CAPITOLO 71- IL CAPO VILLAGGIO

Ador giaceva per terra sul tappeto di erba verde smeraldo che ricopriva il suolo del Tempio. I suoi occhi privi di vita parevano fissare il cono di luce che proveniva dall'apertura nel tetto.

Gabor glieli chiuse definitivamente, passandogli una mano sulle palpebre.

Aveva assassinato suo padre.

Il silenzio era opprimente.

Aveva compiuto il suo gesto senza esitazione e ora il suo corpo era percorso da un violento tremore. Provava rimorso misto a un insopportabile senso di liberazione.

Naya lo raggiunse e lo abbracciò.

«Mi dispiace tanto» disse lei.

«Stai bene?» chiese lui, con un filo di voce.

La sua prima reazione fu assicurarsi dell'incolumità della sua amica, senza rendersi conto di essere lui quello che aveva realmente bisogno di aiuto.

«Grazie a te» rispose quella, per nulla sorpresa dalla sua premura.

«Sono un abominio» commentò con lo sguardo perso nel vuoto, portandosi le mani sul viso, per cancellare l'immagine del sangue versato. Lei scrollò il capo, incapace di trovare le parole giuste per consolarlo. «Ho già ucciso, ma mai a sangue freddo. Solo in battaglia ed è così diverso, Naya».

«La tua vita era in pericolo».

«Non c'è giustificazione per ciò che ho fatto» disse scostandosi, in cerca dello spazio vitale per respirare.

Il sangue era ormai un marchio sulla sua coscienza.

«Nessuno ti giudicherà, solo tu puoi conoscere appieno la ragione che ti ha portato a questo» gli disse, cercando di cogliere il suo sguardo. «Hai liberato la Contea e ora insieme possiamo fare altrettanto per il resto del Regno».

Voleva dargli uno scopo, veder brillare un barlume di speranza.

Gabor si guardò attorno, il suo sguardo vagò fino alla larga pozza cremisi in cui giacevano i suoi fratelli.

«Devi farlo per loro» lo incalzò.

«Due stupidi» disse amaro, ricacciando le lacrime che iniziavano a pizzicargli gli occhi.

«Hanno peccato di ingenuità, hanno sperato che tuo padre fosse degno di voi, ma non lo era. Non lo è mai stato. Ora la loro morte non deve essere vana. Dobbiamo continuare ciò che abbiamo iniziato per onorare la memoria di ogni uomo e ogni donna caduta dall'inizio di questa guerra. Abbiamo bisogno di alleati e li troveremo solo uscendo da qui. Questo è il tuo nuovo inizio».

«Ti chiedo il permesso di rimanere nella Contea per addestrare delle truppe da mettere al tuo servizio, mia Regina» disse abbassando il capo in segno di rispetto.

Il tono che aveva usato stonava così tanto con il suo stato d'animo. Cercava di mostrarsi uomo, ma in quel momento lei vedeva solo la fragilità di un ragazzino cresciuto troppo in fretta. Voleva rendersi utile, per alleviare quel peso che non avrebbe dovuto appartenergli.

«Naya, solo Naya».

«Mi batterò con Nemiah per riacquistare la mia libertà se necessario. Non voglio più essere una sua pedina in eterno, posso fare di più».

Faceva ancora parte del branco, avrebbe dovuto scontrarsi in combattimento con il suo alfa per riprendere in mano il suo destino, ma non c'era ombra di dubbio che l'altro avrebbe avuto la meglio su di lui.

«A lui ci penso io» rispose lei. Troppo sangue era stato versato, nessuno avrebbe toccato Gabor, lo avrebbe aiutato a trovare la sua strada. «Vieni, usciamo da qui».

La ragazza lo aiuto ad alzarsi e lo scortò fuori, prendendolo per mano con fare materno, mentre lui dava un'ultima occhiata ai corpi dei suoi fratelli. Si incamminò a testa bassa verso l'uscita. Fu la ragazza a chiudere la cancellata a chiave per evitare che qualcuno entrasse. Avrebbe chiesto a Nemiah di occuparsi di loro e di aiutarla a ripulire quel disastro.

Ador era morto in un giorno senza nuvole di inizio autunno. La speranza tanto agognata dal suo popolo era arrivata inaspettamente, ma le guardie avevano accerchiato la folla. Nessuno era riuscito ad abbandonare la piazza, nessuno sapeva che era l'inizio di una nuova era.

Gli occhi sorpresi di tutti i presenti si rivolsero verso di loro in cima alla scalinata. C'erano un ragazzino e una giovane donna, mano nella mano, sporchi di sangue, invece del loro capo villaggio.

Gabor rizzò le spalle, si schiarì la gola e prese immediatamente la parola. Naya non era certa che il popolo sapesse chi fosse quel ragazzino con un accenno di barba e il viso pieno di lentiggini, eppure lui reclamava molto naturalmente quel ruolo che apparteneva alla sua famiglia da secoli. Il suo volto era luminoso e la sua voce ferma.

«Avete il diritto di essere ascoltati, di essere visti, di essere liberi e di essere qualunque cosa voi vogliate» esordì sicuro di sé. La sua voce rimbombò, calamitando l'attenzione di tutti. «Da oggi tutto ciò è possibile, perché la Principessa Perduta è tornata a casa e Ador è morto».

Non l'avrebbe mai più chiamato padre.

Un lieve mormorio si levò, mentre lui faceva un passo indietro per lasciarle la scena. Naya lo guardò e il suo cuore si riempì di orgoglio, ma quando si rese conto che ogni paio d'occhi era rivolto verso di lei impallidì.

Non era la prima volta che si trovava davanti a tante persone, ma in quel momento era diverso. Era scossa per ciò che era accaduto alle sue spalle, era inquieta per la sorte di Zhris ed era soprattutto arrabbiata con Nemiah per aver coinvolto la piccola nel suo colpo di testa.

Sembravano tutti semplicemente grati della sua venuta, ogni sguardo esprimeva un tacito riconoscimento. Non parevano curiosi né in attesa di qualcosa. A loro bastava sapere che la Principessa Perduta non fosse una leggenda, ma una presenza tangibile, che aveva spazzato via il regno di Ador e dei suoi capricci.

Le radici di Naya appartenevano alla Contea. Sua madre doveva aver percorso tanti anni prima quel sentiero ciottolato per arrivare a quello spiazzo, con un desiderio nel cuore e una lanterna tra le mani pronta a spiccare il volo.

Ogni volto sconosciuto raccontava una storia che si intrecciava con la sua. Avvolta da un senso di calore e appartenenza, abbozzò un sorriso.

Iniziò a giocherellare con gli anelli dell'erede, nascosti al contrario nel palmo della sua mano, facendoli roteare su sé stessi con fare nervoso. Non erano mai stati così pesanti.

La folla si inginocchiò interamente, guardie comprese, in segno di rispetto. Doveva dire qualcosa, non sapeva cosa, ma le parole fluirono naturalmente quando intravide Zhris in fondo alla piazza. La bimba era l'unica in piedi in mezzo a quella massa di gente.

«Il futuro della Contea è finalmente nostro. Ascolteremo ogni voce, ricostruiremo ciò che è stato distrutto e ci riprenderemo ciò che ci è stato tolto. Alzatevi, ve ne prego. Voi siete la mia gente, voglio vedervi».

Dopo un attimo di esitazione e qualche sguardo furtivo, uno a uno i presenti si alzarono in piedi.

Quelle parole così semplici e sincere avevano riempito la piazza, facendola finalmente pulsare di vita dopo tanto tempo.

Gabor porse la mano a Naya e la scortò in fondo alla scalinata, mentre la folla si apriva per lasciarla passare. Per un attimo le parve di scorgere gli occhi di Nemiah, ma quando si alzò sulla punta dei piedi per accertarsi che fosse lui non lo vide.

Incrociò di nuovo Zhris scendendo il sentiero che portava al borgo, era in piedi sopra un muretto, stringeva ciò che restava della mano della sorella ritrovata e le regalò un grande sorriso. Era troppo lontana per raggiungerla, ma quell'espressione vittoriosa significava che si sarebbero presto incamminate verso casa.

La dimora del capo villaggio era un'enorme e rustica costruzione su tre piani. Il suo fulcro era un'altissima torretta di mattoni rossi dal tetto a punta, sui cui due lati si prolungavano simmetricamente due corpi secondari gialli, costellati di un'infinità di finestrelle di ogni forma e dimensione.

Il ragazzino la invitò a attraversare l'enorme cortile antistante e a entrare. Si chiuse la porta alle spalle e fece scattare un grande chiavistello, lasciando il caos all'esterno.

Si trovavano in una tavernetta dalla lunga tavolata e panche in legno massiccio. Le pareti dell'ambiente, tappezzate di misteriosi stendardi impolverati, erano adornate da raccapriccianti trofei di caccia. Quegli animali impagliati parevano sorvegliarli. Sul grande camino spento troneggiava un insieme di armi da taglio appese con cura.

«Dovresti riposare» disse lei poggiandogli una mano sulla spalla.

«È fuori discussione. Devo occuparmi di Eor e Dayan».

«Ci penseremo io e Nemiah, non sei costretto a fartene carico».

Non aveva la più pallida idea di dove fosse, ma sapeva che presto o tardi sarebbe ricomparso.

«Cosa è successo a Nemiah?» chiese serio, crollando su una panca. «Sono venuto, perché ho sentito che qualcosa non andava, una specie di sesto senso. Abbiamo provato a seguire le vostre tracce, ma avete fatto una deviazione incomprensibile e...».

«Sei arrivato in tempo, è tutto ciò che conta» disse lei, prendendo posto accanto. «Nemiah due giorni fa ha perso la sua pietra di luna e da allora è molto instabile».

Ne seguì un breve silenzio, Gabor pareva riflettere. Era difficile immaginarsi il suo alfa più imprevedibile e lunatico del solito.

«Potrei dargli la mia».

«Non te lo chiederei mai».

«Non me lo stai chiedendo».

«È la tua sorgente di equilibrio, l'influenza della luna piena sarebbe troppo forte».

«Rimarrò qui dove non sorgerà nessuna luna».

«Lui sente la bestia lo stesso, l'istinto rischia di avere la meglio».

Quello scrollò il capo, cercando di scacciare via un pensiero disturbante che gli aveva attraversato la mente. Si passò una mano tra i capelli.

«Naya» esordì con un tono tipico da ramanzina, che non gli si addiceva. «Nemiah è bravo a mentire, sei sicura che non sia una bugia per tenerti legata a sé?».

«No» disse lei, scioccata da quell'idea.

Gabor si tolse la cordicella con la pietra di luna, si alzò e iniziò a camminare per quella stanza in cui aveva mosso i suoi primi passi da bambino, per schiarirsi le idee.

La giovane fece altrettanto, seguendolo con sguardo inquieto.

«Custodisci la mia pietra, voglio vedere l'effetto che fa separarsene» disse porgendogliela.

«Tu vuoi essere certo che non mi stia manipolando» reagì lei, respingendo la sua mano. «Capisco che tu voglia proteggermi, te ne sono grata, ma non c'è tempo. Devo partire al più presto. La pietra del Tempio non esiste, devo trovare un altro modo per salvare Nemiah e Hektrien».

«Potresti iniziare prendendo la mia pietra».

«Il nuovo capo villaggio deve essere serio e affidabile, non posso correre il rischio di privarti del tuo ciondolo» disse lei, mentre le pupille del ragazzo si allargavano per la sorpresa. «Ti chiedo ufficialmente di guidare questa comunità».

Gabor si inginocchiò imbarazzato, era arrossito fino alla punta delle orecchie. Lei divertita da quella reazione fece altrettanto per guardarlo dritto negli occhi. Nonostante la giovane età, era sicura che sarebbe stato all'altezza di quel ruolo. Era calmo e assennato.

«Basta inchini, siamo amici da sempre».

«Allora da amico ti chiedo di prendere questo ciondolo. Non lo faccio per lui, lo faccio per te, voglio essere certo che sei al sicuro».

«Hektrien e Fidian posseggono altre due pietre di luna. Ne recupererò una».

«La luna piena è tra tre giorni».

«Abbiamo un piano. Faremo tappa al vecchio castello della mia famiglia e rinchiuderò Nemiah dentro a una delle celle che possono contenere la magia».

«Che storia è questa?».

«Un'ala delle segrete ha delle celle stregate» disse lei. «Gabor, ho visto il panico, la disperazione e la follia negli occhi di Nemiah. So che è sincero. Fidati di me».

Quello annuì svogliatamente, ma la sua mente cercava ancora una soluzione.

«Hektrien ha lasciato il campo base la settimana scorsa e Fidian non è mai tornato, non sarà così semplice ritrovarli. Potrebbero essere ovunque».

«Ascolta, farò un passo alla volta. Prima raggiungeremo il castello, poi il campo base e a quel punto penserò al da farsi».

«Aspetta tre giorni, lascia passare la luna piena».

Quella scrollò il capo, nonostante la sua proposta avesse senso. Si alzò in piedi, guardolo dall'alto in basso.

«Nemiah è fragile. Temo che luna piena o meno tra tre giorni faccia qualche sciocchezza. Devo portarlo lontano da qui, per evitare che faccia inavvertitamente del male a qualcuno».

«E se facesse del male a te? Ti metti in pericolo stupidamente» reagì alzandosi di scatto.

«Devo proteggere la Contea e Nemiah da sé stesso. Non può affrontare tutto questo da solo e poi devo trovare un'altra soluzione per aggirare la maledizione».

Naya si rese conto del peso che portava sulle spalle. La Contea era libera, ma restava così tanto da fare.

«Quella pietra esiste. C'è un archivio immenso in questa casa, possiamo cercare lì dentro delle risposte. Non tutte le guerre si vincono sui campi di battaglia. Resta con me, controlleremo ogni volume e ogni pergamena».

Aveva preso la buona decisione, Gabor sarebbe stato un capo villaggio perfetto.

«Lui vorrebbe che tu fossi al sicuro e lascerebbe la guerra ai soldati» disse l'amico, spegnendo il suo sorriso. «Io e te possiamo contribuire alla causa in modo diverso».

Non era necessario chiedere a chi si riferisse.

«Lui vuole che io sia libera» rispose fredda.

«Una settimana fa è venuto a salutarmi prima di mettersi in viaggio e mi ha chiesto per l'ennesima volta di vegliare su di te. Sai quanto mi disgustasse l'idea di tornare qui, ma metterla da parte era la cosa giusta».

Io veglio su di te sempre, indipendentemente dalla distanza che ci separa.

Naya si alzò in piedi e si allontanò. Raggiunse la finestra e iniziò a vagare con lo sguardo in cerca di una distrazione, ma la corte era deserta. Era davvero un argomento che non voleva affrontare. Si ricordava l'esatto momento in cui Hektrien aveva pronunciato quella frase e al senso di pace che aveva provato. Sembrava trascorsa un'eternità.

Gabor le arrivò alle spalle.

«La vita è fatta di scelte giuste e di scelte sbagliate. Le tue ti hanno portata qui, ma possono portarti altrove se davvero lo vuoi».

«Parli come zia Emma» disse lei leggermente scocciata.

«Hai paura di Nemiah e parli di lui come di un cucciolo da salvare, non come dell'amore della tua vita».

«Gabor sei così giovane, credi davvero di sapere cos'è l'amore?» chiese lei, senza la volontà di offenderlo. «Io non lo so, ma seguo le sensazioni e credo che questo tra me e Nemiah sia solo l'ennesimo momento critico da sormontare».

«Non so cos'è l'amore» confermò lui. «Però ho vissuto per anni con qualcuno di pericoloso e ossessivo, so cosa subiva mia madre e so riconoscere una donna che non si sente al sicuro».

«Stai veramente esagerando».

«A volte le sensazioni possono ingannare e la voglia di fare del bene può oscurare la ragione. Ci sono passato anche io. Ho tentato di diventare un ribelle, sono diventato un licantropo e ora sogno la vita di prima, accanto a qualcuno con cui la quotidianità non sia una guerra continua o un susseguirsi di incomprensioni» disse lui scandendo ogni parola. «Ti senti libera al suo fianco?».

Quelle parole le penetrarono nel cuore. La risposta era negativa, non poteva fare e dire nulla senza la paura di una sua reazione. Era come maneggiare una bomba a orologeria ed era così difficile ammetterlo.

Prima che potesse rispondere si udirono delle urla e le campane del villaggio iniziarono a suonare. I due corsero fuori, attraversando la corte e si unirono alla folla in preda al panico che riempiva le strade del borgo basso. Guardarono verso la cima del monte e videro una colonna di fumo toccare il cielo, molto più alta della precedente.

«Il Tempio brucia» urlò una donna, cadendo in ginocchio.

«Sei piena di buoni intenzioni, ma forse sarebbe il caso di rimettere in dubbio ogni tua certezza. A volte l'amore non è sufficiente» disse il ragazzo all'amica.

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