CAPITOLO 63 - AVENDAL

Nulla, non vi era nulla.

Si alzò. Vagò con lo sguardo e vide un lungo tavolo, ricoperto da un vecchio drappo impolverato colore cremisi, attorno al quale si trovavano decine e decine di sedie vuote, disposte in modo ordinato, dove nessuno si sarebbe mai più seduto.

Vi erano piatti e calici di legno rovesciati e larghe macchie di vino rosso rappreso sul pavimento di pietra bianca.

Naya non si era accorta di essersi avvicinata così tanto. Si chinò per toccarle con la punta delle dita.

Sangue.

Indietreggiando spaventata illuminò la parete davanti a sé.

Sul muro troneggiava un grande arazzo, dall'intricata tessitura, che aveva incredibilmente resistito al passare del tempo. Era incorniciato ai lati da due maestose colonne di granito pallido, decorate da fitte incisioni ed era avvolto da un'aurea di mistero.

Rappresentava tutto ciò che in quel momento cercava, una parte della sua storia, la sua famiglia.

Il Sovrano, vestito con una lunga tunica verde dalle maniche ampie e i ricami color porpora, con la sua lunga barba d'argento e il suo sguardo gentile, era certamente la figura dominante, pilastro portante della famiglia e del Regno intero. Pareva scrutarla incuriosito.

Alla sua sinistra c'erano la Regina Nerey e la Principessa Nekziria, avvolte in lunghi abiti dalle sfumature azzurre. Avevano entrambe fisici statutari e un'eleganza innata. Portavano i lunghi capelli biondi, acconciati in complesse trecce e adornati da tiare splendenti. Sua sorella con il suo viso luminoso dai lineamenti delicati e i grandi occhi blu che brillavano di dolcezza era così graziosa da sembrare irreale.

Un passo avanti a loro c'erano le sorelle Elyczia e Adelya con le mani conserte sul ventre e un sorriso appena accennato, poi il suo fratellino Keder, aggrappato al vestito della madre.

Alla destra del Re stava il Principe Tadeker, l'erede al Trono, vestito di scuro. Il suo sguardo era diverso dagli altri, perso nel vuoto. Un velo di tristezza offuscava le sue iridi verdi. Era come se l'autore di quell'opera avesse colto la sua vera essenza, perché, nonostante i ricami scintillanti, appariva come un'ombra solitaria in una stanza piena di luce.

Era fuori luogo, proprio come lei, in basso al centro, l'unica dai capelli rossi e lo sguardo vivace, una fiamma ardente in mezzo a colori morbidi e portamenti calibrati, una nota stonata in quell'armonia perfetta.

Fece qualche passo per osservarli meglio. Sotto l'opera c'era una scritta incomprensibile dai caratteri distorti. Naya vi passo sopra l'indice, seguendone i contorni. Era stata tracciata con il sangue. Ancora sangue.

«Avendal» sussurrò.

Ecco cosa pareva esserci scritto.

Indietreggiò stordita e solo allora si rese conto di ciò che aveva davanti agli occhi. Ogni volto rappresentato in quell'arazzo in quel preciso istante mostrava qualcosa che un secondo prima era assente. Misteriose mani avevano conficcato con violenza delle spade nel tessuto, squarciandolo e deformando le espressioni dei soggetti ritratti. Ogni bocca pareva piegata in un urlo eterno ed ogni paio d'occhi era stato privato della vista e della speranza da quel gesto barbaro.

Cadde a terra in preda al panico, strisciando all'indietro sui gomiti sul pavimento umido, incapace di distogliere lo sguardo da quel manifesto di disperazione.

Senza accorgersene iniziò a ripetere quella parola misteriosa e a poco a poco si calmò, il suo respiro si fece più regolare e si mise seduta a osservarli. Era incapace di lasciarli andare.

Non si accorse che Nemiah, arrivato alle sue spalle, senza fare rumore, aveva preso posto, a gambe incrociate, al suo fianco. Aveva resistito all'impulso di rimproverarla ed era rimasto qualche secondo in silenzio a contemplare l'arazzo insieme a lei. Quando finalmente si decise a poggiare una mano sulla sua spalla, lei si rese conto della sua presenza, ma non mosse un muscolo. Aveva visto abbastanza orrori, ci voleva ormai ben altro per scuoterla.

«Avendal cosa significa?» chiese quella, voltando leggermente il capo verso di lui. «Sotto l'arazzo c'è scritto avendal» insistette.

Non riusciva a scrollarsi di dosso una brutta sensazione.

«Vendetta. È shindy».

Calò il silenzio, mentre il suo cuore iniziava a battere più forte, di fronte a quel deliberato atto di disprezzo.

«Perché?» chiese stranita.

Non riusciva a spiegarsi perché mai gli shindy avessero compiuto quello sfregio alla memoria della famiglia reale, intrappolandola in un ciclo di sofferenza senza fine.

«Il Sovrano ci tollerava» iniziò lui in tono grave, a disagio, faticando a trovare le parole giuste. «La stabilità del Regno veniva prima di tutto e noi, con il nostro modo di essere e di affrontare la vita, eravamo una sorta di anomalia. I suoi alleati non ci vedevano di buon occhio, eravamo troppo liberi e scapestrati. Alcune leggende raccontavano addirittura che alcuni di noi avessero poteri magici e che fossimo capaci di piegare gli elementi al nostro volere. Davvero incredibile, vero?» aggiunse con l'accenno di un sorriso per sdrammatizzare.

«Assurdo» reagì lei con una punta di finto scetticismo. «Ce ne sono altri come te?».

«Sempre meno e sono pochi quelli che osano mostrarsi per ciò che sono veramente. Sono sicuramente più assennati di me» rispose, creando una sfera di fuoco e iniziando a giocarci. «La Regina invece era curiosa, amava la nostra spontaneità e le nostre strambe tradizioni. Si vociferava fosse lei stessa capace di cose inspiegabili, proprio come te» continuò, stringendole una mano. «Credeva fermamente che ci potesse essere un'altra via e che i due mondi potessero convivere, ma la sua bontà non era sufficiente. Le segrete del Castello erano piene della mia gente, forse molti ignoravano cosa accadeva lì sotto, ma chi aveva il potere di cambiare le cose non mosse un dito. Un'ala speciale dei sotterranei era dedicata proprio a noi. Le sbarre di quelle celle erano stregate, erano state forgiate per resistere a qualunque incantesimo avessimo tentato di lanciare. Il potere ha sempre avuto la precedenza su tutto, a scapito della nostra identità e della nostra dignità. Il giorno in cui gli shindy furono liberati, frustrati, arrabbiati, desiderosi di riappropriarsi della loro vita, si lasciarono sicuramente andare a gesti imperdonabili come questo».

«Io credevo che il Re fosse buono» iniziò lei, con voce tremante.

L'idea che suo padre potesse essere responsabile di qualcosa di ingiusto era inaccettabile. Zia Emma lo aveva descritto come un uomo virtuoso, ma forse la realtà era più complicata di quanto potesse apparire. Non trovava alcun appiglio in quella storia, per salvare la sua memoria, doveva mettere in discussione quel poco che credeva di sapere.

«Lo chiamavano il saggio Re e mai un nome fu più azzeccato. Era saggio, ma non era giusto. Doveva mostrarsi inattaccabile e ha agito di conseguenza, quando si governa le scelte difficili sono inevitabili e lui ne ha fatte sicuramente di stupide, ma necessarie per la sopravvivenza del suo Regno» disse quello. Il suo pensiero era incredibilmente logico e pragmatico. «Lo rispetto, nonostante la mia gente ne abbia pagato le conseguenze. Io stesso in passato ho fatto cose ingiuste per garantire la sopravvivenza dei miei. A volte un sacrificio è necessario».

«Perché volete proprio me sul Trono? Perché non scegliere direttamente uno shindy? Mio padre ha ignorato la vostra sofferenza, ha chiuso gli occhi per convenienza. Perché dare fiducia a sua discendente?».

«Perché sei figlia di tua madre, la sola persona al mondo che ci ha regalato una speranza. Perché tu, come lei, sei convinta che l'ingiustizia non sia mai giustificabile» disse stringendole ancora di più la mano. «Naya, vogliamo riscrivere e ricostruire, vogliamo semplicemente essere riconosciuti ufficialmente. Reclamiamo il diritto di esistere. Ascoltami, io non sono d'accordo con questo scempio. Non credo che la vendetta possa portare a qualcosa di buono. Insieme possiamo cambiare le cose, possiamo rompere il ciclo di violenza».

L'unione tra l'erede al Trono e il capo della ribellione, coincidenza o ennesimo inganno?

Quella voce cercava di installarle il dubbio.

«Vuoi diventare Re?».

«Mi stai chiedendo di sposarti?» chiese lui, ammiccando.

«Sai cosa voglio dire» rispose lei.

«Vuoi che te lo chieda io?» si corresse, alzando un sopracciglio.

«Voglio che tu mi dica se anche solo per un momento hai pensato che la nostra unione fosse necessaria per il bene comune».

«Cosa stai insinuando?».

Naya non rispose e lui si fece pensieroso. Iniziò a giocare nervosamente con il suo ciondolo, poi si alzò in piedi e si diresse all'arazzo. Estrasse una a una le spade conficcate nel tessuto, facendole cadere fragorosamente a terra. Un eco sinistro riempì la grande stanza, mentre una scintilla di speranza si accendeva nel petto della Principessa. Non poteva pensare che stesse mentendo o tramando qualcosa di oscuro. Fissò l'arazzo, ogni brandello di stoffa sarebbe potuto essere riparato, ogni ferita rimarginata.

La ragazza si alzò e lo raggiunse, gli prese la mano e la strinse forte.

Quanto sei ingenua.

«Sono un egoista, ti voglio perché mi fai stare bene. Un tempo il mio posto sarebbe stato in quelle celle nei sotterranei, ma grazie a te posso avere diritto di esistere e di scegliere. E io scelgo te, perché ti amo da sempre, da quando eri una bambina presuntuosa e sgraziata che amava fare piroette tutto il giorno. Forse allora avrei potuto convincerti a scappare con me, imbarcarti su una nave e diventare un pirata. Avremmo attraversato mari in tempesta per trovare tesori e....» disse tutto d'un fiato, strappandole un sorriso. «Non importa più, perché ora siamo qui, con il peso del mondo sulle spalle, ma siamo insieme e tutto è possibile, perché sei il mio pezzetto di cielo».

«Presuntuosa e sgraziata».

«E ti mancavano due denti davanti, davvero irresistibile».

«È veramente una dichiarazione d'amore orribile».

«Perchè sto improvvisando» reagì, grattandosi la nuca. «Un giorno però potrei stupirti, ti chiederò di essere mia per sempre quando meno te lo aspetti, nel modo perfetto. Non ti deluderò. Sarà memorabile».

«Ci conto» disse lei divertita.

«E se te lo chiedessi adesso?» chiese, spiazzandola.

«In questo posto diroccato che sa di muffa?» chiese lei ironica, cercando di nascondere l'imbarazzo.

«Sotto lo sguardo di tuo padre» rispose serio.

Naya si irrigidì e Nemiah sorrise, scrutando la sua espressione, per capire il suo stato d'animo.

In quel momento non c'era nulla che lei volesse di più al mondo.

Te ne pentirai.

Una corrente d'aria attraversò la stanza, seguita da un sinistro scricchiolio che ruppe l'incanto. Delle travi cedettero e un enorme lampadario in ferro battuto si staccò dal soffitto, schiantandosi al suolo. Si alzò un gran polverone e decine decine di vecchie candele di cera furono proiettate in giro.

Lo schivarono per un soffio.

«Andiamocene» la incitò lui, afferrandole la mano.

La ragazza non se lo fece ripetere due volte e lo seguì meccanicamente verso il corridoio d'uscita, ma sopraffatta da una inspiegabile angoscia si voltò. In fondo alla sala una sagoma spaventosa emerse lentamente dalla pozza d'acqua color inchiostro.

Il volto, dai contorni indefiniti che si confondevano con l'oscurità, era incorniciato da lunghe ciocche grigie e solcato da rughe profonde. Un sorriso, simile a una smorfia, si allargava progressivamente in quell'ovale dalla sfumatura verdastra.

La stanza fu avvolta da una nebbia pesante e tutto si fece ancora più buio, mentre un paio d'occhi dell'iride bianca, privi di pupilla, la scrutavano intensamente, intrappolandola in una morsa invisibile.

Un singolare torpore calò sulla ragazza.

La misteriosa figura sembrò innalzarsi sempre più in alto, verso il soffitto squarciato. Fluttuando nell'aria, levò una mano con il palmo aperto verso di lei, emettendo un vortice di luce accecante, che la costrinse a proteggersi gli occhi, alzando un braccio sulla fronte.

Il paesaggio era distorto, ma era ormai pieno giorno e Tata Odile stava in piedi su un'alta collina, poggiandosi a un lungo bastone e la guardava senza dire una parola.

«Cosa vuoi?» gridò la ragazza.

Farti un regalo, la consapevolezza. Una sbirciata nel futuro.

Una luna d'argento spuntata alle sue spalle oscurò quel misterioso sole nato dal suo palmo, fino a inghiottirlo.

Naya scostò il braccio per guardare meglio e si accorse di avere qualcosa di appiccicoso sulla guancia. Si guardò le mani e vide sangue rosso vivo sulla punta delle dita.

Era piena notte e l'odore di terra e resina le pizzicò il naso.

Si guardò attorno spaventata, era sola e alte querce la circondavano da ogni lato. Colse un leggero fruscio, qualcosa era in agguato nel buio e i suoi piedi erano incollati al suolo ricoperto di foglie secche, incapaci di muoversi.

Udì l'urlo misterioso e si portò istintivamente le sue mani alla gola, sentendola vibrare.

Quel lamento era il suo.

Incapace a distinguere tra realtà e immaginazione, la sua mente iniziò a dipingere scenari terrificanti.

È colpa tua, solo colpa tua.

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