//Occhi neri//

Riaprii gli occhi lentamente. Non ricordavo nulla di quello che era accaduto e non avevo la minima idea di dove mi trovassi. L'unica cosa di cui ero consapevole, era che mi sentivo tutte le ossa rotte. Una terribile sensazione di gelo mi paralizzava. Sollevai una palpebra, poi l'altra, anche se desiderai immediatamente di non averlo mai fatto. Ghiaccio. Ghiaccio ovunque, sulle pareti e sul pavimento liscio, persino sulle pesanti sbarre di ferro che si innalzavano a pochi centimetri da me, bloccandomi ogni via di fuga. Ero in trappola! In preda al panico, tentai disperatamente di levarmi in piedi, ma la pesante catena che mi bloccava le caviglie mi fece rovinare immediatamente al suolo.

«No!» singhiozzai, battendo furiosamente un pugno sul pavimento gelido. Dal palmo, già di per sé di un preoccupante color prugna, fuoriuscirono alcune gocce di sangue. «No! NO!»

Scoppiai a piangere senza più freno, nascondendomi il volto tra le ginocchia. Perché, perché mi stavano accadendo tutte quelle cose orribili? Che cosa avevo fatto di male? Volevo andare a casa, anche a costo di dover tradurre l'intero libro di versioni, qualunque cosa, purché quell'incubo finisse. Ma quello non era un incubo, era la realtà e io non potevo fare nulla per sfuggirle. Ero spacciata.

Ero lì, a rimuginare quei terribili pensieri, quando un improvviso trambusto mi fece sussultare dalla testa ai piedi. Qualcuno stava venendo verso di me. Sentii di nuovo la vocetta stridula del nano rimbombare nella penombra della prigione. Mi si rivoltò lo stomaco per la nausea. Mi ritrassi il più possibile contro la parete della cella, pregando con tutta l'anima che la creatura non fosse lì per me. Ma non era solo.

Il nano stava infatti trascinando in malo modo un ragazzo all'incirca della mia età, tenendogli la lama ricurva del suo pugnale puntata contro la sua schiena. Il ragazzino non batteva ciglio e non osava fare alcun tentativo di divincolarsi, paralizzato com'era dal freddo e dalla paura.

«Ecco la vostra stanza, maestà» lo canzonò il nano, tirandogli uno spintone che lo mandò lungo disteso sul pavimento gelido.

Il ragazzo crollò a terra senza un lamento, restando a osservare impotente quel demonio mentre gli immobilizzava le caviglie con una pesante catena simile alla mia.

«Spero solo che il principino non soffra troppo il freddo, quaggiù» sogghignò il nano una volta finito di armeggiare con quell'orribile ferraccio. «Alla mia padrona dispiacerebbe davvero tanto vederti morto non per mano sua». Detto questo, scoppiò in una risata orribile, allontanandosi con un'espressione di perversa soddisfazione a deformargli il volto già di per sé grottesco.

Dopo pochi attimi, nella prigione calò il silenzio più totale. Eravamo soli. Il ragazzo si tirò su a sedere goffamente e si rannicchiò sul pavimento, fissando il vuoto davanti a sé. Sembrava quasi sul punto di mettersi a piangere, ma qualcosa dentro di lui gli impediva di manifestare le proprie emozioni. Io mi spostai leggermente verso la grata, studiando il nuovo arrivato. La sua sagoma si distingueva appena in quella opprimente penombra bluastra. Aveva i capelli neri e spettinati e la pelle bianchissima, che appariva di un pallore spettrale in quella luce crepuscolare che regnava nella prigione. La mia mente galoppava. Era un umano. Uno come me. Forse era stato portato lì per il mio stesso motivo. Dovevo tentare. Del resto, che cosa avevo da perdere?

«Ehi!» lo chiamai piano.

Il ragazzo levò lo sguardo verso di me. La mia schiena fu percorsa da un brivido. Non avevo mai visto degli occhi così neri e profondi in vita mia, con quell'espressione allo stesso tempo potente e misteriosa che mi inchiodava lì dov'ero, incapace di sostenerla.

«Who are you?» mi chiese piano, con voce spaventata, ancora da bambino, che celava la sua vera età.

«Io... Mi chiamo Penelope Mantis» risposi io in inglese. «E tu?»

Il ragazzo abbassò lo sguardo, come se quella risposta gli provocasse una tremenda vergogna. «Sono Edmund» disse in tono quasi impercettibile.

«Edmund?» ripetei ad alta voce. Ma io quel nome lo avevo già sentito! «Il tuo nome non mi è nuovo!» aggiunsi subito. «Aspetta, non è che per caso sei fratello di qualcuno che conosco?»

Il ragazzo sembrò sussultare da capo a piedi, piantandomi di nuovo addosso quel suo sguardo incredibile. «Certo, sicuramente li avrai conosciuti, i miei bravi fratelli! E chi non li conosce?» sbottò improvvisamente. Sembrava completamente fuori di sé. «Certo che li conosci, loro, la perfezione assoluta, sempre primi in tutto, sempre quelli che hanno ragione, sempre quelli che si prendono il merito di tutto, mentre io sono trattato come lo zimbello della famiglia Pevensie! Loro mi odiano e io odio loro! Che cosa si aspettavano altrimenti da me? Mi hanno sempre trattato come un verme, trovano ogni volta qualcosa che non va in me, passano il tempo a prendermi in giro e a darmi dello stupido e tutto quello che dicono o fanno loro è sempre accompagnato da lode e approvazione, mentre io sembro non combinarne una giusta!»

«Lo so, ti capisco. È così anche per me» risposi io con naturalezza, quasi senza rendermene conto. «Io, per fortuna, ho solo un fratello più piccolo, ma ti posso assicurare che anche nella mia famiglia succede così. Anzi, vuoi proprio saperlo? Da me è anche peggio! Vedi, almeno i tuoi fratelli si ricordano che esisti, ogni tanto, mentre i miei genitori... beh, alle volte è come se non esistessi.»

Edmund mi fissò con interesse, aggrottando per qualche attimo le sopracciglia nere, poi disse una cosa che non mi sarei mai aspettata da uno come lui: «Beh, cosa vuoi che si aspettino da una femmina come te?»

«Oh!» Sì, ero decisamente offesa. «Ma che ne sai delle donne tu, mocciosetto?» lo provocai, rossa fin sopra le orecchie.

«Moccioso io?» rispose lui, profondamente risentito. «Guarda che ho già quattordici anni!»

«Ah, questa è bella! Ma se ho la tua stessa età e potrei essere benissimo tua madre!»

«Vecchia!»

«Mocciosetto!»

«Vi odio tutti, non fate a meno di comportarvi da carogne con me!»

«Se solo ti sforzassi di essere un po' più gentile con gli altri, forse non ti tratterebbero come un serpente a sonagli!»

«Che ne sai tu di come tratto gli altri?»

«Guarda che si vede!»

«Ma sta' zitta! Le persone mi giudicano prima ancora di conoscermi, credendo di sapere sempre quello che è meglio per me, ma non è così.»

Detto questo, Edmund mi voltò nuovamente le spalle, rannicchiandosi dalla parte opposta.

«È inutile» fu tutto quello che riuscii a udire, a metà strada fra un singhiozzo e un lamento.

Era chiuso, terribilmente chiuso e spaventato, ed era per questo che si comportava così. Lui non l'aveva ancora capito, ma io sapevo esattamente come si doveva sentire in quel momento. Uno schifo. Proprio come me. Se eravamo lì tutti e due, un motivo doveva pur esserci. Qualcosa che ci accumunava e che, in qualche modo, sarebbe stato il nostro punto di forza per uscire di lì.

«Perché sei qui?» gli domandai a un certo punto.

«Ho fatto una cosa brutta» mi rispose Edmund dopo un po', senza smettere di darmi le spalle.

«Non sei obbligato a parlarne» intervenni io, indovinando che stava per rimettersi a urlare. «Ma posso chiederti chi ti ha fatto fare una cosa del genere?» proseguii decisa.

Il ragazzo si voltò lentamente, fissandomi con un'espressione che tradiva sorpresa. «Lei» rispose dopo un po'.

«Lei?»

«La Strega Bianca» precisò Edmund, abbassando ancora di più la voce. «Mi ha ingannato. Mi aveva promesso di diventare forte e potente se solo le avessi portato i miei fratelli... Sono stati quei maledetti dolci che mi ha fatto mangiare, ne sono sicuro! Da quando ho messo in bocca il primo boccone, non ci ho visto più, era come se non fossi più padrone di me stesso.»

«È quello che ha fatto anche a me» dissi io. «Credo di cominciare a capire. Quella strega si diverte a giocare con i nostri sentimenti più controversi, le nostre paure e le nostre frustrazioni, usandole per farci cadere in suo potere.»

Edmund annuì. «Temo che tu abbia ragione, purtroppo» mormorò.

«Ma che cosa se ne farà di noi?»

Il ragazzo rabbrividì, quasi come se avesse intuito qualcosa di orribile che preferiva tenere per sé. «Non lo so» fu tutto quello che riuscì a bisbigliare.

«Dobbiamo trovare il modo di andarcene di qui» lo esortai io. «Ti devo riportare dalla tua sorellina Lucy. Sarà in pensiero! Spero solo che quella strega non arrivi prima di noi e provi a tentarla con quella stupida storia di Narnia....»

«Troppo tardi» mi interruppe Edmund, un'espressione di puro terrore dipinta nei suoi occhi neri. «È qui.»

«Come? Ha preso anche lei?»

«No. È qui. A Narnia. Ce l'ho portata io.»

Detto questo, il ragazzo si voltò ancora una volta, rannicchiandosi sul gelido pavimento ghiacciato. Le sue spalle erano come scosse da tremiti impercettibili. Stava piangendo.


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