancavano oramai soltanto due settimane al solstizio d’estate. Il parco della magione che ospitava la Scuola di Xavier per Giovani Dotati era un tripudio di fiori colorati, gli alberi erano rigogliosi, i prati verdissimi. I residenti della signorile dimora ottocentesca praticavano volentieri attività all’aperto, dalla pallacanestro all'equitazione, dal nuoto al giardinaggio, dalle passeggiate al baseball.

Ma alcuni di loro dovevano svolgere attività al chiuso, sottoterra.

Nei sotterranei della scuola, uscendo dalla Danger Room Tempesta si rivolse a Wolverine in tono di rimprovero:

“Noi lavoriamo in squadra!”

“Beh, io sono solo un supplente”, le rammentò l’uomo, stizzito, “Uso i miei sistemi, non quelli di Monocolo.”

Gli X-Men junior, Iceman, Rogue, Colosso e Shadowcat, che camminavano dietro di loro, non udirono lo scambio di battute. Quel giorno mancava Jubilee, infortunata ad una caviglia dopo una caduta da cavallo.

Iceman si rivolse con un sorriso a Shadowcat:

“Grazie per prima: sei stata grande.”

La ragazza arrossì di piacere nel ricevere un complimento da Bobby, che era di gran lunga più esperto di lei. Lo erano anche tutti gli altri, comunque, dato che lei era proprio l’ultima arrivata.

“Non è stato niente”, si schermì, “Ho agito senza pensare.”

“È così che fanno i combattenti esperti”, dichiarò Bobby, “Brava, continua così.”

Miriam, che si era attardata rispetto agli altri due istruttori e si trovava proprio accanto a Rogue, notò l’espressione di quest’ultima rabbuiarsi, ma non aveva tempo adesso per occuparsi del problema che vedeva profilarsi, perché ce n’era un altro di più urgente che richiedeva la sua attenzione immediata.

L’addestramento delle nuove leve stava procedendo bene; lo scenario che avevano appena affrontato era stato particolarmente violento, ma perfino Kitty, l’ultima arrivata, aveva reagito con prontezza di spirito quando si era trattato di proteggere Iceman, rendendolo inconsistente come lei per far passare attraverso di loro un proiettile altrimenti mortale. Così come pochi istanti prima Colosso aveva esteso a Rogue la propria capacità di rendere d’acciaio la pelle, respingendo altri proiettili. Ma alla fine era stato Wolverine a sconfiggere il cattivo di turno, un enorme robot programmato per distruggere ogni cosa sulla propria strada. E Ro lo stava rimproverando proprio per questo: l’addestramento delle reclute si basava sul lavoro di gruppo, ed un istruttore non avrebbe dovuto prendere iniziative personali. D’altro canto anche Logan aveva ragione: non sarebbe spettato a lui addestrare i ragazzi, bensì a Scott, in veste di comandante sul campo degli X-Men.

Solo che da alcuni giorni Ciclope si era chiuso in camera e rifiutava di uscire. Diceva di sentire la voce di Jean nella testa, e né Xavier né Miriam erano riusciti a capire se si trattava di allucinazioni o se improvvisamente avesse sviluppato la capacità di udirla dall’Aldilà o, visto che Darkarrow non era riuscita a contattarla lì, durante la notte di Samhain, da qualunque altro piano d’esistenza si trovasse.

Così, Charles aveva chiesto a Wolverine di fare le veci di Ciclope, essendo tra di loro quello con la maggior esperienza di combattimento.

Miriam intervenne nel battibecco in corso tra i due adulti:

“Non è certamente il nostro modus operandi consueto, Ro, ma a volte il successo di un intero team dipende proprio dall’iniziativa di un singolo”, le fece osservare in tono quieto, che però non ammetteva repliche, “Diciamo che stavolta Wolverine ha dato ai ragazzi una dimostrazione in questo senso. Ma non si ripeterà più, dico bene, Logan?”

Mancando Scott, spettava a Miriam il ruolo di comandante sul campo. Logan era per natura un solitario, poco avvezzo al lavoro di squadra, ma quando riconosceva un’autorità obbediva senza discutere, da buon soldato. E l’autorità di Miriam era fuori discussione: aveva dimostrato più volte, nella Danger Room, di essere un buon comandante. Forse non una stratega brillante come Ciclope, ma di certo una capace sostituta. 

“Sì, Darkarrow”, annuì quindi tra i denti. Detestava ammettere un errore, ma in quel caso vi era costretto, soprattutto perché conosceva l’importanza di far vedere ai subalterni che i loro superiori andavano d’accordo.

“Bene, allora”, concluse Miriam, voltandosi verso i ragazzi, “Vi siete comportati bene, oggi. Lo scenario era particolarmente difficile, ma avete tutti dimostrato di essere in grado di proteggere le spalle del vostro compagno, il che è la prima cosa da imparare se si vuol lavorare in gruppo. In libertà.”

Kitty, Peter e Bobby salutarono con un cenno e si dileguarono, diretti agli spogliatoi. Solo Marie non si mosse.

“Posso domandare una cosa, comandante?”, chiese, rivolta a Darkarrow. Sia Logan che Ro si erano fermati, ma ora si allontanarono di alcuni passi, con discrezione.

“Fuori della Danger Room non sono più il tuo comandante, Marie”, le rammentò Miriam con un sorriso, “a meno che non ci troviamo sul campo di battaglia.”

“Ma si tratta di una cosa inerente proprio a questo”, insistette Rogue, aggrottando la fronte, “Insomma, perché non posso combattere in coppia con Bobby? Lo fate lavorare con tutti tranne che con me, e vorrei conoscerne il motivo.”

Miriam inarcò le sopracciglia:

“Non hai notato che non facciamo combattere in coppia nemmeno Peter e Kitty?”

Nel corso degli ultimi due mesi, tra quei due si era sviluppato del tenero.

Il cipiglio di Rogue si fece più profondo mentre prendeva atto della cosa. Si morse un labbro per non averlo rilevato prima, troppo presa dalla propria delusione.

“È perché stiamo insieme?”, indagò in tono esitante, non ancora certa di aver compreso esattamente il motivo.

“Proprio così”, confermò la donna, “È estremamente difficile mantenere la lucidità e la freddezza, quando si tratta della persona che ami e la vedi in pericolo. Rischi di pensare solo a lei, dimenticando gli altri…”

“Ma non è peggio?”, la interruppe Marie, il suo accento del sud più marcato del solito per il nervosismo, “La preoccupazione per l’incolumità di Bobby, quando lo perdo d’occhio, non potrebbe farmi distrarre di più?”

“Ti è mai successo?”, le rispose Miriam con una contro-domanda, decidendo di ignorare la scortesia della ragazza perché consapevole che era stata involontaria, dovuta ad un grave cruccio. Marie si limitò a fissarla, la fronte sempre aggrondata.

“No”, mormorò infine.

“E sai perché?”, domandò allora Darkarrow, ed al cenno di diniego dell’altra proseguì, “Perché non si ha tempo di pensare a chi non si vede, quando si è nel culmine di una battaglia. Si è troppo impegnati a badare a se stessi ed a chi si ha vicino in quel momento.”

Rogue rifletté con attenzione.

“Ma Ciclope e la dottoressa Grey combattevano insieme…”, obiettò debolmente, già sicura che ci fosse un motivo che le sfuggiva, “e anche tu e Logan…”

“Scott e Jean hanno cominciato a combattere insieme prima di capire di essersi innamorati l’uno dell’altra“, rispose Miriam, “e quindi dopo non c’era più motivo di separarli. Quanto a me e Logan, abbiamo entrambi abbastanza esperienza sul campo da riuscire a tenere sotto controllo i nostri sentimenti personali.”

“Vuoi dire che non potrò mai combattere a fianco di Bobby?”, domandò Marie, mordendosi un labbro.

“No, non voglio dire questo, ma solo che dovrai avere un mucchio di esperienza in più prima di poterlo fare senza pericolo per te o per lui”, rispose Darkarrow, poi scosse la testa, “E cambiando discorso: non hai motivo di essere gelosa di Kitty, lei vede solo Colosso, così come Bobby vede solo te, credimi.”

Il viso di Rogue si coprì di un profondo rossore.

“Sei una telepate anche tu?”, bofonchiò, imbarazzata. Miriam ridacchiò:

“No, ma sono empatica”, le ricordò, “soprattutto con le persone cui voglio bene, come te.”

La spalle di Marie si afflosciarono.

“Hai ragione, sono stata sgarbata: scusami”, mormorò. Darkarrow le strinse una spalla in un gesto rassicurante:

“Non c’è niente da scusare”, dichiarò, “Stanotte va da Bobby e fa’ l’amore con lui fino a che tutti e due non ne potrete più, vedrai che tutti i tuoi dubbi spariranno.”

Rogue fece un sorrisetto malizioso e si congedò. Miriam raggiunse gli altri due, poi assieme salirono al piano di sopra.

**************

In camera sua – la camera che aveva condiviso con Jean – Scott Summers stava seduto sul letto, la schiena curva, la barba lunga, i vestiti stazzonati.

Gli sembrava di essere sul punto d’impazzire.

Scott

“Basta”, bisbigliò, “Lasciami in pace, Jean.”

Erano giorni che udiva quella voce che sussurrava nel suo cervello. Era molto flebile, diversamente da quando lei era viva e si parlavano telepaticamente. Eppure era troppo forte per ignorarla, troppo insistente per pensare che si trattasse di una cosa passeggera. Ma Jean era morta oramai da otto mesi, come poteva essere che adesso sentisse la sua voce che lo chiamava? Lentamente, molto lentamente, era riuscito a farsi una ragione della sua morte, a rassegnarsi al fatto di essere rimasto solo, ad accettare che la sua vita sarebbe andata avanti anche senza di lei. Perché dunque adesso veniva tormentato in quel modo? L’unica spiegazione era che stava impazzendo. Si era solo illuso d’aver trovato un equilibrio, ed ora la sua mente stava cedendo alla follia…

Il professore aveva sondato i suoi pensieri, ma non aveva trovato tracce di Jean. Lui, che era il telepate più potente del pianeta, non udiva la sua voce. E non la udiva nemmeno Miriam, che pure poteva mettersi in contatto con l’Altromondo. Di dove veniva dunque quel richiamo? Perché lo poteva sentire solo lui?

Scott, ho bisogno di te…

Una lacrima solitaria solcò la guancia ispida di Ciclope.

Doveva andare.

****************

Il giorno seguente portò ai residenti della scuola due notizie sconvolgenti: Scott Summers aveva preso la sua moto e se n’era andato, sparendo alla maniera che un tempo era stata di Wolverine; ed i Laboratori Worthington, di proprietà del padre di Angel, Warren Worthington senior, erano sul punto di immettere sul mercato una sostanza in grado di inibire la mutazione, ovvero di far tornare normale qualsiasi mutante.

Nella sala TV comune erano riuniti docenti e studenti anziani.

“Non c’è niente che non va, in noi”, proruppe Ro, indignata, “Non siamo malati! Siamo quello che siamo: niente di più, niente di meno.”

Nightcrawler, cui era rivolta, abbassò gli occhi. La sua timidezza ancora si faceva sentire, quando lei si adombrava.

“Ma il mio aspetto…”, tentò.

“Cos’ha il tuo aspetto che non va?”, sbottò la donna, ed in lontananza si udì il rombo di un tuono. A quel rumore, Ro cercò di calmarsi: la sua ira poteva provocare violenti turbamenti atmosferici ed era meglio se si controllava.

“A me piaci così come sei, Kurt”, lo rassicurò in tono dolce, “Se tu avessi un aspetto normale, non saresti più tu, ai miei occhi”, abbassò la voce in modo da esser udita solo da lui, “Adoro quando mi accarezzi con la tua coda… e quando mi passi i tuoi artigli sulla spina dorsale…”

La sua voce si era fatta roca, e Nightcrawler sentì il sesso agitarsi nei pantaloni. Ro era una donna molto sensuale e non aveva timore di palesarlo a lui.

“La penso come te, Ro”, disse Miriam, seduta sulla poltrona di fronte a lei, “Ma non tutti lo faranno. Coloro che si sentono a disagio con la loro mutazione, che pensano che sia una maledizione, ora avranno la possibilità di liberarsene. Pensa a Rogue prima che riuscisse a controllare il suo talento.”

“Già”, confermò la ragazza, “Come credi che mi sentissi, non potendo mai toccare qualcuno, o essere toccata? Mi era impossibile qualsiasi contatto… una semplice stretta di mano, un abbraccio, un bacio… Era terribile. Allora avrei accettato senza pensarci due volte la possibilità di eliminare tutto ciò dalla mia vita. Se ora non mi interessa, è solo perché non ne ho più bisogno. Ma capisco chi lo volesse fare.”

Colpita, Tempesta non proseguì la sua filippica; i suoi pensieri continuarono però ad elaborare la notizia.

“E se ne facessero un’arma contro i mutanti?”, domandò poi. L’interrogativo agghiacciò gli animi dei presenti.

“Ma hanno detto che è volontario…”, protestò Nightcrawler.

“Speriamo che rimanga tale”, concluse Logan con espressione fosca.

*****************

Due giorni dopo, Xavier era seduto alla sua scrivania; nonostante la preoccupazione riguardo a Scott, per non parlare della Cura, com’era stata prontamente soprannominata la sostanza che inibiva la mutazione, stava cercando di lavorare,

La sensazione lo raggiunse come uno schiaffo in piena faccia, violenta ed imprevedibile. Ansimò per lo stupore che lo travolse, così enorme da terrificarlo fin nel midollo delle ossa. Faticò non poco a riprendere il controllo, e non appena ci riuscì chiamò telepaticamente:

Darkarrow! Tempesta! Logan! Presto! Andate ad Alkali Lake!

I tre convocati non ebbero bisogno di ulteriori particolari per precipitarsi nel sotterraneo, arraffare le divise da combattimento e saltare sul jet. Intanto il professore spiegò loro, sempre usando la telepatia, ciò che aveva percepito: un urlo d’agonia infinita proveniente da Scott. Prima che si spegnesse in un silenzio mortale, Charles aveva fatto in tempo a captarne l’origine: Alkali Lake, laddove otto mesi prima era scomparsa Jean.

Per tutto il viaggio, Miriam rimase chiusa in un angosciato silenzio. Non riusciva a credere che Scott potesse essere morto. Gli voleva bene come ad un fratello, così come avevo voluto bene a Jean come ad una sorella. Non era possibile che anche lui fosse morto. Non era giusto!

Ma Charles non aveva avuto molti dubbi: lo aveva sentito morire, ucciso da un potere incredibilmente forte che non gli aveva lasciato il minimo scampo. Non aveva neppure accennato a combatterlo. Era come se fosse stato preso a tradimento da qualcuno – o da qualcosa – che conosceva bene e di cui si fidava.

A tratti la rabbia prendeva il sopravvento sulla sofferenza: avrebbe trovato il responsabile e gliel’avrebbe fatta pagare! Ma poi la pena tornava a prevalere e le chiudeva la gola in un nodo doloroso, ammutolendola.

Seduto al suo fianco, Logan non sapeva che fare per alleviare l’angoscia che vedeva in lei. Non poteva dire di essere mai andato d’accordo con Ciclope, cui aveva affibbiato l’irrispettoso soprannome di Monocolo, ma era giunto a stimarlo, sia come comandante sul campo, sia come persona. Sapeva però che Miriam gli era molto affezionata e che la sua perdita era per lei un colpo terribile, almeno quanto quella di Jean.

Le prese la mano in un goffo tentativo di trasmetterle conforto, e fu sollevato nel sentire che lei ricambiava brevemente la stretta, come per ringraziarlo.

Ed invero fu la presenza di Logan a permettere a Miriam di non crollare. Era lei la responsabile di quella missione, il comandante dell’operazione in corso, e doveva pensare lucidamente. Sapeva di poterlo fare. La sua forza d’animo era ineguagliabile da chiunque, e Charles lo sapeva bene, altrimenti non le avrebbe affidato quell’incarico.

Un’ora dopo il Blackbird atterrava nei pressi del lago che si era formato dal crollo della diga dove aveva avuto base l’efferato colonnello Stryker. Tutto era avvolto da una nebbia innaturale, tanto che Tempesta dovette effettuare la manovra d’atterraggio in modalità strumentale. Scendendo dal jet, Darkarrow si rese conto che, se la bruma aveva nascosto l’arrivo del velivolo, ora impediva loro di vedere ad un palmo dal naso. Con un cenno ordinò silenziosamente a Ro di disperdere la caligine, inspiegabile in quel periodo dell’anno. Tempesta si concentrò e sollevò il viso al cielo invisibile; i suoi occhi divennero bianchi, e dal nulla sorse un turbine di vento che spazzò via la nebbia.

Davanti ai loro occhi si rivelò allora una scena irreale, tanto che sbatterono più volte le palpebre nel dubbio d’esser preda di allucinazioni: tutt’intorno, oggetti d’ogni genere fluttuavano a mezz’aria, ciottoli, rami d’albero, lattine schiacciate, frammenti di vetro, perfino una scarpa erosa dall’ esposizione alle intemperie. C’era un silenzio strano, inquietante. Non si udiva il canto degli uccelli, lo stormire delle fronde, neppure lo sciabordio delle onde del lago.

Ad un cenno di Miriam, i tre si separarono, guardandosi attorno con cautela. Wolverine notò un oggetto particolare che fluttuava a pochi metri di distanza, sulla sua destra, e si avvicinò. Lo prese in mano, lo girò per esaminarlo meglio.

Il fiato gli si strozzò in gola.

Erano gli occhiali di Scott, con le speciali lenti al quarzo rosso che schermavano l’energia distruttiva irradiata dai suoi occhi.

Poche decine di metri più in là, quasi sul bordo dell’acqua, Miriam aggirò un grosso macigno bianco e scorse una figura umana abbandonata a terra.

Gli occhi quasi le schizzarono dalle orbite.

Era Jean Grey.

Cacciò uno strillo:

“Wolverine! Tempesta! Presto, venite qui!”

I due sopraggiunsero di corsa, solo per arrestarsi di botto alla vista di Jean.

Miriam si avvicinò alla figura femminile stesa sulla riva sassosa del lago. Chinandosi su di lei, notò che i capelli erano diversi, molto più lunghi di quanto li avesse avuti otto mesi prima. Neppure il tempo trascorso giustificava quella crescita anomala.

Le tastò il polso.

“È viva”, annunciò agli altri, incredula, “Dobbiamo portarla subito da Charles.”

Gli altri due si avvicinarono, mentre Miriam si accertava che Jean non presentasse fratture o ferite tali per cui il trasporto sarebbe stato sconsigliabile. Fu Logan a prenderla in braccio ed a trasportarla fino al jet, dove la sistemarono in uno dei sedili.

“E Scott?”, domandò Tempesta sottovoce. Darkarrow strinse le labbra per trattenere il pianto:

“Charles ha detto di averlo sentito morire. Jean è viva al di là di ogni speranza, ma ha bisogno di cure immediate. Non abbiamo tempo per cercare il corpo di Scott…”

La voce le si ruppe. Non riusciva ancora a capacitarsi che fosse morto. La sua mente si ribellava a quel pensiero. Era pur sempre possibile che Xavier si sbagliasse, che quello che aveva percepito non fosse stata la morte di Scott, ma qualcos’altro…

“Decolliamo”, ordinò, ritrovando parzialmente il controllo delle proprie emozioni. Non doveva nutrire false speranze. Ora doveva pensare a Jean, che era viva; avrebbe pensato dopo ai morti.

Nell’infermeria della scuola, Xavier vegliava su Jean, collegata ad una serie di apparecchiature che monitoravano le sue condizioni vitali e la mantenevano in stato di incoscienza. Lo aveva aiutato Hank, che poi era dovuto partire d’urgenza alla volta di Washington, convocato dal Presidente degli Stati Uniti in persona: nella comunità dei mutanti erano scoppiati dei tumulti, molti protestavano anche violentemente contro la Cura. Temevano che vi sarebbero stati sottoposti a forza, ed inutili erano state le rassicurazioni delle autorità. Il dottor Henry McCoy, oltre che un famoso ricercatore nel campo della genetica, era anche un mutante, e poteva parlare loro da una posizione di parità di condizione che mancava al Presidente o a qualsiasi altro esponente del governo.

Miriam la guardava in silenzio, ripensando ai suoi tentativi di contattarla nell’Altromondo. Per forza che non c’era riuscita: non era là, non era mai stata là.

Ma allora dov’era stata?

“Pensi davvero che la Fenice possa prevalere?”, domandò, angustiata.

“Le barriere che ho eretto nella sua mente vent’anni fa hanno ceduto”, rispose Charles sommessamente, quasi temesse che Jean potesse udirlo, “Dovrò mantenerla in stato di incoscienza finché non riuscirò a ripristinarle.”

“È stata capace di sopravvivere all’impatto della valanga d’acqua”, considerò Darkarrow, scuotendo la testa incredula, “Il suo potere è davvero enorme.”

“L’unico livello cinque al mondo”, confermò il professore, a sua volta un già raro livello quattro, “Se dovesse diventare dominante, la Fenice sarebbe simile ad una divinità, con un potere pressoché illimitato, capace di creare qualsiasi cosa, da una molecola ad una galassia, e di distruggerla con la stessa facilità.”

“Un potere simile non dovrebbe venir dato a nessun essere umano”, mormorò Miriam, “La mente cede di fronte ad una cosa tanto enorme, è troppo superiore alle nostre forze, ingestibile…“

“È per questo motivo che l’ho schermata, quand’era una ragazzina. Ma sono stato in grado di farlo solo perché il suo talento non era ancora completamente sviluppato.”

Darkarrow annuì, rammentando: era stata presente anche lei, quando Charles lo aveva fatto, due decenni prima.

Xavier proseguì a bassa voce, in tono sconfortato:

“Ora… non sono neppure sicuro di poterlo fare mentre è incosciente.”

Miriam tacque, consapevole della gravità di quella confessione. Poi il suo pensiero tornò all’amico disperso:

“E Scott?”

Xavier sospirò dolorosamente prima di rispondere piano:

“Non lo sento più, Miriam.”

Lei scosse la testa, ostinatamente. Ancora non riusciva ad arrendersi. Jean le era stata restituita, forse poteva essere lo stesso per Ciclope…

“Sei spossato, Charles”, disse, cambiando discorso, “Hai bisogno di riposarti prima di tentare di nuovo la ricostruzione delle barriere. Veglierò io su di lei.”

Il professore raddrizzò stancamente la schiena; era riluttante ad ammetterlo, ma sapeva che la sua vecchia amica aveva ragione.

“D’accordo”, rispose, “Andrò a dormire, per un po’.”

******************

Alcune ore dopo, Logan venne a dare il cambio a Darkarrow.

“Vai a mangiare qualcosa”, la invitò, “Anche la tua resistenza, come la mia, ha un limite.”

Era vero, la loro comune capacità rigenerativa non li esimeva, oltre un certo punto, dalla necessità di cibo e di riposo.

Miriam scrutò ancora una volta il volto immobile e pallido di Jean. Era bella come lo era sempre stata, ma i suoi lineamenti erano in qualche modo diversi: più affilati, duri. Era cambiata, non c’erano dubbi. E poi quei capelli, dello stesso rosso scuro di sempre, ma lunghissimi e disordinati. Perché la inquietavano tanto?

“Se noti qualsiasi alterazione, chiama immediatamente”, raccomandò a Logan. L’uomo annuì:

“Certo, non preoccuparti. Ora sali in cucina, Edna ti sta aspettando.”

Mentre gli passava accanto con un’aria abbattuta che non le aveva mai visto e che gli strinse il cuore, Wolverine la prese tra le braccia.

“Vedrai che ce la farà”, le mormorò all’orecchio, “Chuck troverà il modo di farla star bene.”

Miriam si posò contro di lui, grata del conforto che le offriva.

“Lo spero”, sussurrò con voce rotta, “Lo spero tanto.”

Rimasero così per alcuni istanti, poi Logan si staccò da Miriam e tornò ad esortarla:

“Vai, adesso.”

Lei annuì, gli accarezzò una guancia ed uscì.

Logan si voltò a fissare la figura immobile sul lettino e respirò profondamente prima di avvicinarsi.

I suoi sentimenti erano in subbuglio. Non dubitava affatto del suo amore per Miriam, ma qui c’era la donna di cui si era innamorato prima di lei, la donna che non aveva potuto avere perché apparteneva ad un altro e che aveva creduto morta per otto lunghi mesi. Non riusciva a spiegarsi quello che provava adesso per lei. L’amava ancora? Era possibile amare contemporaneamente due donne?

Scosse la testa come per schiarirsi i pensieri, che si affastellavano disordinatamente nel suo cervello poco avvezzo ad analizzare i sentimenti più profondi.

E comunque, quella era ancora la Jean che aveva conosciuto ed amato? Xavier gli aveva spiegato della Fenice, del terribile potere che era racchiuso dentro di lei e che a stento era riuscito a schermare, vent’anni prima. Ora minacciava di prendere il sopravvento; se ciò fosse accaduto, Jean sarebbe stata totalmente un’altra persona. Anzi, peggio: non sarebbe stata neppure più umana, bensì una creatura del tutto diversa.

Lunghi minuti si trascinarono, mentre Logan rimuginava incessantemente.

Cosa sarebbe accaduto, se Charles non fosse stato in grado di rimettere sotto il controllo cosciente di Jean l’essere infinitamente potente che si agitava dentro di lei? Sarebbero stati costretti ad ucciderla? Quel pensiero lo atterriva. No, doveva esserci un’altra soluzione. Ma certo che c’era. Jean era una persona fondamentalmente buona, avrebbe dato quell’impronta anche alla Fenice. Sarebbe diventata una divinità benevola, creatrice e non distruttrice. In fondo, era un medico, ed i medici sono votati alla preservazione della vita…

Il casco dal disegno intricato che le avvolgeva il capo si mosse, vibrò, scivolò all’indietro via dalla testa di Jean. Logan si tese: cosa stava succedendo?

Poi Jean aprì lentamente gli occhi.

*****************

“Cos’è successo?”, urlò Miriam, precipitandosi di corsa lungo il corridoio che portava all’infermeria. Davanti a lei, Charles stava manovrando la carrozzella al massimo della velocità.

“Ancora non lo so!”, rispose concitatamente il professore, “Jean…”

La porta dell’infermeria era sventrata, lacerata dall’interno come se fosse stata di carta. Entrando, trovarono Logan a terra, bocconi; alle sue spalle, la parete presentava un bozzo come se vi avesse cozzato contro un oggetto molto pesante.

Il lettino era vuoto.

Wolverine si sollevò faticosamente sulle braccia e si girò a mezzo, guardandoli con espressione stordita. Sembrava appena uscito da una lotta furiosa con una gigantesca fiera. Miriam gli fu accanto in un lampo e lo sostenne.

“Logan, cos’hai fatto?”, domandò Xavier, angosciato.

“Jean…”, tossì l’uomo a terra, “È stata Jean. Si è svegliata, mi parlava normalmente… poi ha cominciato a comportarsi in maniera strana…”

Fece un cenno verso la propria testa, invitando Charles a leggergli nella mente: era la maniera più rapida e sicura per spiegarsi in modo inequivocabile. Il professore chiuse gli occhi per meglio concentrarsi ed estrasse dalla sua mente gli avvenimenti degli ultimi minuti, trasmettendo quanto captava anche a Miriam.

Jean si era svegliata, ma non era lei: era la Fenice. Agendo secondo l’istinto, obbedendo all’attrazione che aveva provato e che ancora provava per Wolverine, aveva tentato di sedurlo. Ma lui l’aveva fermata, sia perché aveva capito che non era la vera Jean, sia perché ora c’era Miriam nel suo cuore. Oltraggiata dal suo rifiuto, la Fenice lo aveva spinto via, scaraventandolo contro la parete con tutta la terrificante forza della propria capacità telecinetica, tanto da fargli perdere brevemente i sensi. Se il suo scheletro non fosse stato fatto di adamantio, si sarebbe spezzato tutte le ossa.

Poi la creatura si era alzata e se n’era andata, sfondando la pesante porta di metallo, stracciandola come se fosse stato un foglio d’alluminio per alimenti. Non c’erano altre tracce del suo tragitto verso l’esterno, e Xavier suppose che si fosse semplicemente dissolta, passando attraverso i muri come Kitty.

“Ha ucciso Scott”, ansimò Logan, sconvolto. Gli altri lo fissarono inorriditi, ma quanto avevano letto nella sua mente non lasciava dubbi.

La Fenice aveva assassinato Ciclope.

*****************

“Maledizione!”, imprecò Miriam poco signorilmente.

Erano giunti davanti alla vecchia casa di Jean, dove ancora vivevano i suoi genitori, John ed Ellen Grey. Durante la notte, Xavier aveva usato Cerebro per rintracciare la sua pupilla che, per quanto fosse diventata simile ad una divinità, aveva fatto ciò che facevano tutti gli esseri viventi quando si sentono in pericolo: era tornata nella sua tana, il luogo che l’aveva vista crescere.

Ma se Charles aveva usato Cerebro, come aveva fatto Magneto a rintracciare Jean? Intuito? Fortuna? Qualunque fosse la ragione, adesso era davanti alla casa e l’aveva fatta presidiare da alcune persone, indubbiamente mutanti al suo servizio. Eric indossava il suo speciale casco, che lo schermava dai poteri telepatici.

Logan scese dal SUV, che aveva guidato a rotta di collo fin lì dalla scuola; Miriam e Tempesta lo imitarono, mentre Xavier manovrò il telecomando per aprire le portiere del retro, mettere in funzione la pedana mobile e scendere a sua volta con la carrozzella.

I rappresentanti degli X-Men e quelli della Fratellanza dei Mutanti si fronteggiarono in silenzio. La tensione nell’aria era palpabile.

“Stavolta non mi fermerai, Charles”, dichiarò Eric, in tono pacato, accennando al suo casco metallico.

“Non sono qui per questo”, ribatté Xavier, guardando con tristezza il suo antico amico che era diventato suo nemico, “Sono qui per Jean.”

Magneto spostò lo sguardo su Miriam.

“Sono lieto di rivederti, principessa.”

Il titolo suonò come un insulto. Logan strinse i pugni.

“Io no”, sibilò la donna, gli occhi ridotti a due fessure lampeggianti. Non aveva perdonato a Eric il suo tradimento degli ideali comuni, e non lo avrebbe mai fatto. Se c’era una persona al mondo che odiava, questa era Magneto.

Con un sospiro rassegnato, Eric tornò a guardare Charles:

“Entreremo insieme, solo tu ed io.”

“Non riuscirai a convincerla a seguirti, Eric”, lo diffidò Xavier.

“Vedremo.”

Dopo che i due capi delle fazioni opposte dei mutanti furono spariti oltre la porta d’ingresso di casa Grey, Miriam appuntò la propria attenzione sugli alleati di Magneto. C’era una donna giovane e bella, probabilmente di origine ispanica, con un tridente tatuato sulla guancia, che la guardava con aria di sfida; e c’era un ragazzo – o era una ragazza? I lineamenti duri, i capelli corti ed il fisico androgino facevano pensare ad un maschio, ma sotto il giubbotto di pelle e la maglietta in rete si vedeva un reggiseno. Poi c’era un giovane di origine orientale, probabilmente giapponese, con un piercing sotto il labbro inferiore. Ed infine un gigante di due metri, dalla muscolatura ipersviluppata e dall’espressione stolida, con un casco che sembrava di pietra.

Per lunghi minuti rimasero tutti a fissarsi cupamente senza pronunciar motto, in attesa di un segnale.

Poi la casa fu scossa come da un’onda sismica.

Logan sfoderò gli artigli:

“Io entro”, annunciò digrignando i denti. Ororo gli mise una mano sul braccio:

“Il professore ha detto di aspettare fuori”, gli ricordò. Logan guardò Darkarrow in cerca di appoggio, ma la donna aveva gli occhi fissi sulla ragazza dalla guancia tatuata.

Ci fu una seconda scossa, molto più forte della prima; dal tetto caddero delle tegole, alcuni infissi uscirono dai gangheri, e le finestre del piano superiore esplosero.

“Adesso basta”, ringhiò Miriam. I tre X-Men si mossero contemporaneamente: Wolverine scattò di corsa, denti ed artigli snudati, e si gettò sul gigante; Tempesta chiamò a sé il vento e si fece sollevare da terra, per poi precipitarsi in un turbine tra l’androgino e l’orientale; Darkarrow saettò in direzione della tatuata.

Tutti e tre ebbero una sorpresa.

Logan venne intercettato dal gigante, che gli si parò davanti come un muro.

Letteralmente.

Wolverine gli sbatté addosso e ricadde indietro, intontito.

“Io sono Fenomeno!”, urlò il gigante a mo’ di presentazione. Sollevò un piede e lo fece ricadere con violenza nell’intento di schiacciare Logan, che fece appena in tempo a rotolare via. Nell’asfalto si aprì un piccolo cratere. Wolverine schizzò lontano, preparandosi a sferrargli un attacco alle spalle, ma Fenomeno si girò con una rapidità inattesa per la sua mole. Il suo peso molecolare doveva essere notevolissimo, ma Logan non si perse d’animo: non c’era niente al mondo che potesse resistere alle sue lame di adamantio.

Intanto Tempesta aveva gettato lontano i due che aveva assalito. L’orientale aveva battuto la testa e giaceva a terra, svenuto, mentre l’androgino era rotolato sul prato e si stava già rialzando. Ro creò una tromba d’aria in miniatura e la diresse su di lui, ma l’androgino batté le mani ed un’onda d’urto defletté il mini tornado. Poi le batté di nuovo, più forte, e Tempesta venne catapultata via, picchiò contro il muro e cadde a terra senza fiato.

Darkarrow piombò sulla tatuata… ma non la trovò nel punto d’arrivo. La vide alcuni passi più lontana, un sorriso sfrontato sulle labbra carnose.

“Sono più veloce di te, carina”, le disse in tono beffardo, e si mosse di nuovo, con una rapidità accecante. Un istante dopo Miriam si sentì colpire da un pugno in pieno stomaco e si piegò in due per il dolore, il respiro mozzo.

Intanto la casa veniva scrollata come uno straccio, simile ad un puledro imbizzarrito. Nel corso della loro lotta, Wolverine e Fenomeno sfasciarono una finestra e finirono in salotto. Il gigante afferrò Logan per la collottola e lo scaraventò per aria, facendogli sfondare il soffitto. Per la seconda volta nella stessa giornata, l’uomo dovette ringraziare il suo scheletro di adamantio per evitargli la frattura di tutte le ossa del corpo.

In giardino, Tempesta aveva gli occhi bianchi ed i fulmini crepitavano attorno a lei; li raccolse tra le dita e li proiettò verso l’androgino, che creò un’onda d’urto con il battito delle mani e li defletté, a stento.

Da un’altra parte del pianoterra, Miriam lottava furiosamente contro la sfuggente ragazza tatuata. Era molto veloce, in effetti forse più di lei, ma la sua tecnica di combattimento si basava tutta sull’istinto e per nulla sulla strategia. Darkarrow scelse una tattica d’attesa, incassando i suoi colpi senza troppa fatica grazie alla propria capacità di autoguarigione quasi istantanea, certa che a breve la sua avversaria avrebbe commesso un errore.

La villetta venne squassata fin nelle fondamenta. Una forza immane la sradicò dal terreno e la sollevò di svariati metri. La sorpresa interruppe il combattimento di Tempesta e dell’androgino, che si voltarono a guardare con gli occhi fuori dalle orbite.

Le stanze di tutta la casa vennero percorse da una furiosa bufera di vento, che spazzò via ogni cosa si trovasse sulla sua strada. Fenomeno venne preso e gettato contro un  muro, lo sfondò e finì in strada, dove cadde violentemente, formando una buca nell’impatto con l’asfalto. Si mise a sedere e rimase lì a fissare inebetito la casa che fluttuava a mezz’aria, la bocca spalancata.

Wolverine riuscì a piantare gli artigli in una parete e ad ancorarsi contro quella forza invisibile che minacciava di strapparlo via dal pavimento. Sentiva delle urla provenire dalla stanza a fianco, e vi si diresse usando gli artigli come rampini.

Colta di sorpresa, la ragazza tatuata venne afferrata dal turbine e gettata fuori della finestra come una bambola di stracci, mentre Miriam riuscì fortunosamente ad aggrapparsi allo stipite di una porta con le punte delle dita. Ma la forza del vento era irresistibile: dopo pochi istanti, Miriam scivolò e perse la presa, attraversò a mezz’aria la stanza accanto sbattendo dolorosamente contro lo spigolo di una credenza e finì addosso a Logan, che a forza di artigli stava trascinandosi sul soffitto in direzione di una porta a due ante ermeticamente chiusa.

Sotto l’impatto, i polmoni di Wolverine si svuotarono di colpo, ma l’uomo ebbe la prontezza di riflessi di afferrare Darkarrow per la vita, impedendole di venir trascinata via dall’uragano. Voltandosi, la donna vide Magneto semisdraiato a terra in cucina, disperatamente avvinghiato ad uno stipo, la bocca spalancata in un urlo silenzioso.

“Aggrappati alle mie spalle!”, le gridò Logan nel frastuono del vento. Miriam obbedì, spostandosi dietro di lui e salendogli praticamente in groppa, se non fosse che erano capovolti.

Wolverine affondò gli artigli sopra lo stipite della porta ed usò l’altra mano per aprire un battente, tremando per lo sforzo.

Nella stanza al di là della porta, Jean era in piedi, le lunghe ciocche rosse che frustavano l’aria simili ai serpenti della Medusa, il bel volto irriconoscibile, deformato da una rabbia disumana; di fronte a lei, Xavier era sospeso a mezz’aria, i muscoli facciali che tremolavano sotto l’attacco psichico e fisico che gli stava infliggendo la sua pupilla. Era chiaro che si trattava di un confronto che stava lentamente, ma inesorabilmente, perdendo.

“Charles!”, ansimò Miriam, in preda all’angoscia. Il suo vecchio amico riuscì a girare la testa per lanciarle un’occhiata in tralice; oltre la sofferenza psicofisica, oltre la mestizia per aver perso per la seconda volta colei che considerava una figlia, la figlia che non aveva mai avuto, Miriam vide la pietà, il sentimento che gli era forse più caratteristico.

Poi il professore tornò a guardare Jean; i suoi occhi esprimevano tutto l’amore di un padre per la figlia prediletta. Nessuna traccia di rimprovero, nessuna traccia di collera.

“Non lasciare che il tuo potere ti domini”, la esortò, con voce appena udibile al di là dell’urlo del vento innaturale.

Un attimo dopo, il suo corpo parve scomporsi in milioni di granelli di materia, che vorticarono in senso antiorario e poi in un istante si dispersero in tutte le direzioni, senza lasciar traccia.

Charles Xavier, il Professor X, era scomparso, svanito, vaporizzato.

Noooo!!!”, urlarono Logan e Miriam ad una sola voce. Udendoli, Jean volse su di loro lo sguardo terribile dei suoi occhi infuocati; fece un gesto, ed i due vennero catapultati lontano; sbatterono contro un muro e caddero sul pavimento, senza fiato. Un istante dopo, la casa ripiombò a terra, inclinandosi pericolosamente da un lato; miracolosamente, non si sfasciò.

Quando Darkarrow e Wolverine riuscirono a riprendersi dall’intontimento e si rialzarono, di Jean e di Magneto non c’era più traccia.

Miriam barcollò e sarebbe caduta se Logan non l’avesse prontamente sostenuta.

“Charles…”, singhiozzò la donna, “No, oh no, Charles…”

Le lacrime presero a scenderle copiose dagli occhi, solcando le guance impolverate. Cominciò ad emettere un lamento, dapprima basso, poi sempre più forte e straziante; Logan gettò la testa all’indietro e lanciò un lungo ululato di dolore.

All’esterno della casa sconquassata, Ro udì quel suono carico di sofferenza e capì di colpo cos’era accaduto.

Cadde a terra in ginocchio, schiantata.

****************

Quattro giorni.

Alla luce delle fiamme, Miriam si guardava attorno incredula.

Erano passati solo quattro giorni da quando Charles Xavier era stato ucciso dalla Fenice, eppure sembravano quattro anni.

Tutt’attorno a lei c’era la rovina; sull’intera isola di Alcatraz, un tempo sede di una famigerata prigione ed ora dei Laboratori Worthington, infuriava la battaglia tra la Fratellanza e gli X-Men. Decine, centinaia di mutanti colmi di odio per gli umani normali contro otto mutanti che li difendevano in nome di un sogno di convivenza e di collaborazione che non era morto con il suo ideatore.

Lo scontro stava avendo un momento di pausa, come l’occhio al centro di un ciclone. Miriam tornò a fissare la sua avversaria, la ragazza tatuata capace di muoversi ad una velocità persino superiore alla sua, a pochi passi da lei. Era riversa su una grata di metallo: studiando le sue mosse, Darkarrow era riuscita infine a precederla, parandosi davanti a lei. Con una delle mosse più micidiali che conosceva, un colpo di taglio alla gola, le aveva spezzato la trachea, uccidendola all’istante.

Così giovane e bella, pensò con amarezza.

Che spreco.

Ancora una volta, sentì un’ondata di rancore nei confronti di Magneto, colpevole d’aver traviato tanti ragazzi.

I suoi compagni X-Men avevano fatto oramai piazza pulita: i loro avversari erano numericamente superiori a loro nella proporzione di venti a uno, ma erano disorganizzati, spinti solo dalla rabbia, accecati dall’odio: i Marines a protezione dei laboratori non avevano faticato molto a neutralizzati, usando armi caricate con siringhe piene della sostanza che inibiva la mutazione, fucili, mitragliatrici e bazooka in plastica per evitare che Magneto li disarmasse usando la sua capacità di manipolare il metallo.

Alla fine Eric era stato messo fuori combattimento da un lavoro di squadra assolutamente perfetto, proposto da Wolverine a dimostrazione che quella logica di combattimento aveva infine convinto anche lui; Miriam aveva quindi dato gli ordini in successione: Iceman aveva ingaggiato duello con Piro, ghiaccio contro fuoco, per distrarlo dal suo compito di guardare le spalle di Magneto; Tempesta aveva creato una fitta foschia che aveva nascosto i movimenti degli altri; Colosso aveva lanciato Logan, artigli sfoderati, in direzione di Magneto.

Nel vederselo arrivare addosso, Eric aveva riso sprezzantemente e lo aveva bloccato, scaraventandolo ai suoi piedi a tre metri di distanza, fuori portata.

“Non imparerai mai, Uomo di Adamantio?”, lo schernì. Col suo scheletro di metallo, Logan era facilmente alla sua mercè.

“Al contrario”, ringhiò selvaggiamente Wolverine, “direi che ho imparato benissimo!”

Un istante dopo, con un terrificante ruggito, Beast era piombato dall’alto in uno dei suoi incredibili salti ed aveva piantato nel petto di Magneto quattro siringhe piene di Cura.

Eric lo aveva fissato, assolutamente incredulo; poi, con un gemito, si era lentamente accasciato.

Tutto ciò mentre Shadowcat e Rogue erano andate a recuperare il ragazzino che era l’innocente causa di quella terribile battaglia, la cui mutazione consisteva nell’annullare la mutazione altrui e dal quale gli scienziati che lavoravano per Worthington avevano ricavato la Cura.

La pausa finì repentinamente.

Una forza spaventosa cominciò ad afferrare veicoli e soldati, sollevandoli da terra e riducendoli a sbuffi di molecole che si disperdevano nell’aria senza lasciar traccia.

In cima al moncone del Golden Gate, divelto da Magneto per creare una via d’accesso dalla terraferma all’isola di Alcatraz, Jean era immobile e fissava la scena infernale ai suoi piedi, il volto disumano coperto da un reticolo di vene scure, gli occhi fiammeggianti, i capelli che frustavano l’aria come mille serpenti rabbiosi.

Nella sua mente annebbiata da una collera spaventosa, di cui non conosceva e non le importava l’origine, veniva ripetuta un’unica parola, come in una nenia infinita: distruggi, distruggi, distruggi.

“State al riparo!”, urlò Logan, abbrancando Miriam per un braccio e tirandola dietro ad un cumulo di macerie. Gli altri obbedirono, rifugiandosi dove poterono.

“Oh Dea… Jean!”, gemette Darkarrow inorridita.

Wolverine osservò la figura demoniaca che incombeva su di loro, la fronte aggrottata in un tetro cipiglio.

“Posso fermarla solo io”, considerò cupamente. Avevano già parlato di ciò: con la sua capacità rigenerativa, poteva contrastare il potere distruttivo della Fenice ed arrivarle abbastanza vicino da trapassarla con gli artigli ed ucciderla.

Perché era quello l’unico modo per bloccare la Fenice.

Aveva già provato a parlarle, ma era stato un tentativo vano: oramai Jean era definitivamente perduta, ed al suo posto c’era questa creatura spaventosa che solo la morte poteva arrestare.

Miriam lo fissò al colmo della disperazione. Disperazione per lui, perché sapeva quanto gli sarebbe costato compiere quel gesto estremo; ma disperazione anche per se stessa: come avrebbe potuto vivere col rimorso d’aver fatto uccidere la sua amica più cara, la sua sorella in spirito? Sarebbe stato come uccidere se stessa. No, peggio: se si fosse uccisa, non avrebbe potuto provare rimorso.

Chiuse gli occhi, avvilita.

Quella creatura non è Jean, si disse. Aveva vaporizzato Scott. Charles. Tutti quei bravi soldati. Era la Fenice, un essere malvagio, votato alla distruzione fine a se stessa.

Non funzionò. La sua mente accettava il concetto, ma non così il suo cuore.

Non poteva pensarci adesso. Non doveva pensarci adesso. Ci avrebbe pensato dopo. Ora doveva fare quello che andava fatto, e poi avrebbe pagato il prezzo necessario.

Riaprì gli occhi e guardò Wolverine.

“Vai”, gracchiò, e fu come se si fosse strappata un pezzo del proprio cuore. Logan annuì, consapevole della spaventosa decisione che colei che era la sua donna ed il suo comandante era stata costretta a prendere. Fissò Jean al di là delle fiamme dei roghi, prese fiato, poi si lanciò di corsa verso di lei.

La Fenice lo vide arrivare e fissò la propria terribile attenzione su di lui. La giacca della sua divisa di pelle da X-Man andò in brandelli, poi fu la volta della carne. Wolverine urlò di dolore: la sua capacità di autoguarigione gli permetteva di sopravvivere agli attacchi, ma non lo proteggeva dalla spaventosa sofferenza che gli veniva inflitta.

Quasi in deliquio per l’ambascia, Miriam lo osservò avvicinarsi a Jean, salire arrancando verso di lei, giungerle di fronte. Lo vide rivolgerle la parola, forse in un estremo tentativo di far riemergere Jean. Per lunghissimi istanti, la Fenice lo fissò con occhi spaventosi; poi, lentamente, la sua espressione mutò, il reticolo di vene scure che le deturpava il volto si attenuò, scomparve, dai suoi occhi sparirono le fiamme infernali… ed infine fu di nuovo Jean.

Sulle sue labbra Miriam lesse chiaramente una parola, una supplica terribile: uccidimi.

Wolverine sfoderò gli artigli.

Piangeva.

Il cuore di Darkarrow si arrestò. Il respiro si fermò. Tutto il suo essere rimase paralizzato.

Poi il suo cervello venne attraversato da un’intuizione fulminante.

Balzò in piedi e, con tutta la straordinaria velocità della propria mutazione, si fiondò verso Jean e Logan.

Fermati, Logan!

Il suo urlo, lanciato a pieni polmoni, echeggiò nella notte diventata improvvisamente silenziosa. Wolverine trasalì e si girò di scatto. Un istante dopo Miriam era ai piedi del rialzo su cui si trovavano lui e Jean.

“Jean, tu sei capace di tutto!”, gridò Darkarrow, “Non hai nessun limite: sei simile ad una divinità!”

“È per questo che dovete uccidermi!”, urlò Jean con voce affannata, “A nessun essere umano deve venir dato un potere così spaventosamente grande…”

Miriam cominciò a risalire le macerie per raggiungere l’amica.

“È vero”, ansimò, scivolando e riprendendo caparbiamente la scalata, “Ma non è necessario che ti uccidiamo. Tu puoi fare tutto, Jean… puoi anche distruggere il tuo stesso potere. Puoi liberartene, cancellarlo dal tuo DNA. Mi capisci? Puoi annientare la Fenice!

Logan era arretrato di un passo. Non riusciva a credere a quanto stava dicendo Miriam. Eppure pareva aver senso… 

“Ma come potrò poi vivere con me stessa, dopo quello che ho fatto?”, gemette Jean, piangendo, “Ho ucciso Scott! Il professore! E tutte queste persone! Non sono degna di vivere…”

Oramai Darkarrow li aveva raggiunti.

“Jean, ti ho già detto che puoi fare tutto!”, esclamò disperatamente, “Tutto, non capisci? Come puoi distruggere, puoi anche creare. Hai il potere illimitato di una divinità! Li hai uccisi distruggendoli a livello molecolare, ma così come li hai annientati puoi anche ricrearli. Farli rivivere!”

Jean la stava fissando con gli occhi fuori dalle orbite, incredula, sconvolta dalla possibilità che l’amica le stava prospettando.

“Jean, mi ascolti?”, riprese Miriam, incalzandola, “Concentrati: pensa a Scott, agli ultimi momenti con lui prima che lo disgregassi… Ricordi il suo schema molecolare? La sua composizione atomica? Ricreala! Poi fa lo stesso con Charles, e con tutti coloro che hai vaporizzato…”

Jean si passò la lingua sulle labbra screpolate. Chiuse gli occhi, concentrandosi. Aggrottò la fronte.

Adagio, attorno a lei si creò un’aura di luminescenza perlacea, che prese a brillare, dapprima pulsando irregolarmente, poi stabilizzandosi. I suoi lunghissimi capelli ricominciarono ad agitarsi, ma in modo gentile, come mossi da una dolce brezza. L’immagine che offriva adesso era diametralmente opposta a quella di pochi minuti prima: allora era stata l’incarnazione della Distruzione, adesso invece personificava la Creazione.

Dall’aria si formarono cento, mille, un milione di granelli di materia; vorticando in senso orario, si condensarono, di più, sempre di più, poi improvvisamente implosero in un lampo di luce… ed ai piedi della collinetta di detriti apparve il corpo nudo di un giovane uomo bruno, in posizione prona.

Scott.

Un istante dopo, con un’esplosione silenziosa, comparvero degli abiti, jeans e camicia a quadri; scarpe da tennis; ed i suoi occhiali dalle lenti al quarzo rosso.

Jean trattenne il fiato, aprì gli occhi e contemplò il suo operato con sguardo vacuo.

Darkarrow balzò giù dalle macerie con due salti, miracolosamente senza spezzarsi le gambe, e si precipitò da Scott, si chinò su di lui, gli tastò il polso.

La carotide pulsava lentamente, ma con forza.

“È vivo, Jean!”, strillò, pazza di gioia, “Ce l’hai fatta!”

Jean riprese a respirare; una lacrima solitaria debordò dall’angolo di un occhio e scivolò lungo la guancia.

Tornò a serrare la palpebre.

Un altro turbine di granelli di materia vorticò poco lontano da Ciclope, e da esso comparve Xavier, con l’abito che indossava quattro giorni prima. Miriam si affrettò ad accertarsi delle sue condizioni, ed il suo sorriso confermò a Jean e a Logan che anche il professore era vivo.

Allora pure Jean, infine, sorrise; con una nuova sicurezza, sollevò le braccia e la sua aura luminosa si dilatò, giunse a sfiorare Logan, i cui peli delle braccia si rizzarono di colpo; ma non era una sensazione spiacevole. Tutt’attorno si formarono decine e decine di vortici di materia in grani, dai quali scaturirono tutti coloro che la Fenice aveva distrutto.

Il sorriso di Jean era raggiante: stava rimettendo tutto a posto! Stava riscattando le sue orribili azioni! Sì, ora poteva vivere, libera dal rimorso.

Guardò Scott, che ancora giaceva a terra svenuto. Poteva fare tutto. Poteva anche modificare la sua mutazione, mettendo la terrificante energia emanata dai suoi occhi sotto il suo controllo cosciente.

Poi guardò verso Xavier, anche lui tuttora privo di sensi; poteva risanare la sua spina dorsale lesionata e farlo tornare a camminare…

Poi il sorriso di Jean si incrinò, il suo sguardo si incupì, la sua aura si affievolì; la Fenice tornò ad affacciarsi nei suoi occhi con le fiamme dell’inferno.

Wolverine si rese conto che la Fenice stava per riprendere il sopravvento e sguainò nuovamente gli artigli, la gola serrata da un’afflizione ancor maggiore di prima: ad un passo dal riuscire a sconfiggere la Fenice senza uccidere Jean, avrebbe dovuto invece farlo…

Ma adesso Jean non era più disposta a lasciarsi sopraffare. Digrignò i denti e strinse i pugni. Non c’era tempo per Scott o per Xavier. Doveva lasciare la cosa incompiuta. Peccato. Ma…

Ricordò una cosa che Charles le aveva detto un attimo prima che la Fenice lo vaporizzasse.

“Non lascerò che il mio potere mi domini”, dichiarò in un ringhio feroce.

Ci fu un lampo accecante; lo spostamento d’aria fece rotolare Wolverine giù dal cumulo di detriti, ma subito l’uomo balzò di nuovo in piedi, indenne.

Jean giaceva a terra, priva di conoscenza. Il suo volto era pallido, ma pacifico.

La Fenice non c’era più.

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