A dip towards death and a new beginning
«Padre, ti prego basta!» pregai per l'ennesima volta, le lacrime che mi annebbiavano la vista e mi rigavano il volto mentre la frusta mi lacerava la carne della schiena, riaprendo le ferite recenti. Era sempre così, ogni giorno mio padre beveva e mi picchiava ininterrottamente tornando a casa, ormai quella per me era diventata una routine.
«Urli proprio come una femminuccia! E non chiamarmi padre! Tu non sei mio figlio!» disse continuando ad infierire sulla mia pelle «È colpa di quella puttana di tua madre se sei nato! Sarebbe stato meglio se non fossi mai esistito!» questo era ciò che mi ripeteva sempre. Poteva farmi quello che voleva ormai, non mi sarei opposto. Io ero davvero un errore, non sapevo neppure chi fosse il mio vero padre. Il mio patrigno mi aveva sempre odiato, quando arrivava a casa si sfogava sempre su di me e su mia madre. E le cose erano peggiorate da quando lei era morta. Una volta mi ha persino stuprato, e non è stata nemmeno una delle cose peggiori che ha fatto. Sarebbe stato meglio per tutti e due se non fossi esistito. Mia madre non si sarebbe suicidata e vivrebbe felice con l'uomo che ha sposato e io non sarei costretto a vivere con lui da ormai 18 anni.
Un'ultima frustata e cadde svenuto sul divano, profondamente addormentato a causa dell'alcol, con ancora la frusta in mano macchiata di sangue. La schiena mi bruciava come se sulle ferite ci avessero sparso di nuovo del sale, il sangue colava lento e inesorabile sul pavimento che la sera prima aveva pulito dallo stesso. Scrutai il volto di mio padre, la barba incolta e l'aspetto sciatto di un alcolista, la faccia sporca che formava un cipiglio arrabbiato anche nel sonno. La casa era ormai impregnata dell'odore di alcol, dubitavo che le pareti potessero tornare all'odore che avevano in origine, quello del legno appena tagliato, che una volta mi dava un senso di tranquillità.
Scappai.
Non volevo più essere frustato ogni sera, picchiato e stuprato.
Non volevo più essere una delusione.
Non volevo più vedere il volto del mio patrigno.
Non volevo più dover pulire il mio sangue dal pavimento.
Non volevo più vivere.
Uscii di casa e corsi, corsi attraverso una piccola foresta, corsi ed arrivai in cima ad una scogliera. Ci venivo spesso dopo scuola, osservavo le onde infrangersi nella roccia di quel pezzo di nuova Zelanda, seduto con i piedi che penzolavano nel vuoto, sentendo la brezza marina sulla faccia, che mi scompigliava i capelli. La sabbia era fredda sotto i miei piedi nudi, il mare si agitava sotto di me. Allargai le braccia e chiusi gli occhi, inspirando per l'ultima volta l'odore di salsedine. Mi buttai. Caddi nel vuoto, se non fossi morto nell'impatto mi sarei lasciato annegare da quell'elemento da cui ero sempre stato affascinato. Tenevo gli occhi chiusi, nonostante tutto avevo paura della morte. Sentii l'impatto della mia pelle contro le onde e in un attimo mi ritrovai sommerso, tutti i rumori attutiti, solo acqua. Percepii qualcosa, che sembrava la corrente marina, solo più dolce, accarezzarmi la guancia. Come d'istinto aprii gli occhi e mi trovai davanti una giovane donna, ornata di conchiglie e con i vestiti che le svolazzavano intorno. Ed era fatta d'acqua. Dallo stupore trattenni il fiato involontariamente, e mi accorsi di poter respirare. Vedevo benissimo quello che avevo intorno, non come se fosse all'interno di una cataratta, come di solito appare quando si aprono gli occhi sott'acqua. Mi ricordai di una delle lezioni sulla mitologia greca che ci avevano insegnato a scuola, sui vari tipi di ninfa. Poi un nome. «S...sei una Naiade?» chiedi titubante, scoprendo che riuscivo a parlare senza difficoltà. Questa mi sorrise, poi mi prese la mano e iniziò a nuotare trascinandoli con sé. «Dove mi stai portando?» sembrava che, anziché nuotare, venisse spinta dal mare, lei era la corrente stessa. «Lo vedrai» la sua voce era dolce e misteriosa e risuonava direttamente nella mia testa, con un lieve eco. Nuotammo attraverso la barriera corallina, banchi di pesci ci passavano affianco, le tartarughe ci affiancavano. Tutto era un tripudio di colori, dal verde acqua al rosso acceso, il rosa degli anemoni e l'arancione dei pesci pagliaccio. Giungemmo ad una distesa di alghe, così alte che sembravano alberi. Non percepiva più il freddo dell'acqua. Appena la Naiade si avvicinò ad esse, le alghe si piegarono e formarono un passaggio. Mi trovai davanti uno spettacolo mozzafiato. A qualche centinaio di metri di distanza si erigeva un palazzo di madreperla, con torri a forma di conchiglia, i giardini pieni di coralli. Era così immenso che sembrava arrivasse fino in superficie. Intorno nuotavano decine, forse centinaia di tritoni e sirene, pesci di ogni specie possibile e squali di tutte le misure. In una costruzione poco distante dal palazzo di alzava un fumo vulcanico. La Naiade mi condusse verso il portone principale, facendolo attraversare un viale ricoperto di perle come se fossero sampietrini, che divideva i giardini a metà. Quando fummo davanti al palazzo, le ante si spalancarono ed entrammo in una vasta sala, anch'essa di madreperla, al cui fondo c'era un trono d'oro, incastonato di conchiglie rare. La Naiade scomparì e mi ritrovai ad avanzare da solo al centro della sala. Sul trono si trovava un uomo che a prima vista sembrava avere circa quarant'anni, era vestito con una camicia hawaiana e dai pantaloni da pescatore, aveva il viso segnato dalle intemperie. Aveva i miei stessi occhi, lo stesso colore di capelli, nero come le profondità marine. L'uomo si alzò e si diresse verso di me, accennando un sorriso cordiale. «Ciao Alexander» mi salutò. Aveva una voce profonda, ma per niente minacciosa. Mi chiesi come potesse conoscere il mio nome, ma non era l'unica cosa strana capitata quel giorno. Poteva anche tutto essere un'allucinazione causata dalla mancanza di aria, ma era piuttosto improbabile: non avevo mai visto luogo più bello, non pensavo di riuscire ad immaginare una tale meraviglia, non avendo visto altro che baracche di legno con il tetto di fronde. Probabilmente intuendo i miei dubbi, l'uomo continuò a parlare. «Sono Poseidone, dio del Mare. E sono tuo padre» fui investito da questa notizia come se fosse un camion in corsa. Non gli era difficile credere che quell'uomo fosse suo padre, si somigliavano parecchio, ma che sua madre avesse avuto una storia con il dio del mare, e che codesto dio greco esistesse, non era molto facile da credere. «Non preoccuparti, ti spiegherò tutto. Vedrai che ti sarà più chiaro» promise il dio.
E così fu. Mi spiegò dell'esistenza degli dèi greci, di come avesse conosciuto mia madre, appena prima che si sposasse, di come non era potuto intervenire quando il mio patrigno mi picchiava. Mi disse che quello era il suo palazzo e che la Naiade che l'aveva portato lì era al servizio di sua moglie, la Nereide Anfitrite. A quanto pare ero un semidio, e come tele avevo alcuni dei poteri di mio padre. Mi aveva salvato perché gli dispiaceva di non aver potuto essere presente e impedire tutto ciò che gli era successo. Faticavo ancora a credere a tutto quello, ma era comunque meglio di ciò che mi ero lasciato alle spalle. Suo padre, finita la spiegazione, che aveva fatto con il tono più dolce possibile, parlando piano e dandomi il tempo di assorbire il significato di quelle parole, mi propose di difendere quel luogo. Disse che c'erano molti mostri marini che attaccavano il palazzo, che gli serviva qualcuno che li uccidesse. Se avesse accettato sarei diventato immortale e avrei potuto vivere nel palazzo.
«Che ne dici, figliolo?» non mi avevano mai chiamato così. Era la mia occasione di avere finalmente una normale famiglia (si fa per dire), avrei potuto vivere senza dovermi preoccupare di tornare a casa tardi e di essere punito. Accettai.
Sentì un lieve pizzicorio alla pelle, quando usò i suoi poteri per rendermi immortale. Mi spiegò che ero immortale, ma potevo comunque morire in battaglia, non ero invincibile e mi andava bene così.
Schioccò le dita e la corrente gli portò una conchiglia piatta, che nelle sue mani si trasformò in un bellissimo arco. Avevo sempre avuto una certa dimestichezza con l'arco, fin da quando a scuola non avevano fatto i corsi durante le ore di educazione fisica. Ero il miglior arciere della mia classe, avevo continuato a fare tiro con l'arco all'insaputa di mio padre. «Questo arco è un oggetto magico forgiato dai ciclopi, nelle fucine vicino al palazzo. Non hai bisogno di frecce, ti basta tendere la corda e compariranno.» detto questo l'arco si ritrasformò in una collana e me la mise al collo. «Benvenuto a casa, figliolo».
E da allora vissi lì, proteggendo il palazzo dai mostri, al servizio di mio padre e della mia matrigna, che fu sempre gentile con me.
Da quel momento divenni Alexander Lightwood, semidio figlio di Poseidone, difensore del popolo marino. Mentre in superficie mi credevano morto, nelle profondità marine combattevo insieme ai miei fratellastri, Isabelle e Jace, tritoni figli di mio padre e di Anfitrite. Non sono un errore. Ho finalmente una famiglia.
*Angolo della...cosa cososa cosante che cosa (?)*
Ciao popolo di wattpad! Ho deciso di scrivere una nuova storia! (Come avrete ormai notato) la scrivo in collaborazione con @LoveMalec2005 che mi ha scritto un commento su man on tree chiedendomi di scriverla. (Se non l'avete letta per favore fateci un salto). Spero vi sia piaciuta, mi raccomando commentate e fatemi sapere se è di vostro gradimento.
Detto questo...ciaoh (Perché la h è fab)
Graziepregociao
*Diventa un piccione viola e vola via*
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